venerdì 26 maggio 2017

Paesi in cui sono presenti basi militari degli Stati Uniti

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Situazione della guerra in Siria a fine maggio 2017



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Current military situation: RedSyrian governmentGreenSyrian oppositionYellowRojava (SDF), GreyIslamic State of Iraq and the Levant,
WhiteTahrir al-Sham (formerly known as the al-Nusra Front)


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La Siria riprende il controllo di gran parte del deserto orientale

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Current military situation: RedSyrian government Yellow: Hezbollah), GreyIslamic State of Iraq and the Levant,GreenSyrian oppositionWhiteTahrir al-Sham (formerly known as the al-Nusra Front)

Situazione della guerra in Siria a fine maggio 2017

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Lingue semitiche nel tempo e nello spazio

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giovedì 25 maggio 2017

Il mistero del sito archeologico di Göbekli Tepe

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Göbekli Tepe, Urfa.jpg

Göbekli Tepe (trad. collina tondeggiante in turco, Portasar in armeno, Girê Navokê in curdo) è un sito archeologico, situato a circa 18 km a nordest dalla città di Şanlıurfa (in arabo al-Ruha, in curdo Riha, talvolta chiamata semplicemente Urfa e nell'antichità Edessa) nell'odierna Turchia, presso il confine con la Siria, risalente all'inizio del Neolitico, (Neolitico preceramico A) o alla fine del Mesolitico.
Vi è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra: iniziato attorno al 9500 a.C.,[1] la sua erezione dovette interessare centinaia di uomini nell'arco di tre o cinque secoli.
Le più antiche testimonianze architettoniche note in precedenza erano le ziqqurat sumere, datate 5000 anni più tardi.
Intorno all'8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e volontariamente seppellito con terra portata dall'uomo.


Localizzazione

Göbekli Tepe è costituita da una collina artificiale alta circa 15 m e con un diametro di circa 300 m, situata sul punto più alto di un'elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città di Harran.[2]
Il sito utilizzato dall'uomo avrebbe avuto un'estensione da 300 a 500 m².

Storia degli scavi

La valenza archeologica di questa località fu riconosciuta nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell'età della pietra.
Il sito fu riscoperto trent'anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di strana forma che spuntavano dal terreno. La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell'Istituto archeologico germanico. Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell'Istituto archeologico germanico sotto la direzione di Klaus Schmidt, che dall'anno precedente stava lavorando in alcuni siti archeologici della regione.[2] Nel 2006 gli scavi passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

Resti archeologici


Altorilievo a forma di animale su una pietra a T
Gli scavi rimisero in luce un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco.
Sono inoltre stati rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 15 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l'utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini.
Sono state riportate in luce circa 40 pietre a forma di T, che raggiungono i 3 m di altezza. Per la maggior parte sono incise e vi sono raffigurati diversi animali (serpentianatregrutorivolpileonicinghialivacchescorpioniformiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici.
Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno.
Un'altra pietra a forma di T, estratta solo a metà dalla cava, è stata rinvenuta a circa 1 km dal sito. Aveva una lunghezza di circa 9 m ed era probabilmente destinata al santuario, ma una rottura costrinse ad abbandonare il lavoro.
Oltre alle pietre sono presenti sculture isolate, in argilla, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Confronti possono essere fatti con statue del medesimo tipo rinvenute nei siti di Nevalı Çori e di Nahal Hemar. Gli scultori dovevano svolgere la loro opera direttamente sull'altopiano del santuario, dove sono state rinvenute anche pietre non terminate e delle cavità a forma di scodella nella roccia argillosa, secondo una tecnica già utilizzata durante l'epipaleolitico per ottenere argilla per le sculture o per il legante argilloso utilizzato nelle murature.
Nella roccia sono anche presenti raffigurazioni di forme falliche, che forse risalgono ad epoche successive, trovando confronti nelle culture sumere e mesopotamiche (siti di ByblosNemrikHelwan e Aswad).

