lunedì 13 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 26. Il successo del giovane Augusto Orsini e l'invidia di Ettore Ricci


L'ultima speranza della famiglia Orsini Balducci di Casemurate era interamente riposta nel giovane Augusto, l'unico figlio maschio vivente del Conte Achille e della Contessa Emilia.
Achille ed Emilia avevano avuto sei figli, ma tre di loro erano morti e dei tre rimanenti, le altre due erano donne sposate con uomini desiderosi di spartirsi l'eredità del Feudo Orsini.
Fin dall'inizio infatti, i mariti di Diana e Ginevra Orsini, e cioè Ettore Ricci e Giuseppe Papisco, erano perfettamente consapevoli del fatto che l'unica loro possibilità di rimanere a capo del Feudo Orsini era che il giovane Augusto Orsini non riuscisse a mettere insieme abbastanza soldi per pagare i debiti della famiglia.
L'educazione di Augusto era avvenuta secondo gli schemi della tradizione aristocratica, dando molta importanza alla cultura classica, agli sport e alle pubbliche relazioni, a cui si aggiunse, con l'andare del tempo, la passione del ragazzo per i motori e la tecnologia.
Come regalo per il suo ventesimo compleanno, nel 1947, Augusto ebbe una motocicletta all'avanguardia, con la quale si recava a Forlì, per poi prendere il treno per l'università di Bologna, dove studiava ingegneria.
Era un ottimo studente, ma senza bisogno di passare troppo tempo sui libri: la sua intelligenza e la sua memoria erano così brillanti che riusciva ad apprendere e ricordare anche i concetti più complessi in maniera molto rapida.
Ma quella non era la sua unica dote.
Era infatti molto bello, pieno di fascino, perfettamente coordinato nei movimenti e nei gesti, elegante in maniera classica, con grande stile, e infine anche molto gentile nei modi e simpatico nelle interazioni con gli altri.
Tutte le ragazze si innamoravano di lui.
C'erano molte fanciulle di ottima famiglia che avevano mostrato la loro disponibilità a sposarlo, portandogli in dote una quantità di denaro che sarebbe stata utilissima ai Conti Orsini per incominciare a riprendere il controllo del Feudo.
Augusto era molto galante con tutte e aveva incominciato a valutare quale scegliere, anche se sua sorella Diana gli aveva detto "sposati solo se sei innamorato, altrimenti rischierai di soffrire come me. E non fidarti mai di Ettore e dei suoi amici: tu sei l'ultimo ostacolo che si frappone tra loro e il controllo esclusivo del Feudo".
La famiglia Ricci aveva ancora in mano le ipoteche sui campi, sulle case coloniche e sui capannoni, e soltanto in minima parte aveva accettato di ritirarle.
Ci sarebbero voluti molti anni e moltissimi soldi per pagare quelle ipoteche, ma esisteva il rischio che Augusto Orsini, se fosse divenuto ingegnere e avesse sposato una ragazza ricca, avrebbe potuto, prima o poi, riuscire in quell'impresa.
Tutto questo era ben evidente alla famiglia Ricci.
Il vecchio Giorgio aveva detto che le ipoteche sarebbero state fatte valere prima che Augusto potesse essere in grado di pagarle: in quel modo la proprietà del Feudo sarebbe comunque passata alla famiglia Ricci.
Ma c'era di più.
Ettore Ricci provava, nei confronti del cognato Augusto Orsini, un'invidia destinata a crescere nel tempo.
Ci sono due tipi di invidie: quella positiva, che si trasforma in ammirazione ed emulazione, e quella negativa, che si traduce in odio e azioni ostili.
Ettore era animato dalla seconda.
Una volta un contadino che lavorava nel Feudo era venuto alla Villa per "parlare col padrone".
Ettore aveva risposto: <<Ditemi pure, buon uomo>>
E lui: <<No, io cercavo il figlio del Conte: è così gentile con noi>>
Ettore aveva voglia di prendere a calci quel "maledetto villano", ma si trattenne, perché sapeva che la sua autorità ne sarebbe stata sminuita ulteriormente:
<<Sono io il padrone qui! Mettetevelo bene in testa!>>
Il contadino allora se ne andò senza dire nulla.
A Ettore tornò in mente tutta la serie di figuracce che aveva fatto nel Salotto Liberty, e a tutta la gente che aveva riso di lui, dei suoi modi grezzi, del suo eloquio volgare, della sua mancanza di stile e di bellezza.
Per la prima volta in vita sua si sentì respinto dalla Fortuna e defraudato dei suoi diritti.
Perché Augusto Orsini aveva avuto in sorte tante doti che lo rendevano vincente in tutto e amato da tutti, mentre lui, Ettore Ricci, consapevole della propria goffaggine, doveva stare sempre in guardia e combattere continuamente, anche con mezzi sleali, per mantenere il controllo di ciò che aveva conquistato (e non era poco) in anni di sforzi e di combattimenti?



p.s. Nella foto di copertina, il modello Baptiste Giabiconi

domenica 12 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 25. Il dopoguerra dei Monterovere

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Nel 1946 l'Azienza Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere tornò in attività e si inserì in un gruppo di Cooperative Rosse, ottenendo subito vari appalti per opere di canalizzazione e scolo nelle campagne dei faentino.
La sede legale fu spostata a Faenza, dove Romano Monterovere, sua moglie Giulia Lanni, e i suoi tre figli Francesco, Enrichetta e Lorenzo, si erano trasferiti.
L'alloggio era in condizioni pessime, ma aveva un vantaggio, e cioè che si trovava in un condominio comunale per famiglie bisognose con figli, e gli inquilini ricevevano le visite delle Dame di San Vincenzo.
Una di queste Dame, la contessa Zucconi, prese in simpatia i tre figli di Romano e Giulia, ed espresse la volontà di accollarsi le spese per dare loro "un'educazione completa e cristiana".
La nobile e nubile Flora Zucconi viveva in una grande villa insieme alle sorelle, anch'esse nubili.
Le sorelle Zucconi avevano scelto, per dare un senso alla loro vita, la missione di "salvare i bambini dal comunismo".
La famiglia Monterovere era stata etichettata subito come "stalinista" e "filo-sovietica", anche se le posizioni politiche dei vari membri erano molto distanti tra loro.
Il vecchio Enrico Monterovere ripeteva a figli e nipoti che lui era "per un socialismo democratico" e prese le distanze da Stalin, anche se pochi anni dopo, in una maniera del tutto imprevista, Stalin in persona, o meglio in spirito, lo punì.
Romano Monterovere non parlava mai di politica, forse perché suo suocero, l'ingegnere Lanni, era di opinioni molto diverse e certamente non di sinistra.
Ferdinando, il capo dell'Azienda, aveva sposato una donna molto religiosa, per cui lui stesso mantenne un basso profilo, pur facendo intendere ai funzionari del Partito Comunista che stava, comunque, dalla loro parte.
Tommaso Monterovere tornò dalla Francia più povero di quando era partito, e siccome non aveva nessuna intenzione di tornare a lavorare nell'Azienda dei fratelli, da cui si sentiva sfruttato, fu l'unico della famiglia ad iscriversi al PCI e a fare carriera politica nel suo ambito.
Molto defilata era la posizione di Anita, da un lato per il fatto di aver avuto il suo assaggio di socialismo jugoslavo mentre fuggiva da Fiume, e dall'altro, come insegnante riteneva professionalmente più giusto mantenere un atteggiamento super partes.
Anita Monterovere sostenne i figli dei suoi fratelli, aiutandoli negli studi.
Il suo preferito era Francesco, che però era anche il preferito della contessa Zucconi.
Quando il bambino compì i 10 anni, nel 1948, sia Anita che la Zucconi concordarono sul fatto che dovesse proseguire gli studi.
La famiglia non si oppose, ma non poteva ancora permettersi di sostenere le spese per un'educazione superiore. La zia Anita già si occupava dei genitori anziani e del mutuo fatto per un appartamento a Faenza, Non c'erano dunque disponibilità economiche.
La contessa Zucchini manifestò allora l'ideea che le era venuta fin dall'inizio e cioè che Francesco si sarebbe dovuto iscrivere al Seminario presso i Salesiani.
Questa proposta fu all'origine del secondo grande trauma dell'infanzia di Francesco (dopo gli anni della guerra e i periodi trascorsi nella stia dei polli durante i bombardamenti).
Il bambino infatti non aveva la più pallida idea di cosa significasse entrare in Seminario (in particolare riguardo al fatto che l'obiettivo di un seminarista è quello di diventare prete): credeva si trattasse di un collegio come gli altri e per questo diede la sua approvazione.
In seguito non seppe mai dire se questo fu un bene o un male, alla luce degli sviluppi successivi della sua vita, ma una cosa era certa, e cioè che fin dal primo giorno in cui mise piede in Seminario, Francesco Monterovere si sentì come rinchiuso in una prigione e passò il resto del tempo ad escogitare un modo per evadere.



p.s. In copertina una foto giovanile di Elisabetta II con il principe Filippo e i figli Carlo ed Anna.