Interpretazioni

Le raffigurazioni di animali hanno permesso di ipotizzare un culto di tipo sciamanico, antecedente ai culti organizzati in pantheon di divinità delle culture sumera e mesopotamiche.
Lo studio degli strati di detriti accumulati sul fondo del lago di Van in Anatolia ha prodotto importanti informazioni sui cambiamenti climatici del periodo, individuando una consistente crescita della temperatura intorno al 9500 a.C. I resti di pollini presenti nei sedimenti hanno permesso di ricostruire una flora composta da querceginepri e mandorli. Fu forse il cambiamento climatico a determinare una progressiva sedentarizzazione delle genti che costruirono il sito. All'inizio degli anni novanta lo studioso di preistoria Jacques Cauvin ha ipotizzato[3] che lo sviluppo delle concezioni religiose avrebbe costituito una spinta alla sedentarizzazione, spingendo gli uomini a raggrupparsi per celebrare riti comunitari. Questa ipotesi ribalta completamente la concezione seguita fino a questo momento dagli studiosi, secondo cui la religione si sarebbe sviluppata solo in seguito al formarsi di insediamenti stabili causati dalla nascita dell'agricoltura.
La presenza di una così grande struttura monumentale, dimostra che anche precedentemente allo sviluppo dell'agricoltura e nell'ambito di un'economia di caccia e raccolta, gli uomini possedevano mezzi sufficienti per erigere strutture monumentali. Secondo il direttore dello scavo fu proprio l'organizzazione sociale necessaria alla creazione di questa struttura a favorire uno sfruttamento pianificato delle risorse alimentari e di conseguenza lo sviluppo delle prime pratiche agricole, ribaltando quindi di nuovo le ipotesi finora seguite. Il sito si trova infatti nella regione della Mezzaluna fertile, dove era presente naturalmente il grano selvatico, che poi gli uomini addomesticarono dando vita ai primi esperimenti agricoli.
Nessuna traccia di piante o animali domestici è stata tuttavia rinvenuta negli scavi, e mancano inoltre resti di abitazioni. A circa 4 m di profondità, ossia ad un livello corrispondente a quello della costruzione del santuario, sono state rinvenute tracce di strumenti in pietra (raschiatoi e punte per frecce), insieme ad ossa di animali selvatici (gazzelle e lepri), semi di piante selvatiche e legno carbonizzato, che testimoniano la presenza in questo periodo di un insediamento stabile.
Klaus Schmidt in Costruirono i primi templi, come proposta di tipo speculativo, lascia intendere[4] che la civiltà sviluppata nella provincia di Urfa, che aveva qui uno dei suoi principali templi noti (definibile anche come archetipo di anfizionia, o "anfizionia dell'età della pietra"), sarebbe stata trasfigurata nel mito dei monti di Du-Ku della cosmogonia sumera: in questi monti sarebbero esistite le prime divinità (non dotate di nomi individuali, ma semplici spiriti, retaggio degli spiriti sciamanici) e i Sumeri ritenevano che l'uomo vi avesse appreso l'agricoltura, l'allevamento e la tessitura (vi sono forti indizi che almeno i primi due di questi elementi siano effettivamente comparsi in questa zona verso la fine, o comunque durante, la costruzione del complesso megalitico)[4].
Ian Hodder, del programma archeologico della Stanford University, ha detto a proposito del sito: “Molte persone pensano che questo possa cambiare tutto. Cambia completamente le carte in tavola. Tutte le nostre teorie erano sbagliate. Le teorie sulla ‘rivoluzione del Neolitico' hanno sempre sostenuto che tra 10 e 12 mila anni fa agricoltori ed allevatori hanno iniziato a creare villaggi, città, lavori specializzati, scrittura e tutto ciò che sappiamo delle antiche civiltà. Ma uno dei punti salienti delle vecchie teorie è che sia nata prima la città e solo dopo i luoghi di culto. Ora, invece, sembra che la religione sia apparsa prima della vita civilizzata ed organizzata in centri urbani; anzi, che sia quasi stata il motore primario per la creazione della prima città.[5]

Influenze culturali

Note

  1. ^ (ENBuilding Göbekli Tepe in National Geographic
  2. ^ a b (ENGobekli Tepe: The World's First Temple? in Smithsonian.com
  3. ^ Jacques Cauvin Nascita delle divinità e nascita dell'agricoltura, Jaca Book, 2010
  4. ^ a b Klaus Schmidt Costruirono i primi templi (traduzione di Umberto Tecchiati), Oltre edizioni, 2011
  5. ^ (ENDo these mysterious stones mark the site of the Garden of Eden? in Daily Mail
  6. ^ Tom Knox Il segreto della Genesi, edizione italiana Longanesi & C., 2009
  7. ^ https://www.youtube.com/watch?v=9zKQW4aFOHM La parte del gioco in cui compare il complesso.

Bibliografia

  • Badisches Landesmuseum Karlsruhe (Hrsg.): Die ältesten Monumente der Menschheit. Vor 12.000 Jahren in Anatolien, Begleitbuch zur Ausstellung im Badischen Landesmuseum vom 20. Januar bis zum 17. Juni 2007. Theiss, Stuttgart 2007, ISBN 978-3-8062-2072-8.
  • MediaCultura (Hrsg.): Die ältesten Monumente der Menschheit. Vor 12.000 Jahren in Anatolien. DVD-ROM. Theiss, Stuttgart 2007, ISBN 978-3-8062-2090-2.
  • David Lewis-Williams et David Pearce : An Accidental revolution? Early Neolithic religion and economic change, Minerva, 17 #4 (July/August, 2006), pp. 29–31.
  • K. Pustovoytov : Weathering rinds at exposed surfaces of limestone at Göbekli Tepe. Neo-lithics 2000, 24-26 (14C-Dates).
  • K. Schmidt : Göbekli Tepe, Southeastern Turkey. A preliminary Report on the 1995-1999 Excavations, Palèorient 26/1, 2001, 45-54.
  • K. Schmidt : Sie bauten die ersten Tempel. Das rätselhafte Heiligtum der Steinzeitjäger. Munich: C. H. Beck Verlag 2006, ISBN 3-406-53500-3.
  • K. Schmidt : Göbekli Tepe and the rock art of the Near East, TÜBA-AR 3 (2000) 1-14.
  • Klaus Schmidt : Sie bauten die ersten Tempel. Das rätselhafte Heiligtum der Steinzeitjäger. München 2006, ISBN 3-406-53500-3.
  • Klaus-Dieter LinsmeierKlaus Schmidt : Ein anatolisches Stonehenge. In: Spektrum der Wissenschaft – Spezial. Spektrum-Verl., Heidelberg 2003,2, S. 10–15, ISBN 3-936278-35-0, ISSN 0943-7996.
  • Klaus Schmidt: Göbekli Tepe, Southeastern Turkey. A preliminary Report on the 1995–1999 Excavations. In: Palèorient CNRS Ed., Paris 26.2001,1, 45–54, ISSN 0513-9345.
  • Klaus Schmidt: Frühneolithische Tempel. Ein Forschungsbericht zum präkeramischen Neolithikum Obermesopotamiens. in: Mitteilungen der deutschen Orient-Gesellschaft. Berlin 130, 1998, 17–49, ISSN 0342-118X.
  • K. Pustovoytov: Weathering rinds at exposed surfaces of limestone at Göbekli Tepe. In: Neo-lithics. Ex Oriente, Berlin 2000, 24–26 (14C-Dates).
  • Klaus-Dieter Linsmeier: Eine Revolution im großen Stil. Interview mit Klaus Schmidt. In: Abenteuer Archäologie. Kulturen, Menschen, Monumente. Spektrum der Wissenschaft Verl.-Ges., Heidelberg 2006,2, ISSN 1612-9954.
  • J. E. Walkowitz: Quantensprünge der Archäologie. In: Varia neolithica IV, 2006, ISBN 3-937517-43-X.
  • Klaus Schmidt : Costruirono i primi templi (traduzione di Umberto Tecchiati) Oltre edizioni, 2011
  • Andrea De Pascale: Anatolia. Le origini, Oltre Edizioni, 2012, ISBN 978-88-97264-09-5
  • Jacques CauvinNascita delle divinità e nascita dell'agricoltura Jaca Book, 2010
  • Felice Cesarino: "A Gobekli Tepe la più antica forma di scrittura della storia dell'umanità?".In:Archeomisteri,2013,3,15-21
  • Felice Cesarino: Lscimmia ambiziosa, Arbor Sapientiae Ed.,2015, ISBN 978-88-97805-62-5