Vite quasi parallele. Capitolo 24. Guerra civile nella Contea.

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Pur non trovandosi nel Triangolo Rosso, detto anche Triangolo della Morte, con vertici Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, anche la Contea di Casemurate dovette fare i conti con le vendette dei partigiani.
Una mattina, Ettore Ricci, insieme alle figlie maggiori, stava compiendo la sua quotidiana ispezione dei terreni centrali del Feudo Orsini, quando si trovò di fronte a una scena orribile, che rimase impressa nella memoria delle bambine e nei loro incubi.
Il maresciallo dei carabinieri era stato ucciso, quasi sicuramente dai partigiani, e il suo corpo giaceva a terra, con il teschio sfracellato.
Poco distante, altri corpi dilaniati e ammucchiati formavano una specie di avvertimento contro coloro che avevano collaborato con i tedeschi e con la RSI.
Ettore Ricci capì subito che aria tirava e, insieme ai suoi fratelli e ad altri parenti, fuggì in Svizzera, per rimanerci fintanto che le acque non si fossero calmate.
La sua assenza offrì un'occasione alla famiglia Braghiri per aumentare il proprio potere.
Michele Braghiri, che durante il periodo della RSI era rimasto defilato in secondo piano, nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione aveva preso contato con i partigiani e aveva offerto il proprio sostegno.
Da quel momento, seppur segretamente, Braghiri divenne il punto di riferimento del Partito Comunista nella Contea di Casemurate.
Il Partito, che intendeva creare in Emilia-Romagna un modello di socialismo compatibile con la proprietà privata, consigliò a Michele Braghiri di far entrare il Feudo in una Cooperativa, una mossa che avrebbe permesso un notevole risparmio fiscale.
Nel frattempo, mentre le vendette continuavano e i cadaveri di ex simpatizzanti fascisti spuntavano da ogni dove, quel che restava della dinastia Orsini Balducci di Casemurate e delle famiglie ad essa legate da vincolo di parentela, ci furono molte "grandi manovre" per cercare coperture politiche.
Per prima, naturalmente, si mosse la Signorina De Toschi, che si iscrisse alla Democrazia Cristiana e divenne il principale referente democristiano forlivese di quegli anni.
La De Toschi, essendo cugina del Conte Orsini, gli fornì una prima protezione.
Poi fu il turno del magistrato Papisco, che si iscrisse al Partito Repubblicano, e incominciò a raccontare alcune sue del tutto improbabili imprese durante la Resistenza.
Poiché Papisco era sposato con Ginevra Orsini, una delle due figlie sopravvissute del Conte, la dinastia poté considerarsi coperta anche sul fianco sinistro.
A quel punto il Conte Achille fece la sua mossa: si iscrisse al Partito Liberale, imparò a memoria i discorsi di Benedetto Croce, e incantò le platee citando l'eterno incipit "Heri dicebamus", con gli occhi gonfi di lacrime, specie quando accennava a sua figlia Isabella, presentata come martire e vittima dell'occupazione nazista.
E così gli Orsini riuscirono a salvare, nell'ordine, la vita, la famiglia, la Villa, il Feudo e la Contea.
Ma non tutti accettarono la situazione.
Un contadino con cui Ettore Ricci aveva litigato, e che era soprannominato "Baracca" per il luogo dove viveva, passava da un'osteria all'altra, ubriaco fradicio, a denunciare come "gli Orsini e la loro cricca si sono parati il culo".
Ma se questo era vero per gli Orsini, non era ancora vero per i Ricci, tanto che Adriana Ricci, sorella di Ettore, era stata fermata dai partigiani e rapata a zero. E così fece ritorno alla Villa, giurando vendetta.
Il vecchio Giorgio Ricci era riuscito a cavarsela versando un'enorme quantità di denaro nelle casse dei partiti che avevano fatto la Resistenza e aveva scritto ai figli che presto l'ordine sarebbe tornato a Casemurate.
E infatti l'ordine tornò nel 1946, permettendo il rimpatrio di Ettore Ricci e dei suoi fratelli.
A Villa Orsini ricevette un'accoglienza gelida.
Diana continuò a negargli l'accesso al talamo nuziale, e lui per il momento decise di soprassedere, in attesa di riprendere in mano il potere di un tempo.

sabato 11 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 23. Uno scandalo dietro l'altro

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Le SS si insediarono a Villa Orsini nel marzo del 1944, quando il fronte bellico della Linea Gotica stava salendo pericolosamente verso nord.
Si misero subito a scavare trincee lungo il torrente Bevano, che scorreva proprio di fianco alla Villa.
L'obiettivo dei tedeschi era quello di bloccare la Linea Gotica lungo il corso di quel torrente che proteggeva le trincee.
Ettore Ricci inizialmente riuscì a mantenere il controllo della Contea, accordandosi col tenente Muller, ma gli eventi successivi portarono famiglia Ricci-Orsini sull'orlo della catastrofe.
Le condizioni di salute di Diana erano peggiorate dopo un'incredibile episodio.
Durante un bombardamento particolarmente distruttivo, mentre lei era al nono mese di gravidanza, si ritrovò a correre verso il rifugio con le figlie per mano, ma a un certo punto scivolò e cadde nella trincea piena di tedeschi.
Questo incidente provocò la rottura delle acque e l'inizio del travaglio.
Nessuno avrebbe scommesso un centesimo bucato sulla sopravvivenza della puerpera e della neonata.
E invece entrambe sopravvissero.
Tale è l'insistenza della vita, persino nelle circostanze più avverse.
E fu così che la terza figlia, Isabella, nacque all'interno di un rifugio sotterraneo, durante un bombardamento nell'aprile del 1944, con la madre assistita soltanto dalla governante Ida Braghiri.
Ettore Ricci si infuriò:
<<Ma come? Un'altra figlia? Io volevo il maschio!>>
Diana, che ormai lo conosceva troppo bene per replicare a tono, si limitò a porre condizioni:
<<Soltanto se la smetti di fare il cascamorto con mia sorella! Credi che non me ne sia accorta? Pensi che gli occhi mi siano rimasti soltanto per piangere?>>
Ettore si era preparato da tempo una risposta convincente:
<<Ma non capisci? Lo sto facendo solo per impedire che il tenente Muller la seduca o peggio ancora la prenda con la forza!>>
Questa affermazione non era del tutto priva di fondamento.
Ettore Ricci sapeva, infatti, che il vero mentitore non è colui che dice bugie, ma chi dice soltanto mezze verità.
L'altra parte della verità era che Ettore aveva le stesse intenzioni di Muller.
Solo che, mentre le avances di Ettore erano rifiutate dalla giovane cognata Isabella Orsini, quelle del tenente Muller, un ariano biondo e dal fisico scolpito, erano accettate con una certa civetteria.
Già verso la fine del '44, nel buio dei rifugi, per passare il tempo, la gente chiacchierava dell'argomento più scandaloso mai accaduto da quelle parti dai tempi in cui Lucrezia Spreti aveva tradito il marito Orsini con un taglialegna locale.
Ma gli scandali maggiori dovevano ancora venire.
Nel dicembre 1944, quando ormai il fronte era passato e ai tedeschi erano subentrati i Nepalesi dell'Impero Britannico, Isabella ebbe la certezza di essere incinta di almeno due mesi.
Non si confidò né con la sorella, né con i genitori. E fu un tragico errore.
Una fredda mattina del gennaio 1945, Isabella fu trovata impiccata a un ciliegio.
Allo strazio di sua sorella Diana e dei genitori, i Conti Orsini, si aggiunse la maldicenza della gente.
La stessa Ida Braghiri aveva confidato al marito:
<<Io te lo dicevo che non bisognava confondersi con i Ricci e con gli Orsini. E' gente strana, pazza. La loro storia, la loro vita, tutta la loro esistenza non è altro che uno scandalo dietro l'altro>>
Michele però la riportò al pragmatismo:
<<Non bisogna sputare sul piatto in cui si mangia. Gli scandali stanno indebolendo la famiglia Ricci-Orsini, ma noi non siamo ancora così forti da poter prendere il controllo del Feudo. Bisogna salvare le apparenze, accumulare denaro e potere e, quando saremo finalmente pronti, aspettare il momento adatto per colpire. Tanto, se è vero che la loro vita è uno scandalo dietro l'altro, le occasioni future non mancheranno>>
Ida lodò la sagacia del marito e fece proprio il suo piano.
Del resto, i fatti davano ragione alla prudenza di Michele.
Le indagini sulle circostanze della morte di Isabella Orsini furono molto discrete.
Il federale e milizano Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia fu incaricato del caso, e il giudice Giuseppe Papisco controllò di persona lo svolgimento delle indagini. Entrambi erano cognati di Ettore Ricci.
Alla fine l'autopsia si limitò a constatare le cause del decesso, senza riportare la descrizione di altre particolari lesioni, che pure alcuni avevano creduto di vedere, ma la cosa più atroce fu il fatto che il bambino che Isabella portava in grembo era già ben formato ed era un maschio, cosa che provocò un sussulto di angoscia in Ettore Ricci.
Non si seppe mai chi era il padre del bambino, anche se tutti sapevano che Isabella era corteggiata sia dal tenente Muller che da Ettore.
Il caso fu chiuso in fretta e archiviato come suicidio, anche se Diana e i Conti Orsini sostenevano che Isabella, se mai avesse voluto togliersi la vita, non l'avrebbe mai fatto in quel modo. Piuttosto avrebbe ingerito delle pillole.
La tragedia, gli scandali e le conseguenze della guerra acuirono l'alcolismo della Contessa Emilia e la gastrite corrosiva del Conte Achille, ma quella che reagì peggio fu Diana.
Dopo aver passato settimane a letto con un'emicrania lancinante e una febbre che persisteva, attraversò prima una fase di rabbia, in cui attaccò frontalmente il marito:
<<La causa di tutti i mai sei tu, Ettore! E ti giuro che non metterai più piede nel mio letto! Se lo farai, ti strapperò i genitali a morsi... sei avvisato...>>
Lui bofonchiò qualcosa relativo al "figlio maschio" che lei aveva il dovere di dargli e poi decise di lasciar passare la crisi. Ma dopo la rabbia venne la depressione, acuita dal recente parto in condizioni estreme.
La famiglia Ricci-Orsini credeva di aver toccato il fondo, ma il peggio doveva ancora venire.

venerdì 10 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 22. Arriva la bufera


Quando l'Italia entrò in guerra, nel 1940, nessun abitante della Contea di Casemurate ricevette una chiamata alle armi.
Come sempre, dietro a questa anomalia, c'era lo zampino (o meglio lo zampone) della Signorina De Toschi e degli ex-attendenti di suo padre, il Generale.
Il business funzionava così: i casemuratensi si rivolgevano ad Ettore Ricci, pagandogli una cifra cospicua, e lui faceva da intermediario con la Signorina, che era cugina di suo suocero, il Conte Orsini.
La Signorina si intascava la metà della somma, il che la rese ancora più tremendamente ricca di quanto era già prima.
Ma anche Ettore Ricci si arricchì, e anzi fu da questo affare che incominciò una carriera autonoma, rispetto a quella del padre, il vecchio Giorgio, usuraio e riciclatore di denaro di dubbia provenienza tramite le aziende dei vari membri della famiglia Ricci.
Il braccio destro di Ettore negli affari era Michele Braghiri, il marito della Governante di Villa Orsini, che era stato nominato ufficialmente Amministratore Delegato del Feudo.
Molto personale fu assunto sia per l'amministrazione del Feudo che per il servizio nella Villa.
Ettore era tranquillo, anche perché poteva contare sulla copertura del cognato "Compagnia bella" Tartaglia, segretario federale del partito fascista e capo della Milizia locale, e del marito di sua cognata Ginevra, il giudice Papisco, del Tribunale di Forlì.
Per quanto la sua fede fascista fosse molto forte, Ettore Ricci si accorse ben presto che le cose, per l'Italia in guerra, si stavano mettendo molto male.
Incominciarono i bombardamenti degli anglo-americani.
Ettore prese subito in mano la situazione facendo costruire nelle sue terre un enorme rifugio antiaereo, e assunse personale per raccogliere le lamiere delle bombe esplose, che avrebbe poi venduto come materia prima metallica alla fine della guerra, con notevole profitto.
Quando i bombardamenti divennero più frequenti, incessanti e devastanti, la situazione precipitò.
Diana aveva già due figlie, Margherita e Silvia, ed era appena rimasta incinta della terza.
Le preoccupazioni della maternità e della guerra le causarono vari malanni, tra cui una sempre più lancinante emicrania.
Ma tutto quello era niente rispetto a ciò che l'attendeva.
Quando il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo tolse la fiducia al governo Mussolini, che venne poi arrestato dal Re e imprigionato al Gran Sasso, tutti i membri della famiglia Ricci, che erano fascisti, si trovarono in una posizione di imbarazzo.
Che fare? Con chi schierarsi?
Non avevano ancora deciso, quando, l'8 settembre, arrivò la notizia dell'armistizio firmato da Badoglio con gli Americani, mentre il Re fuggiva a Brindisi e la Germania invadeva l'Italia del Nord.
A quel punto, dal momento che la Contea di Casemurate si trovava all'interno della Repubblica Sociale Italiana, guidata da Mussolini, liberato dai tedeschi, la famiglia Ricci si schierò apertamente con la RSI.
Durante tutto questo periodo, tuttavia, le attenzioni di Ettore Ricci non erano rivolte solo alla guerra, ma anche alla sorella di sua moglie, la bellissima Isabella Orsini.
Quello fu l'inizio di tutti i mali.