Voci correlate

Vite quasi parallele. Capitolo 69. La scuola media di Riccardo Monterovere

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Alle elementari Riccardo Monterovere si era trovato molto bene e si era fatti numerosi amici, tra cui alcuni molto cari, con i quali sarebbe poi rimasto in contatto per tutta la vita.
Nel settembre del 1986 incominciò a frequentare la scuola media.
Si trattava dell'istituto comprensivo "Numero 8", di recente istituzione, tanto che non aveva ancora un nome. Fu poi dedicato al semisconosciuto poeta crepuscolare di Cesenatico Marino Moretti.
L'edificio era un tipico esempio di architettura fascista: fu costruito infatti nel Ventennio nell'ambito della creazione del Piazzale della Vittoria, voluto da Mussolini per dare imponenza alla sua città di origine. Davanti all'ingresso della scuola, svettava, immensa, una statua di Icaro con tanto di ali.
Ma la cosa più interessante fu il fatto che la longa manus di Casemurate, che guidava da sempre la vita di Riccardo Monterovere,  riuscì ad arrivare a insinuarsi persino alle scuole medie.
Si trattò di una serie di coincidenze destinata a lasciare una traccia profonda negli anni a venire.
Come professoressa di italiano si ritrovò Anna Papisco, cugina di sua madre (in quanto figlia di Ginevra Orsini e del Giudice Papisco) e moglie del Sommo Poeta Adriano Trombatore.
 Il Sommo non era quel che si dice un marito fedele, ma sua moglie lo amava profondamente. Ne condivideva anche le idee politiche di estrema sinistra e questo si rifletteva anche sul lavoro, per esempio quando proponeva agli studenti una critica socialista a "L'isola del tesoro" o a "I tre moschettieri". 
Oppure quando portava avanti progetti sperimentali di teatro, facendo recitare agli studenti testi politicamente impegnati. Riccardo Monterovere dovette declamare di fronte all'aula sbigottita "il discorso di Vanzetti alla Corte".
Oppure, durante la rivoluzionaria "ora di giornale", si leggeva tutti i quotidiani di sinistra, lasciando la classe libera di autogestirsi.
Memorabile fu il dibattito intorno all' "abolizione delle ingiustizie in un sistema socialista". La prof. Papisco citò la fatidica domanda di Malraux all'Internazionale: "E il pedone che finisce sotto un tram, allora? Non è forse un'ingiustizia?" e rispose energicamente: "In un perfetto sistema socialista non avverranno più incidenti stradali".
Alla fine dovette intervenire il preside, un rotariano di destra, per riportare in carreggiata i comizi bolscevichi della Papisco.
Come professoressa di educazione tecnica c'era un'altra cugina di sua madre, da parte dei Ricci, la Luciana Tartaglia, coniugata con Gaspare Maciullini.
E tra i compagni di classe c'erano due nipoti della sorella dello stesso Maciullini, Colomba, le cui figlie Arabella ed Esmeralda, erano amiche d'infanzia di sua madre.
Il figlio di Arabella, un tipo strano di nome Alberto Bechis (il padre era di origine sarda) era sempre dietro la cugina, la figlia di Esmeralda, di nome Vittoria Zampetti, una splendida ragazza dai capelli biondi e dagli occhi nocciola, il cui padre era un ricchissimo commerciante.
La bellezza di Vittoria, la sua intelligenza e la sua classe, colpirono Riccardo fin dal primo momento, e l'interesse verso di lei crebbe negli anni, fino a diventare, di fatto, il primo vero grande amore.
Ma in quegli anni contava ancora di più l'amicizia.
Il compagno di banco di Riccardo, nonché suo migliore amico fin dai tempi dell'asilo, era Federico Perfetti, figlio di Benedetta Papisco (gemella di Anna, la prof. di italiano)
Federico era un ragazzo molto sportivo, ma taciturno: tutto il contrario di Riccardo, che era pigro, ma molto loquace.
Ogni tanto poteva succedere che Federico si sciogliesse e incominciasse a parlare e allora diceva frasi enigmatiche del tipo: "ci vuole molto coraggio anche per fare la cosa sbagliata" oppure, con insospettabile ironia maschilista: "dietro una carriera lampo c'è sempre una cerniera lampo".
La loro amicizia si basava sia su alcuni interessi comuni, anche se non era ben chiaro quali, sia sulla complementarietà dei loro caratteri, che li portava ad essere collaborativi e ad aiutarsi reciprocamente, ognuno cercando di insegnare all'altro le proprie abilità.
Non a tutti però questo faceva piacere.
Il padre di Federico, Massimo Perfetti, aveva una mentalità estremamente competitiva e non vedeva di buon occhio la presenza di Riccardo, che appariva un po' troppo brillante e rischiava di mettere in ombra il rampollo di casa Perfetti.
Federico aveva anche una sorella più piccola, Chiara, che era anch'ella molto amica di Riccardo.
Chiara a sua volta aveva un'amica che si chiamava Valentina, la quale era corteggiata da Alberto Bechis.
Si venne a creare così un gruppo, con il suo nucleo centrale in Federico, Paola, Valentina, Alberto, Vittoria e Riccardo.
Intorno a questo "nucleo centrale", gravitavano altri amici e amiche di Riccardo, formando così un'allegra brigata di ragazzi abbastanza tranquilli, che cercavano di compattarsi contro i bulli che in quella scuola abbondavano.
All'interno di quell' "allegra brigata" incominciò presto una specie di "gioco delle coppie" che li vide inizialmente timidi e impacciati e poi man mano più disinvolti.
Durante il periodo delle medie questo gruppo resse a molti momenti di stress.
Nessuno però avrebbe potuto immaginare che Vittorio Bechis nascondesse tutta una serie di segreti che avrebbe finito per causare, qualche anno dopo, una serie di guai i cui strascichi perseguitarono gli altri, e soprattutto Riccardo, per molto tempo a venire.

mercoledì 24 maggio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 68. Un'estate al mare ... con i Monterovere