Vite quasi parallele. Capitolo 21. Il giudice Papisco alla corte degli Orsini

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Il giudice Giuseppe Papisco, corteggiatore di Ginevra Orsini, era un assiduo frequentatore della Villa e del Salotto Liberty da diversi anni, prima ancora di entrare nella magistratura.
Nato a Catanzaro nel 1906, si era laureato in Giurisprudenza all’Università di Reggio Calabria nel 1929. L’iscrizione ai Guf , Giovani Universitari Fascisti, (anche se in seguito, a regime caduto, disse che era in realtà un infiltrato del partito socialista) unito alla sua buona cultura classica lo aiutò nel vincere una borsa di studio per un Dottorato di ricerca in Diritto romano. Evitò il servizio militare a causa di una misteriosa allergia ai pollini. 
La sua tesi sul “Diritto nella Roma di Cesare” fu molto apprezzata non solo negli ambienti accademici, ma anche presso il partito fascista. Queste credenziali gli permisero di vincere un concorso come Ricercatore confermato di Diritto Romano all’Università di Bologna, nel 1933. Qui ebbe modo di conseguire anche l’Avvocatura, nel 1934.
Nello stesso anno entrò a far parte, grazie a una segnalazione di un barone universitario di cui era divenuto fedele seguace, del prestigioso studio legale Frassineti-Petrelli-Raffaroni, che assisteva in quel periodo proprio gli interessi della famiglia Orsini Balducci di Casemurate in una controversia con la famiglia Battoni Ghepardi riguardo ai costi di ristrutturazione di un palazzo in Via Belle Arti che questi ultimi avevano acquistato dai Conti Orsini una ventina d’anni prima. 
La causa si era protratta per le lunghe, considerato che la marchesa Cordelia Battoni Ghepardi aveva fatto causa pure alla Ditta appaltatrice del restauro, all’architetto che aveva presieduto i lavori, al notaio che aveva controfirmato la compravendita, all’agente mediatore del contratto, al portiere, al giardiniere, e persino a una famiglia di inquilini che abitavano da generazioni in una specie di sottoscala del palazzo.
Poiché si trattava di una gatta da pelare che in studio nessuno voleva, la causa fu affidata a Giuseppe Papisco, che così divenne legale della famiglia Orsini.
In verità come avvocato non si distinse gran che, e infatti la causa fu clamorosamente perduta, contribuendo in grande misura alla rovina economica dei Conti Orsini.
Tuttavia il suo fascino di uomo colto, di grande affabulatore e la sua figura azzimata, con tanto di baffetti e brillantina, conquistarono le simpatie della Contessa Emilia, che non solo lo volle come ospite fisso ai suoi ricevimenti, ma lo spronò a intraprendere la carriera di magistrato.
Giuseppe Papisco, pur avendo molti titoli ed essendo ben introdotto nell'alta società e nel partito fascista, temeva di non riuscire in quel grande intento, a causa della mancanza di un protettore che avesse influenza ad altissimo livello.
La Contessa Emilia, ascoltate queste sue perplessità, aveva dichiarato: <<In questi casi non c'è che la Signorina De Toschi>>
<<Chi?>> aveva chiesto Papisco.
<<Ma come chi? La figlia del Generale Ardito De Toschi e della compianta Violetta Orsini, zia di mio marito>>
<<E come potrebbe aiutarmi?>>
<<Gli ex-attendenti di suo padre hanno fatto carriera in tutti i meandri della Pubblica Amministrazione. Se c'è un concorso da superare, c'è sempre un attendente del Generale De Toschi pronto a metterci una buona parola. Mi creda, l'esito positivo è sicuro>>
Papisco era ancora perplesso:
<<Ma per questa "buona parola" la Signorina non vuole niente in cambio?>>
La Contessa Emilia sorrise:
<<Be'... capirà, avvocato, la Signorina si sente molto sola... ci parla spesso del freddo del suo letto, della mancanza di un abbraccio... naturalmente senza impegno, nel senso che ha un'età ormai molto avanzata>>
Papisco aveva capito:
<<Ma, se posso permettermi, com'è fisicamente, questa Signorina?>>
<<Dunque, ad essere sinceri è un po' in carne... e poi l'età... però Santo Cielo, Parigi val bene una Messa!>>
E così l'avvocato Papisco trascorse qualche tempo presso il Villino De Toschi.
Fu sufficiente.
Nel 1938 il promettente Giuseppe Papisco vinse il concorso di ammissione alla magistratura e, sempre grazie a una buona parola di un ex-attendente del Generale De Toschi, ottenne persino il suo primo incarico nel Tribunale di Forlì, per poter così stare vicino alla famiglia Orsini.
Nel 1939 partecipò al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
Il vecchio Giorgio Ricci se lo fece subito amico, con una serie di regali ed elargizioni che permisero al giudice Papisco di comprare una palazzina nel centro di Forlì.
Ettore Ricci a sua volta ritenne che fosse fondamentale avere un giudice dalla propria parte, e in questo si rivelò lungimirante.
Nel 1940 Giuseppe Papisco sposò Ginevra Orsini, entrando a pieno titolo nella famiglia.
Ma il prezzo da pagare per quella sua scalata sarebbe stato molto alto.

giovedì 9 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 20. Come ai tempi di Jane Austen

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Sia Ettore Ricci che sua moglie Diana Orsini avevano due sorelle che si avvicinavano all'età da marito e che erano pronte per il debutto in società.
Era il 1939, ma sembrava che il tempo si fosse fermato al 1810.
La Contea di Casemurate dei tempi prima della guerra era, come faceva notare la stessa Contessa Emilia Orsini, "in un certo qual modo simile alle campagne inglesi del periodo Regency".
C'era una certa dose di esagerazione in quelle frasi, ma per quel che riguardava l'ossessione del far fare alle figlie un buon matrimonio, sembrava di vivere davvero come dentro un romanzo di Jane Austen.
Diana aveva letto tutti i romanzi della scrittrice inglese, e poi anche quelli delle sorelle Bronte, fino ad avventurarsi in letture considerate all'epoca del tutto licenziose, come i romanzi di D.H. Lawrence, in particolare "L'amante di Lady Chatterley", leggendo il quale si era sentita particolarmente solidale con le esigenze della Lady.
Il suo matrimonio senza amore era reso sopportabile solo dal fatto che lei non aveva avuto occasione di innamorarsi di qualcun altro.
La gravidanza, giunta quasi immediata, addolciva la sua situazione, poiché desiderava molto diventare madre.
Molto più difficile fu sopportare l'insediamento delle cognate a Villa Orsini.
Le due sorelle di Ettore Ricci, Carolina e Adriana, erano acide e lunatiche.
Carolina aveva una faccia tonda e un corpo pingue, vagamente riscattati dai capelli chiari e dagli occhi azzurri, ma il suo carattere era grossolano fino al punto di spingersi a fare battute sconce e ricorrere frequentemente al turpiloquio e ad imprecazioni da caserma.
Il suo corteggiatore era un membro della Milizia fascista, un certo Onofrio Tartaglia, un omaccione gradasso molto amico di Ettore Ricci, che lo aveva invitato apposta ai ricevimenti a Villa Orsini.
Tartaglia, detto "Compagnia Bella", a causa del frequente uso di quell'intercalare e del fatto che la sua compagnia fosse tutt'altro che bella.
Adriana al contrario aveva una faccia secca, puntuta, e un corpo scheletrico e piatto: i suoi occhi erano spiritati e infuocati, come quelli del vecchio Giorgio Ricci, da cui aveva appreso le passioni per l'usura e per la politica.
Nessun pretendente si era fatto avanti.
Fin dal suo ingresso a Villa Orsini, tutti la detestarono, ma nel contempo iniziarono a temerla.
Al contrario le sorelle di Diana non portavano niente in dote, ma erano bellissime e dolci.
Ginevra Orsini assomigliava alla madre, da cui aveva preso i capelli rossi, gli occhi azzurri e la pelle lentigginosa. Era timida e docile, e parlava con una voce flautata che la rendeva ancora più eterea.
Un giovane magistrato di Forlì, Giuseppe Papisco, era attratto in maniera spasmodica da Ginevra Orsini.
Era un uomo raffinato e colto, paziente e diplomatico.
"Potrebbe funzionare", pensò Diana, vedendoli insieme.
Le sue preoccupazioni riguardavano più che altro la sorella più giovane, che era la perla più preziosa della famiglia.
Isabella Orsini era stupenda: una delle giovani donne più belle che si fossero mai viste da quelle parti, a memoria d'uomo.
Mora, slanciata, con fisico snello da odalisca, viso ovale, occhi intensi, labbra piene, lineamenti regolari e dolci, sorriso irresistibile.

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E questa sua eccessiva bellezza fu una delle cause della sua rovina.
Successe infatti qualcosa che andava al di là di ogni più fantasiosa previsione.
Suo cognato Ettore Ricci, che non l'aveva mai vista prima di sposare sua sorella, rimase abbagliato da quella bellezza così irresistibile.
Tutto l'amore che aveva provato per Diana incominciò, lentamente, ma inesorabilmente, a convogliarsi verso di lei, tanto da renderlo geloso di ognuno degli innumerevoli corteggiatori che si facevano avanti per ricevere anche un solo sorriso da parte di Isabella.

Vite quasi parallele. Capitolo 19. La prima notte di nozze e la pendola sul muro

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Nel bel mezzo dell'amplesso, poco prima che Ettore Ricci raggiungesse l'acme del piacere, sua moglie Diana se ne uscì con una frase sconcertante:
<<La pendola sul muro è indietro di un'ora>>
La governante Ida Braghiri, che era rimasta a bada della camera degli sposi, come era tradizione, perché qualcuno doveva pur testimoniare che il matrimonio era stato regolarmente consumato da entrambi i coniugi nello stesso momento, sparse in giro la notizia di quell'incredibile frase:
<<A un certo punto, mentre lui ci dava sotto da un po', ho sentito lei che ha detto: "Quella pendola sul muro è indietro di un'ora". Lui ci dev'essere rimasto male. 
Insomma, nessuno pretende che la moglie debba far finta, ma tirare fuori quella storia della pendola!>>
Michele Braghiri, che si vantava di essere un grande amatore, prese le parti di Diana:
<<E' appesa proprio nella parete di fronte al letto. Si vede che lei doveva passare il tempo... >>
La signora Ida scosse il faccione paonazzo:
<<Ma era la prima notte... E lei era vergine!>>
<<Hai controllato il lenzuolo?>>
<<Ma certo! Dovevo pur testimoniare che tutto era stato fatto in regola!>>
Daniele annuì:
<<Be', dai, almeno questo dente ce lo siamo tolto>>
In ogni caso, quella pendola non suonò mai più i rintocchi delle ore a Villa Orsini, ma non fu nemmeno buttata via.
Diana la conservò in segreto come ricordo della sua resistenza passiva durante la prima notte di nozze e la donò, molto tempo dopo, alla sua secondogenita Silvia, la preferita, il giorno in cui anch'ella si sposò.
Da allora rimase nell'atrio dell'appartamento di Silvia Ricci e di suo marito.
Ettore, quando la rivide, fece finta di non riconoscerla.
E fu sera e fu mattina.
Il giorno dopo, Ettore Ricci esaminò nel dettaglio la Villa:
<<Questa casa è vecchia>> commentò.
<<E' antica>> lo corresse lei <<E' stata costruita in età vittoriana>>
<<Sotto Vittorio Emanuele II?>>
<<Per età vittoriana si intende la regina Vittoria del Regno Unito>>
<<Ah, quella vecchia babbiona! Dicono che se la intendesse con uno stalliere. Non so come avrà fatto quel poveretto>>
Ma a quel punto gli tornò in mente la storia della pendola e, offeso nella sua dignità di maschio, sbottò:
<<Fosse per me, butterei giù tutto e costruirei una casa nuova. Ma visto che a voi piacciono le cose vecchie, cercheremo di fare delle ristrutturazioni. Mi costeranno un occhio della testa, ma alla fine lo faccio anche per voi, perché la mia famiglia siete voi poveracci! Voi disgraziati! Eh sì, eh sì... Ma lo dico con affetto, ...>>
Diana non replicò; in fondo si sentiva un po' in colpa per averlo umiliato in quel modo.
Ma a farla arrabbiare era stato il fatto che la famiglia Ricci non avesse mantenuto del tutto le promesse.
Era stato il vecchio Giorgio Ricci a spiegare al figlio Ettore come intendeva gestire la questione :
<<Ho tolto le ipoteche dalla Villa, come avevo promesso al Conte, ma per quanto riguarda le ipoteche sul Feudo, lo farò un poco alla volta, perché gli Orsini debbono sempre ricordare che siamo noi a tenere il coltello dalla parte del manico>>
Ettore aveva concordato e, forte di quel seppur metaforico coltello, si era insediato a Villa Orsini con un atteggiamento da padrone.
Nei giorni successivi la sua frenesia si manifestò in maniera simile a quella con cui Urbano VIII Barberini si era avventato su Roma per ricostruirla a sua immagine.
E così', in breve tempo, Ettore fece riaprire le ali della Villa che erano state chiuse per risparmiare.
<<Qui faremo le stanze degli ospiti. Può darsi che le mie sorelle vengano a stare qui per un po', prima di maritarsi, a imparare un po' di etichetta dalla tua Contessa madre, almeno nei momenti in cui è sobria>>
<<Senti Ettore, cerca di non fare delle battute pesanti sui miei. Non tanto per me, quanto per i miei fratelli, sono ancora troppo giovani e non capirebbero>>
Lui sbuffò:
<<Sì, sì... ma distruggi quella pendola, perché se la rivedo, giuro che la tiro in testa a qualcuno>>
<<L'ho già fatta sparire>>
<<Bene! Adesso bisogna organizzare un po' di feste da ballo per trovare marito alle mie sorelle, e anche alle tue. Dobbiamo imparentarci coi pezzi grossi, se vogliamo contare qualcosa. Ho in mente dei grandi progetti! Aspetta e vedrai!>>


mercoledì 8 febbraio 2017

I luoghi del Kalevala

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Pohjola è una località a cui fa riferimento la mitologia finlandese, identificando in Pohja il centro della terra del Nord, la regione polare, e nel regno del Kaleva, la terra dei Sami. La parola pohja in finlandese corrente significa fondo, fondamenta, base, e dà origine alla parola pohjois che significa nord.
Nel mondo reale, Pohjola include territori della Lapponia e dell'antico Kainuu. Pohjola può anche essere pensata semplicemente come luogo mitico, la fonte del Male, una lontana terra del Nord, ostile e fredda, da cui provengono le malattie e il gelo. Pohjola è nemica di Väinölä, la terra di Kaleva.
Nella mitologia, la Signora di Pohjola è Louhi, una strega malvagia dotata di grandi poteri. Il grande fabbro Seppo Ilmarinen forgia Sampo su suo ordine e gliela consegna in pagamento per ottenere la mano di sua figlia. Sampo è una magica macina di abbondanza (come la Cornucopia), che produce abbondanza per la gente di Pohjola, ma il suo coperchio è un simbolo della volta celeste, trapuntata di stelle, che ruota attorno ad un asse o colonna centrale del mondo.
Altri personaggi del Kalevala cercarono il matrimonio con le figlie di Pohjola. Questi comprendono l'avventuriero Lemminkäinen e il grande saggio Väinämöinen. Louhi richiese ad essi miracoli simili alla forgiatura di Sampo, come abbattere il Cigno di Tuonela. Quando il pretendente riusciva ad ottenere una figlia, matrimoni e grandi feste si tenevano nel salone di Pohjola.
Le fondamenta della colonna del mondo, le radici di questo "albero del mondo", erano situate, dal punto di vista della mitologia finnica, in un punto appena oltre l'orizzonte settentrionale, nel Pohjola. La forgiatura di Sampo e lo sfruttamento della sua abbondanza da parte della strega Louhi, all'interno di una grande montagna nella zona più oscura del Pohjola; la lotta e la guerra delle genti del sud per liberare Sampo e usarla per i propri bisogni, e la conseguente rottura di Sampo e la perdita dell'importante coperchio (che implica la rottura dell'albero del mondo al polo nord) costituiscono assieme il nucleo del materiale del Kalevala.

I protagonisti del Kalevala

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Väinämöinen, chiamato anche Vanemuine in estone e Вяйнямёйнeн (Vjajnjamëjnen) in russo, è un personaggio della mitologia ugro-finnica e uno dei protagonisti del poema Kalevala.
Nato già vecchio dopo una gestazione lunga settecento anni da parte di Ilmatar, Väinämöinen dopo sette anni in mare giunge sulla terra ferma, chiamando poi Sampsa Pellervoinen per la semina e la crescita della vegetazione.
È diffuso in Finlandia il nome proprio di persona Väinö, direttamente derivato da quello di Väinämöinen.
Ilmarinen, chiamato anche Ilmaris dagli estoni, è un personaggio della mitologia finnica. Si tratta di uno dei protagonisti del poema epico Kalevala assieme a Väinämöinen e Lemminkäinen.
Ilmarinen viene descritto come un abilissimo fabbro, e la sua più importante opera è la forgiatura del mitico Sampo, oggetto che risulterà centrale nelle vicende del Kalevala. Ilmarinen compare per la prima volta citato da Väinämöinen come colui che ha le abilità per forgiare il Sampo, nel runo VII:
(FI)
« Vaka vanha Väinämöinen sanan virkkoi, noin nimesi:
«Taia en sampoa takoa,
kirjokantta kirjoitella.
Saata mie omille maille:
työnnän seppo Ilmarisen,
joka samposi takovi,
kirjokannet kalkuttavi,
neitosi lepyttelevi,
tyttäresi tyy'yttävi. »
(IT)
« Il verace Väinämöinen disse allor queste parole:
«Non so il Sampo fabbricare,
né il coperchio io so fregiare;
ma tornato a casa mia
Ilmari fabbro ti mando;
ei può il Sampo fabbricare,
il coperchio ei sa fregiare,
la ragazza rallegrare,
la tua figlia contestare. »
(Kalevala, canto VII, versi 323-332, tratto da Bifröst.it)
Nel runo IX, invece, viene narrata la genesi del fabbro ed il suo interesse per il metallo e la lavorazione, il passaggio tramite fuoco e acqua dal ferro al duro acciaio, estendendosi fino al verso 265. Nel canto decimo Väinämöinen convince con arti magiche il fabbro a recarsi a Pohjola per fabbricare il Sampo ed avere in sposa la fanciulla di Pohjola, una volta forgiata però la magica macina, la fanciulla oppone resistenza e Ilmarinen, ottenuta una barca, torna a casa raccontando la vicenda della fucinatura a Väinämöinen.
Il Kalevala offre a questo punto una sorta di gara tra spasimanti per la fanciulla di Pohjola, da una parte Väinämöinen, che dopo aver costruito una barca magica parte alla volta della terra del nord, e Ilmarinen che venuto a saperlo parte a cavallo. La strega Louhi consiglia alla fanciulla di scegliere il più anziano ma ella invece propende per Ilmarinen a cui vengono imposte prove difficili che egli supera anche grazie all'aiuto della fanciulla. Vengono predisposti i festeggiamenti per le nozze a cui vengono invitati tutti tranne Lemminkäinen
Lemminkäinen è il dio della magia nella mitologia finlandese, fratello di Ainikki e uno degli eroi di Kalevala. Tra i suoi appellativi vi sono:
  • Ahti
  • Saarelainen ("Isolano")
  • Kaukomieli o Kauko ("Colui che guarda lontano")
  • Lemminpoika ("Figlio di Lempi")
Lemminkäinen chiese a Louhi, signora delle terre del nord, la mano della figlia. Per dimostrare di esserne degno doveva superare tre prove: catturare l'alce di Hiisi, domarne lo stallone infuocato e uccidere il cigno a guardia del fiume dell'oltretomba Tuonela. Lemminkäinen superò le prime due prove ma fallì nell'ultima impresa poiché un pastore era di guardia sul fiume. Quest'ultimo, infatti, riuscì ad uccidere Lemminkäinen, lo fece a pezzi e lo gettò nel fiume. La madre di Lemminkäinen lo riesumò tuttavia dal fiume, ne ricompose il cadavere e lo riportò in vita.
Insieme a Väinämöinen e ad Ilmarinen tentò di rubare il Sampo a Louhi. Fu tuttavia distrutto durante il tentativo.
Louhi è secondo la mitologia ugro-finnica la regina della terra settentrionale di Pohjola. Promette agli uomini le sue figlie stupende in cambio di prove quasi impossibili. Uccide tutti coloro che terminano con successo le sue prove.
Louhi è in grado di trasformarsi in una ruota gigante e di rinchiudere in una grotta il sole e la luna.
VäinämöinenIlmarinen e Lemminkäinen vollero rubare a Louhi il Sampo. Louhi si tramutò in una ruota gigante per proteggere il sampo, ma così facendo lo distrusse.