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C'era una caratteristica che contraddistingueva alcuni componenti della famiglia Monterovere e cioè la tendenza ad auto-invitarsi a pranzo, a merenda o a cena a casa di amici e parenti, oppure a imbucarsi nelle feste, comprese quelle cerimoniali, senza essere stati invitati, o addirittura prendere parte, sempre rigorosamente senza invito, alle villeggiature al mare, in montagna o in campagna presso le residenze estive degli stessi amici e parenti già ampiamente sotto assedio. E tutto questo nonostante avessero una propria disponibilità di denaro.
Era come se una fame atavica li spingesse ad approfittare di ogni situazione propizia, perché poi sarebbe venuto l'inverno. Si trattava di un istinto animale e ancestrale.
L'onorevole deputato comunista Tommaso Monterovere aveva fatto di questa tendenza allo scrocco una vera e propria arte, supportato, in questo, dalla sua risparmiosissima moglie e dalle sue abilissime figlie.
Loro rappresentavano il vertice, in quest'arte, mentre gli altri Monterovere erano dei discepoli più o meno diligenti.
Romano, il fratello maggiore di Tommaso,  aveva sviluppato quell'arte solo in tarda età e in concomitanza con il matrimonio di suo figlio Francesco con Silvia Ricci-Orsini.
A esercitare un freno, su Romano, tendenzialmente spilorcio per indole, era stata sua moglie Giulia.
Dopo la morte di Giulia, quel deterrente era venuto meno e l'anziano patriarca dei Monterovere aveva ceduto alla mentalità dello scrocco,  trascinando nella propria scia anche sua figlia Enrichetta.
Totalmente diverso era il terzogenito di Romano e Giulia, e cioè il professore universitario Lorenzo Monterovere, docente di Letteratura cristiana antica, con specializzazione sullo Gnosticismo, presso l'Università di Bologna.
Lorenzo era diventato talmente ricco e famoso, nel suo ambiente, da aver potuto persino ricomprare l'antica proprietà del trisavolo Ferdinando, nel sito originario di Monterovere Boica, nel modenese.
Già allora si diceva che si fosse iscritto alla Massoneria o all'Ordine dei Cavalieri di Malta o qualcosa di simile, ma molto segreto e distinto dal resto della famiglia.
La tendenza all'auto-invito da parte di Romano ed Enrichetta, nonché del marito e dei figli di lei, si espresse in modo particolare nel desiderio di trascorrere gratis tutte le ferie estive nella casa di Cervia della moglie di Francesco.
Quest'ultimo accettò con entusiasmo e convinse sua moglie, anche se lei era decisamente meno euforica alla prospettiva di trovarsi tra i piedi il suocero e la cognata per tutta l'estate.
Piombarono il primo di luglio, con l'implacabile voracità di uno sciame di locuste.
Occuparono subito il giardino per parcheggiare le loro macchine, poi si spartirono le zone di influenza: Romano si collocò nell'appartamento al piano terra, Enrichetta col marito e i figli in quello al primo, mentre il secondo era quello dove abitualmente stava Francesco con moglie e figlio.
Ma l'occupazione dello stabile non si limitò ai Monterovere, bensì coinvolse anche le amiche di Enrichetta con le rispettive famiglie, a cui furono riservati la mansarda, la tavernetta del seminterrato, il portico e persino la cantina.
Quando Ettore Ricci si accorse di questa invasione, che egli definì "infestazione", andò su tutte le furie e si scontrò con Romano Monterovere.
<<Senta un po', caro il mio consuocero, parliamoci chiaro: Lei, sua figlia e compagnia bella vi state approfittando troppo della generosità di mia figlia!>>
Romano fece spallucce:
<<Se va bene alla Silvia, va bene a tutti. E' lei la proprietaria, non voi, caro consuocero>> 
Purtroppo era vero e per questo Ettore dovette ricorrere alle minacce:
<<Se voi Monterovere continuate a impadronirvi dei beni di mia figlia, io mi troverò costretto a diseredarla per tutta la parte che va oltre la legittima. E questo sarebbe un grosso problema per il tentativo dell'Azienda Monterovere di prendere il controllo del Feudo Orsini. Ci pensi bene!>>
Ma Romano sapeva che Ettore stava bluffando:
<<Lei vuole troppo bene a sua figlia e al nostro comune nipote Riccardo per tagliarlo fuori dal grosso dell'eredità. Lui ci rimarrebbe molto male e maledirebbe il suo ricordo e il suo nome. Per questo io sono sicuro che questa sia tutta una recita>>
Ettore, sentendosi fregato, scosse il capo:
<<Io spiegherò bene a Riccardo che la colpa non è mia, ma vostra. E lui è un ragazzo sveglio e capirà a chi dare la colpa>>
In verità Riccardo era piuttosto confuso: per quanto preferisse di gran lunga il nonno Ettore, non voleva tuttavia offendere il nonno Romano, più che altro per non fare un torto a suo padre.
Francesco Monterovere era infatti, all'epoca, ancora molto legato alla propria famiglia d'origine, anche se in seguito avrebbe trovato più sostegno e dimostrazioni di vera amicizia e di genuino affetto da parte della famiglia di sua moglie.
Alla fine furono i fatti a parlare da sé.
Romano, Enrichetta, il marito "Duedipicche", i due figli indemoniati e le amiche ninfomani si comportarono in maniera a tal punto invadente e caotica che perfino Francesco dovette ammettere che suo suocero, il tanto vituperato Ettore Ricci, in fondo non aveva poi tutti i torti.

martedì 23 maggio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 67. L'anno della cometa di Halley e della dipartita della bisnonna Emilia

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Nel 1986 il mondo conobbe varie disgrazie: il disastro di Chernobyl, lo scoppio dello Space Shuttle Challenger, la bomba sul Boeing 727 Roma-Atene, la crisi diplomatica tra Usa e Libia con lancio di due missili libici presso le coste di Lampedusa, il dilagare dell'Aids, la diffusione in tutto il mondo del primo virus informatico e altre calamità.
Alcuni superstiziosi imputarono tutto ciò al passaggio della Cometa di Halley, ma tali convinzioni astrologiche e pseudoscientifiche non potevano certo albergare a casa del professor Francesco Monterovere, divenuto ormai un'istituzione come docente di matematica e fisica nella sezione A del Liceo Scientifico "Fulcieri Paolucci di Calboli" di Forlì.
E non era una coincidenza il fatto che Paolucci di Calboli fosse anche il cognome da nubile della madre di sua suocera (sì, avete letto bene, era la "madre di sua suocera")
In effetti la contessa vedova Emilia Pulcheria Paolucci di Calboli, madre di Diana Orsini Balducci di Casemurate, (a sua volta madre di Silvia Ricci-Orsini), era la sorella maggiore dello stesso Fulcieri Paolucci di Calboli alla cui memoria era stato dedicato il Liceo Scientifico.
Fulcieri era nato nel 1893 e morto nel 1919 in seguito ad una malattia contratta durante la Prima Guerra Mondiale, durante la quale si era meritato la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Emilia era nata nel 1888 e dunque nel 1986, l'anno della cometa di Halley, compì 98 anni.


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E purtroppo quello fu anche il suo ultimo compleanno.
Ma non fu tanto la cometa ad essere un brutto presagio per lei, quanto la morte della Duchessa di Windsor, Wallis Simpson, a Parigi, nella sua villa al Bois de Boulogne, il 24 aprile.
Quello fu un presagio funesto, perché Emilia era sempre stata dalla parte di Wallis, tanto che il giorno in cui la Duchessa spirò, l'anziana Contessa Vedova disse:
<<Lo considero un lutto personale. E' come se mi fosse morta una sorella>>
Poco tempo dopo incominciò a mostrare segni di cedimento.
Il medico di famiglia disse che bisognava ridurre assolutamente il consumo di alcolici.
Ma la contessa vedova Emilia, ormai, si nutriva soltanto di Cabernet-Sauvignon, tanto che, scherzando, disse che glielo potevano anche mettere in endovena.
La verità è che il suo fisico aveva retto per tanti anni grazie ad una sorta di equilibrio clinicamente insolito, ma empiricamente indiscutibile.
Nel momento in cui quell'equilibrio venne messo in discussione, privando Emilia del suo unico vero nutrimento, e cioè il vino, il fisico cedette e le sue condizioni peggiorarono rapidamente.
Diana, nonostante tutto, era molto affezionata a sua madre e si sentiva male nel vederla venir meno.
Emilia aveva fatto da contraltare ironico al carattere malinconico di Diana.
Venendo veno quella personalità ironica, la casa e la famiglia si intristivano:
<<Speravo che avremmo avuto più tempo, che tu arrivassi a 100 anni e oltre...
Come farò a rassegnarmi a vivere senza le tue battute e la tua presenza fissa nel Salotto Liberty?>>
La veneranda contessa vedova prese la mano della figlia settantataduenne:
<<Hai i tuoi nipoti. Cerca di farli divertire. Non essere troppo pessimista con loro. La vita è già abbastanza pessimista per conto suo: non aggiungere peso a ciò che è già pesante>>
Diana sapeva che sua madre aveva ragione, ma c'erano molte obiezioni nel suo cuore e soltanto alcune furono manifestate alla vegliarda morente:
<<Il fatto è che loro devono essere preparati alle difficoltà. E prudenti. Io devo controbilanciare l'influenza di Ettore, che non ha paura di niente e si mette sempre nei guai. Ma lo sai quanto spendiamo in avvocati, ogni mese? E poi si è messo a fare investimenti più rischiosi del solito... e tutto questo perché è troppo sicuro di sé>>
L'anziana madre sospirò:
<<Non c'è solo Ettore. I ragazzi hanno anche i loro genitori, i loro padri. I tuoi generi sono tutti e tre uomini solidi, che lavorano duramente e con successo, ognuno nel suo settore>>
Diana aveva una risposta per tutto:
<<Lavorano troppo e non sono molto presenti. E questo è male, perché le madri invece lo sono troppo. Non dovrei dire così delle mie figlie. Forse sono diventate così per reazione al fatto che io ero distante: o ero con Federico oppure avevo l'emicrania. 
Ma come nonna posso fare meglio, lo sto già facendo>>
Emilia sorrise:
<<Sei una nonna fantastica e i tuoi nipoti ti ricorderanno per sempre, e parleranno di te, della tua vita così avventurosa, così anticonformista. 
Più penso alla tua vita e più la vedo come un romanzo dove tante persone, che conducevano vite quasi parallele, senza niente in comune, alla fine sono venute ad incontrarsi qui, in questo angolo remoto dell'universo.
Un giorno qualcuno dovrà raccontare tutto questo, e pertanto tu dovrai far sapere ogni cosa ai tuoi nipoti.
Per quel che riguarda le tue figlie, concordo con le tue preoccupazioni, e credo che sia anche per questo che tu non devi in alcun modo essere apprensiva. Me lo prometti?>>
Non era una promessa da poco, ma non si può mentire a un moribondo:
<<Mi chiedi molto, forse troppo, ma cercherò di limitare al minimo le mie apprensioni. Bastano già quelle delle loro madri. Non sarà facile mediare. Le mie figlie sono testarde come loro padre>>
Emilia chiuse gli occhi:
<<Ti chiedo perdono, Diana, per averti indotta a sposare un uomo che non amavi e che non è certo stato un marito esemplare. Non sono stata una madre esemplare. Potrai mai perdonarmi, bambina mia?>>