Kalevala: il poema epico finlandese che ispirò il Silmarillion di Tolkien

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Il Kalevala è un poema epico composto da Elias Lönnrot nella metà dell'Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia (soprattutto in careliano, un dialetto strettamente correlato al finlandese).
"Kalevala" significa letteralmente "Terra di Kaleva", ossia la FinlandiaKaleva è infatti il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica, ricordato sia in questo testo che nella saga estone del Kalevipoeg. Il Kalevala è dunque l'epopea nazionale finlandese.
Lönnrot assemblò (come già fece Geoffrey di Monmouth con il ciclo arturiano) e ricostruì la memoria storica delle genti finniche attraverso la massa dei canti prodotti dalla loro poesia tradizionale, riunendone in una sola opera la cosmogonia iniziale e il ciclo eroico/mitologico.
Famosi alcuni cantori quali un certo Arhippa Perttunen (come venne chiamato dallo stesso Lönnrot nella prefazione dell'edizione del 1835), che si dice conoscesse a memoria più di mille canti. Il poema è tuttora cantato e conosciuto a memoria da alcuni anziani bardi dell'area dei laghi, in cui il Kalevala è nato e si è diffuso nei secoli. Nelle buie sere invernali, i convenuti si accomodavano su una panca ed ascoltavano le gesta dei vari eroi, creatori del mondo e della cultura di quel popolo. Il racconto, in metrica, veniva cantato dallo scaldo aiutato dal ritmo battuto su un tamburo col bordo di betulla e la pelle di renna. L'effetto era ipnotico ed atto a riprodurre uno stato di trance. Seppur in maniera non dichiarata, l'incontro portava in sé valenze sciamaniche e contenuti esoterici.
La versione del 1849 è composta da 50 canti, o runi (runot), i cui versi sono in metro runico (motivo per cui i cantori sono chiamati runoja). La precedente versione del 1835, di 32 canti, era incompleta. Entrambe le versioni sono corredate da una prefazione che riassume i metodi ed il contesto seguito dall'autore per la composizione del poema, oltre che la citazione di precedenti opere di raccolta del materiale sulla poesia tradizionale, come quella in cinque parti del medico Zachris Topelius tra il 1822 ed il 1831.

Traduzioni italiane

Quattro le traduzioni del Kalevala: la prima in endecasillabi di Igino Cocchi (1909), la seconda, in ottonari (il metro del testo finnico), di Paolo Emilio Pavolini (1910). La terza, in prosa, nel 1912 di Francesco di Silvestri-Falconieri. Dal novembre 2007 è disponibile la traduzione integrale di Pavolini in una nuova edizione italiana curata da Cecilia Barella e Roberto Arduini per la casa editrice Il Cerchio di Rimini. Nel 2010 è stata pubblicata la prima traduzione filologica in versi liberi a cura di Marcello Ganassini di Camerati per le edizioni Mediterranee.
Parti della prima versione del Kalevala sono state tradotte dall'attrice e drammaturga Ulla Alasjärvi e presentate in uno spettacolo che del Kalevala vuole riproporre spirito ed atmosfera.

Il poema


Akseli Gallen-KallelaLa difesa del Sampo1896.

I personaggi

I personaggi principali sono Väinämöinen, eroe saggio e scaldo divino nato dalla Vergine dell'aria Ilmatar, il fabbro Ilmarinen, che rappresenta l'eterna ingegnosità, e il guerriero seduttore Lemminkäinen, simbolicamente il lato guerresco e sensuale dell'uomo. In breve, il Kalevala racconta della lotta dei tre protagonisti contro Louhi, signora del paese di Pohjola (la Terra del Nord, rivale di Kalevala, la Terra del Sud), per il possesso del Sampo, magico mulino forgiato da Ilmarinen, portatore di benessere e prosperità.





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La vicenda


Analisi critica

Domenico Comparetti[1] ha definito il Kalevala come il solo esempio di poema nazionale veramente risultante da canti minori, non ritrovati in esso per principi presupposti o per analisi critica induttiva, ma noti come realmente esistenti indipendentemente dal poema.
Lo strato più antico del materiale presente nel poema presenta una connotazione mitologica prima ancora che eroica, come osservò nel 1845 Jakob Grimm. Nel corso poi degli anni, gli studi hanno individuato vari nuclei che componevano il poema. Nella postfazione al Kalevala italiano del 2007Cecilia Barella individua:
  • runi 1-10: primo ciclo di Väinämöinen
  • runi 11-15: primo ciclo di Lemminkäinen
  • runi 16-18: secondo ciclo di Väinämöinen
  • runi 19-25: nozze di Ilmarinen
  • runi 26-30: secondo ciclo di Lemminkäinen
  • runi 31-36: ciclo di Kullervo
  • runi 37-38: secondo ciclo di Ilmarinen
  • runi 39-44: furto del Sampo, detto anche terzo ciclo di Väinämöinen
  • runi 45-49: vendetta di Louhi
  • runo 50: ciclo di Marjatta

Opere ispirate al Kalevala


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Adattamenti cinematografici e televisivi

  • Nel 1959 viene distribuito il film di co-produzione finnico-sovietica Sampo (titolo inglese: The Day the Earth Froze), ispirato alla vicenda inerente al Sampo, tratta appunto dal Kalevala. Il regista è il russo Aleksandr Ptushko (l'autore di SadkoIl fiore di pietraIl conquistatore dei mongoliIl castello incantato, ecc.) e gli sceneggiatori Väinö Kaukonen, Viktor Vitkovich e Grigori Yagdfeld.
  • Nel 1982, la Yleisradio (YLE) produce una mini-serie tv, Rauta-aika (L'età del ferro) diretta da Kalle Holmberg. La serie è ambientata "durante i tempi del Kalevala" e basata sugli eventi che accadono nella saga. La parte 3/4 del programma vince il Prix Italia nel 1983.
  • Infine il curioso film d'arti marziali Jadesoturi (2006, titolo inglese: Jade Warrior) diretto da Antti-Jussi Annila, è anch'esso liberamente basato sul Kalevala, e ambientato in Finlandia e in Cina.

Note

  1. ^ Prefazione a Domenico Comparetti, Il Kalevala, o La poesia tradizionale dei finni: studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali.
  2. ^ Appendice 3 "Tolkien e il Kalevala", in Kalevala, traduzione in versi di Paolo E. Pavolini, a cura di Cecilia Barella e Roberto Arduini, il Cerchio, 2007.