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Faceva un po' ridere che una donna di 98 anni chiamasse "bambina mia" sua figlia di 73, ma certe cose non cambiano mai, e per ogni mamma, ogni figlia resta pur sempre la sua bambina.
Diana sorrise e annuì:
<<Ti ho già perdonata. In fondo la scelta era mia e se ho accettato di sposare Ettore è stato anche perché non volevo perdere il mio status sociale. Il mio sacrificio fu anche egoistico, almeno all'inizio. Spero che sia servito a qualcosa, considerando i rischi che gravano sul nostro patrimonio>>
L'anziana contessa vedova annuì a sua volta:
<<Anche questo, d'ora in avanti, sarà un tuo fardello. Che il Cielo ti protegga, figlia mia, perché la tua guerra non è ancora finita. La mia invece sì>>
Non si sbagliava: spirò poche ore dopo, nel sonno.
Qualche ora più tardi, Diana poté per l’ultima volta, e senza farla soffrire, pettinare quei bei capelli argentei che erano sembrati fino a quel momento meno invecchiati di lei. Ma allora, al contrario erano la sola cosa che imponeva la corona della vecchiaia al suo viso ridivenuto giovane, dal quale erano sparite le rughe, le contrazioni, i rigonfiamenti, le tensioni, i cedimenti che in tanti anni le aveva aggiunto la sofferenza.
Come ai tempi lontani in cui i suoi genitori le avevano scelto uno sposo, ora i suoi lineamenti erano delicatamente segnati dalla purezza e dalla sottomissione, le guance illuminate da una casta speranza, d’un sogno di felicità, addirittura da un’innocente gaiezza che gli anni avevano a poco a poco distrutto. 

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La vita, ritirandosi, trascinava via le delusioni della vita stessa. 
Un sorriso sembrava posato sulle labbra della bisnonna. 
La morte, come uno scultore del Medio Evo, l’aveva adagiata sul suo letto con l’aspetto di una giovinetta.
La sua lunghissima vita si concludeva con un bilancio esistenziale solo apparentemente in pareggio: in realtà, una donna che vede morire quattro figli non può essere mai alla pari con la vita.
Diana sapeva, in ogni caso, che sua madre, come tutti i mortali, compresi quelli che si illudevano di essere persone realizzate, chiudevano la loro vita con un bilancio in rosso.
Il giorno del suo funerale, i manifesti tappezzavano i muri e i cartelloni in tutta la Contea, perché dovevano ospitare un nome piuttosto impegnativo.
Sua Grazia la Contessa Emilia Pulcheria Paolucci di Calboli, Vedova Orsini Balducci di Casemurate, 1888-1986, Requiescat in pace.

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Ps. Il gatto che la bisnonna Emilia portava sempre in braccio si chiamava Maino ed era il suo preferito. Morì poco dopo di lei.


lunedì 22 maggio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 66. La Contea di Cervia e il Kennedy Compound

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Ai tempi dello Stato Pontificio, i Papi erano soliti ripetere che Roma otteneva più reddito dalla piccola Cervia che da tutto il resto della Romagna.
Roma plus habet de parva Cerviola quam de tota Romandiola.