Bibliografia

  • Il Kalevala, poema finnico. Traduzione di Igino Cocchi, introduzione di Domenico Ciàmpoli. Firenze: Società Tipografica Editrice Cooperativa, 1909. Milano: Amiedi 2008.
  • Kalevala: poema nazionale finnico, traduzione in versi di Paolo Emilio Pavolini, a cura di Cecilia Barella e Roberto Arduini. Firenze: Remo Sandron 1910. Rimini: Il Cerchio, 2007 ISBN 88-8474-148-3
  • Domenico Comparetti, Il Kalevala, o La poesia tradizionale dei finni: studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali. Roma: 1891. Milano: Guerini, 1989. ISBN 88-7802-072-9.
  • Kalevala epopea nazionale finlandese Traduzione di Francesco di Silvestri-Falconieri. Lanciano R.Carraba, Editore 1912
  • Elena Primicerio (riduzione per ragazzi). Il Kalevala - Finlandia terra d'eroi. Bemporad, Firenze 1941. Giunti-Marzocco, Firenze 1961, 1971. Giunti, Firenze 2007.
  • Ursula Synge (riduzione per ragazzi): Racconti finlandesi. Brescia: La Scuola 1980, 1987.
  • Kalévala: Miti incantesimi eroi, a cura di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini. Milano: Mondadori 1988, 1991.
  • Dario Giansanti, Il Kalevala, poema della natura e della parola creatrice, (articolo monografico sulla genesi, la religione e la mitologia del Kalevala). In "Minas Tirith" n. 22. Società Tolkieniana, Udine 2008.
  • Kalevala, il grande poema epico finlandese, traduzione e note di Marcello Ganassini. Roma: Edizioni Mediterranee 2010. ISBN 88-272-2058-5

martedì 7 febbraio 2017

E' morto Tzvetan Todorov, il filosofo che definì la categoria estetica del Fantastico

Tzvetan Todorov-Strasbourg 2011 (3).jpg

Cvetan (o Tzvetan) Todorov (in bulgaroЦветан Тодоров?Sofia1º marzo 1939 – Parigi7 febbraio 2017) è stato un filosofo e saggista bulgaro naturalizzato francese

Dopo il diploma, nel 1963, si è trasferito a Parigi, dove ha studiato filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Nel 1967-1968 ha insegnato alla Yale University ed è diventato ricercatore presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS) di Parigi. Dal 1983 al 1987 ha diretto il Centro di Ricerca sulle Arti e il Linguaggio (CRAL) di Parigi.
Dopo i primi lavori di critica letteraria sulla poetica dei formalisti russi, si è occupato di filosofia del linguaggio, disciplina che Todorov concepisce come parte della semiotica. Dagli anni ottanta ha svolto ricerche di tipo filosofico-antropologico come La conquista dell'America (1984) e Noi e gli altri (1989).
Si è poi occupato del ruolo del singolo e della sua responsabilità nella storia. I suoi interessi storici si sono concentrati su temi cruciali come la conquista dell'America e i campi di concentramento nazisti e stalinisti.
Ha pubblicato Le morali della storia (1991), Di fronte all'estremo (1992), una riflessione intensa sulle vittime dei lager e dei gulag, e Una tragedia vissuta (1995).
Le altre sue opere comprendono una ricerca sulle ragioni della socialità dell'uomo, La vita comune (1995), Le jardin imparfait (1998), un saggio sui totalitarismiMemoria del male, tentazione del bene (2000) e Il nuovo disordine mondiale (2003).
È stato visiting professor di numerose università, tra cui HarvardYaleColumbia e la University of California, Berkeley.
I suoi riconoscimenti comprendono la Medaglia di Bronzo del CNRS, il premio Charles Lévêque dell'Accademia Francese di Scienze Morali e Politiche, il primo premio Maugean dell'Académie Française e il Premio Nonino; è anche ufficiale dell'Ordine delle arti e delle lettere.
Nel 2007 è stato vincitore del premio "Dialogo tra i continenti" assegnato dal Premio Grinzane Cavour. Nel 2010 è stato ospite al Salone del Libro di Torino, ricevendo il Premio "Giuseppe Bonura" per la critica militante.

Opere principali


La letteratura fantastica è un saggio di Cvetan Todorov del 1970.

Il saggio è suddiviso in dieci capitoli così riassumibili:

Cap. 1. I generi letterari

Nell'individuazione dei generi letterari, si opera per induzione (come nel metodo scientifico). Deve essere salvaguardata l'applicabilità della teoria e la sua coerenza logica. Vengono criticate alcune classificazioni dei generi letterari operate da Frye: esse sono arbitrarie e non rispondono ad una teoria definita. L'attuale studio non mira ad una classificazione universale, vera ed assoluta ma solo a definire verità e osservazioni approssimative.

Cap. 2. Definizione del fantastico

The Winged Horse
Il fantastico è l'esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente sovrannaturale. L'esitazione della funzione lettore è la prima condizione del fantastico; la seconda condizione (facoltativa ma molto spesso presente) è che anche un personaggio può provare la stessa esitazione del lettore; la terza condizione impone che la lettura del testo non debba risultare poetica o allegorica.
Osservazioni: la tematica principale del fantastico non è il soprannaturale: non si può infatti concepire come una categoria che raggruppi tutto i testi a tematica soprannaturale (per quello ci sarà il meraviglioso). Il fantastico non si limita a tematizzare la paura.
L'ambiguità fantastica inoltre può essere di due tipi: esitazione sulla percezione (degli eventi da parte dei personaggi) ed esitazione sul linguaggio (dei personaggi riguardo agli eventi). Nel primo caso si esita sul nome da dare agli eventi (realtà o visione folle) nel secondo caso si esita sul nome da dare alle visioni (follia o superiorità).

Cap. 3. Lo strano ed il meraviglioso

Il fantastico dura soltanto il tempo di un'esitazione. Questa esitazione può durare per tutto il testo (in pochissimi casi) oppure può risolversi con una spiegazione razionale (andando nello strano) o con una spiegazione soprannaturale (andando nel meraviglioso). Quindi, più che essere un genere a sé, il fantastico è una barriera tra lo strano ed il meraviglioso.
Possiamo quindi fare una distinzione di generi più precisa:
  • lo strano puro;
  • il fantastico strano;
  • il fantastico meraviglioso;
  • il meraviglioso puro.
Nelle opere dello strano puro, si narrano avvenimenti che si possono spiegare mediante le leggi della ragione, ma che in un modo o nell'altro sono incredibili, straordinari, insoliti e che, per questo motivo, ci conferiscono una sensazione simile al fantastico (questo genere è però delimitato solo dalla parte del fantastico, dall'altra parte sfocia nella letteratura generale).
Nel fantastico strano, certi avvenimenti che nel corso della storia sembrano soprannaturali ricevono alla fine una spiegazione razionale. Il fantastico meraviglioso raccoglie i racconti che si presentano come fantastici e che terminano con un'accettazione del soprannaturale.
Il meraviglioso puro, alla stregua dello strano puro, non ha limitazioni ben definite: qui gli elementi soprannaturali non provocano nessuna reazione particolare né nei personaggi né nel lettore, ciò che caratterizza il meraviglioso è la natura soprannaturale stessa degli avvenimenti.
Per ben delimitare il meraviglioso puro, conviene eliminare diversi tipi di racconto nei quali al soprannaturale è possibile trovare ancora una certa giustificazione:
  1. meraviglioso iperbolico (modi di dire);
  2. meraviglioso esotico (eventi soprannaturali ma credibilissimi per i lettori del tempo);
  3. meraviglioso strumentale (strumenti allora impossibili ma risultati possibili nella storia);
  4. meraviglioso scientifico (la fantascienza).

Cap. 4. La poesia e l'allegoria

Il fantastico inoltre non deve essere confuso con la poesia e l'allegoria: la poesia (opposto di finzione) in quanto non rappresentativa e l'allegoria (opposto di senso letterale) in quanto rappresentante di un altro significato.
La finzione, che non può che essere presa in senso letterale, può essere fantastica. Inoltre individuiamo tre livelli di interazione tra allegoria e soprannaturale:
  • 1º livello - allegoria evidente, che viola la prima condizione di esistenza del fantastico (manca esitazione del lettore tra soprannaturale e non);
  • 2º livello - allegoria indiretta, che viola la terza condizione di esistenza del fantastico (manca lettura rigorosamente non allegorica);
  • 3º livello - allegoria esitante, che è in dubbio se violi la terza condizione di esistenza del fantastico (non si sa se farne lettura allegorica o meno).

Cap. 5. Il discorso fantastico

Finzione e senso letterale sono condizioni necessarie all'esistenza del fantastico.
Tratti dell'opera attinenti al suo aspetto verbale e sintattico ⇒ 3 proprietà strutturali del fantastico: la prima attiene all'enunciato, la seconda all'enunciazione, la terza all'aspetto sintattico.
  • A. Le figure retoriche sono legate al fantastico in 3 modi:
    • Prolungamento di una figura retorica che porta al soprannaturale (prolungamento iperbolico);
    • Realizzazione in senso proprio di un'espressione figurata;
    • Espressioni figurate che, sincronicamente, descrivono un fatto (“La statua sembra essere viva”).
  • B. La focalizzazione interna è quasi necessaria al fantastico, se il narratore è anche un personaggio l'effetto fantastico rende di più.
  • C. La composizione del racconto (aspetto sintattico) si basa sull'irreversibilità del tempo il quale implica una lettura lineare (dall'inizio alla fine) per non snaturare l'effetto sintattico.

Cap. 6. I temi del Fantastico: introduzione

Arpia
Affrontiamo ora l'aspetto semantico.
Gli avvenimenti strani sono condizione semantica necessaria al fantastico. Quali sono le funzioni degli avvenimenti “strani”? Suscitare un effetto particolare sul lettore, mantenere la suspense, descrivono l'universo fantastico che è della loro stessa natura. Ci soffermeremo sulla terza funzione.
I temi del fantastico sono contigui a quelli della letteratura, il che ci pone una domanda più generale: come parlare di ciò di cui parla la letteratura? Ci sono da temere due problemi: ridurre il tutto a contenuti o ridurre il tutto a forme.
Innanzi tutto, bisogna distinguere le interpretazioni critiche (solo contenuto) dallo studio dei temi (ci terremo lontani dall‘interpretazione come per l'analisi formale). Per l'analisi formale possedevamo una teoria globale, adesso, per l'analisi tematica, dovremo formulare una teoria tematica. La teoria tematica “sensualista” in pratica riduce le categorie tematiche ad ogni manifestazione sensibile ⇒ in questo modo non si forma una teoria che possa essere (per lo più) universalmente applicabile ai testi, bensì una serie infinita di termini concreti che variano sempre di testo in testo. Questo procedimento può essere usato per la critica ad un testo (passaggio di tema in tema). Il primo passo del nostro metodo consisterà in una divisione tra temi compresenti e temi incompatibili.

Cap. 7. I temi dell'Io

Partiamo dal gruppo dei temi che possono essere compresenti. Nella raccolta Le mille e una notte, elementi soprannaturali ⇒ due gruppi:
  • metamorfosi; esistenza di esseri soprannaturali che simboleggiano un sogno di potenza sugli eventi e (ancora meglio) la causalità di un evento ⇒ la causalità, quindi il pandeterminismo. Comune ad entrambi è la rottura del limite tra materia e spirito, quindi il principio generatore di questi gruppi di temi è «la possibilità di passaggio fisico tra spirito e materia».
Tale principio genera il pandeterminismo e la metamorfosi; ma anche la moltiplicazione della personalità, la soppressione della frontiera tra soggetto ed oggetto, la trasformazione del tempo e dello spazio. Questi sono i temi dell'Io.
Possiamo ancora caratterizzare questi temi dicendo che riguardano essenzialmente la strutturazione del rapporto tra l'uomo ed il mondo: siamo nel sistema percezione-coscienza. Il termine di percezione è importante e le opere legate a questa rete tematica ne fanno risaltare continuamente la tematica ed in modo particolare quella del senso della vista. Si potrebbe perciò designare tutti questi temi come «temi dello sguardo».

Cap. 8. I temi del Tu

I temi del Tu (la seconda rete tematica) sono quelli relativi alla sessualità. Questi temi sono incompatibili con quelli dell'Io. Come si sviluppano i temi di questa nuova rete tematica: il desiderio sessuale può diventare quanto di più essenziale nella vita, esso può prendere forme soprannaturali (il diavolo), esso può trasformarsi in incesto, in omosessualità, in amore orgiastico, in sadismo ⇒ violenza ⇒ morte ⇒ necrofilia.
Siamo partiti dal desiderio sessuale ed abbiamo visto come le sue tematiche nel fantastico si sviluppino come “perversioni” della sessualità. Il soprannaturale interviene (per aiutarli) quando l'amore, il sesso e la sessualità non sono condannati. Potremmo chiamare questa nuova rete di temi «Relazione dell'Uomo con il suo desiderio» e di conseguenza con il suo inconscio; l'uomo non è più soltanto osservatore ma entra in relazione dinamica con gli altri.

Cap. 9. I temi del fantastico: conclusione

Tre accostamenti: i temi dell'Io e l'universo dell'infanzia; i temi dell'io e la droga; i temi dell'io e la psicosi. L'infanzia, la droga, la schizofrenia e la psicosi hanno in comune un paradigma proprio anche dei temi dell'Io. Un altro accostamento che rivela analogie è quello tra i temi del tu e la nevrosi. Sul piano della teoria psicoanalitica la rete dei temi dell'Io corrisponde al sistema percezione-coscienza mentre la rete tematica del Tu corrisponde al sistema delle pulsioni inconsce. In pratica, i temi dell'Io (i temi dello sguardo) si fondano su una rottura della frontiera tra psichico e fisico, mentre i temi del Tu (i temi del discorso) si formano a partire dalla relazione che si stabilisce, nel discorso, tra due interlocutori. Infine, questa spartizione tematica divide in due tutta la letteratura.

Cap. 10. Letteratura e fantastico

Drago
Ci possiamo adesso porre la domanda: perché il fantastico? Questa domanda tiene conto delle funzioni del genere. Le funzioni sono due, una sociale ed una letteraria. La funzione sociale è quella di consentire un valicamento di certi confini inaccessibili. Ad esempio, i temi del Tu sono tutti trasgressivi di una legge morale.
La funzione del soprannaturale è quella di sottrarre il testo all'intervento della legge e quindi di consentire di trasgredirla. Il fantastico aveva quindi una funzione sociale prima dell'avvento della psicoanalisi. Fantastico e psicoanalisi parlano infatti delle stesse cose.
Per quanto riguarda la funzione letteraria, dobbiamo dividerla in tre parti: una funzione pragmatica (effetto a livello emozionale), una funzione semantica (il soprannaturale manifesta sé stesso) e una funzione sintattica (entra nello svolgimento del racconto).
Prendiamo l'ultima funzione: la struttura sintattica è simile in ogni racconto. C'è prima un equilibrio stabile, poi qualcosa che lo turba e alla fine c'è un nuovo equilibrio; il soprannaturale interviene negli episodi che cambiano l'equilibrio. Il soprannaturale è il mezzo più efficace per avere questo scatto narrativo.
Funzione sociale e funzione letteraria si identificano nella trasgressione di una legge. La funzione del fantastico stesso è quella di suscitare una reazione, di comunicare oltre il normale modo di comunicare. La letteratura, per comunicare oltre il normale ed il reale, doveva introdurre l'irreale nel reale ⇒ per sottolineare questo superamento.
La letteratura fantastica lascia due nozioni: quella della realtà e quella della letteratura. La letteratura del XX secolo ha perso questa funzione. Ne è un esempio La metamorfosi di Kafka: il lettore, messo di fronte ad un fatto soprannaturale, non è esaltato dalla sua straordinarietà ma deve finire con il riconoscerne la naturalità. L'uomo normale è appunto l'essere fantastico; il fantastico diventa la regola non l'eccezione. Ciò che nel fantastico era l'eccezione qui diventa una regola.

Edizioni

Ediz. originale
  • Cvetan Todorov, Introduction a la littérature fantastique, 1ª ed., Parigi, Éditions du Seuil, 1970, SBN IT\ICCU\CAG\0441552.
Ediz. italiane
  • Cvetan Todorov, La letteratura fantastica, "Argomenti", nº 29, Milano, Garzanti, 1977, SBN IT\ICCU\RAV\0018524.
  • Cvetan Todorov, La letteratura fantastica, tradotto da Elina Klersy Imberciadori, 5ª ed., Milano, Garzanti, 1995 [1981; 1985]ISBN 88-11-47285-7.
  • Cvetan Todorov, La letteratura fantastica, in Gli Elefanti, Milano, Feltrinelli, 2000, ISBN 88-11-66978-2.
  • Cvetan Todorov, La letteratura fantastica, tradotto da Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 2007, ISBN 978-88-11-66978-4.