Contesa tra il Papato di Roma e l'Arcivescovato di Ravenna, fedele all'Imperatore, la Contea di Cervia, così come le sue preziosissime saline, le pinete aromatiche, le dune costiere e i porti, era già nota prima di diventare una meta turistica, a causa del particolare tipo di sale prodotto, a minore contenuto di sodio, e pertanto chiamato "sale dolce".
Gli abitanti, che inizialmente vivevano in mezzo alle saline, fondarono la città nuova, fortificata, nel Settecento.

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Il nuovo centro storico, più vicino al mare, portò allo sviluppo della Darsena, dei cantieri navali e dell'attività di pesca, che si aggiunsero a quella dei salinari.
Soltanto nel Novecento incominciò lo sviluppo del turismo e comparvero le prime ville in stile liberty lungo la via Roma che conduceva dal centro al lungomare, presso cui era stato costruito un Grand Hotel col tipico aspetto floreale Art Nuveau di quelli della Belle Epoque.

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Il grande sviluppo del turismo si ebbe a partire dal Miracolo Economico degli Anni Sessanta e dall'affermarsi della società dei consumi.
Fu costruito il porto turistico e valorizzato il lungomare con gli alberghi e gli stabilimenti balneari.
A fianco di Cervia sorsero Milano Marittima, per la villeggiatura dei più ricchi, e Pinarella, per le vacanze dei meno ricchi.
Il confine tra la Contea di Cervia e quella di Cesenatico assunse il nome di Tagliata e presso quel limite sorse un campeggio.

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Ma ciò che interessa a questa narrazione è il rapporto tra la Contea di Cervia e quella di Casemurate, che fu sempre strettissimo, dal momento che la strada principale che attraversava il borgo casemuratense era proprio la Cervese, che fungeva da collegamento tra Forlì e Cervia.
L'obiettivo di stabilire un collegamento tra le due Contee era uno dei progetti a cui Ettore Ricci teneva di più, specie dopo l'acquisto dei terreni cervesi che erano appartenuti a Priamo Conti.
Su quei terreni c'era una vecchia casa che Ettore Ricci aveva dato in affitto o, come direbbero i laureati in giurisprudenza, in "locazione", tranne per alcuni periodi in cui i suoi nipoti trascorrevano lì un mese tra metà luglio e metà agosto.
Nei primi anni '80 però l'inflazione aveva raggiunto il 21% e l'investimento immobiliare era tornato conveniente, per questa ragione Ettore Ricci fece buttar giù la casa vecchia, divise il terreno in tre parti e fece costruire tre nuove case, che sarebbero spettate in eredità alle tre figlie.
La costruzione delle tre case fu terminata nell'autunno del 1983 e dunque a partire dal 1984, il legame con Cervia divenne molto più stretto, perché il periodo di permanenza, durante l'estate, diventava spesso lungo fino anche a due mesi.
Nel periodo aureo della sua infanzia, intorno ai 10 anni, Riccardo Monterovere, nipote di Ettore Ricci, trascorreva l'estate in questo modo: due settimane in campagna dai nonni, due settimane in montagna coi genitori e i cugini e due mesi a Cervia, con tutto il clan allargato dei Ricci-Orsini-Monterovere.
Ettore Ricci andava molto fiero di questo suo successo e non esitava a paragonarlo al Kennedy Compound di Hyannis Port, sfidando la sorte, dal momento che qualsiasi cosa riguardasse i Kennedy portava una sfortuna tremenda.
A sua moglie Diana che lo implorava di tacere, Ettore rispose:
<<Io dico pane al pane e vino al vino. Chi tace mi spaventa. E guarda che non è facile spaventarmi. Ma chi tace, lo ripeto, mi spaventa, perché mi fa immaginare che abbia qualcosa di brutto da nascondere
E poi va detto che tacere non è, come credono alcuni, una vittoria del sapiente sull'ignorante. 
No, è una vittoria dell'omertà e dell'omissione di soccorso di chi preferisce voltarsi dall'altra parte, con atteggiamento di superiorità, illudendosi così di essere al sicuro nel proprio menefreghismo>>

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Su questo e su molte altre cose aveva ragione, anche se forse il Dalai Lama e qualche altra "anima bella" non sarebbero stati d'accordo.
Non furono le parole a creare problemi a Ettore Ricci, bensì le azioni dettate da una certa megalomania tipica di chi, non contento di vincere, tende sempre a voler stravincere, rischiando così di rovinare tutto.
Le stesse doti che gli permettevano di avere successo nella vita erano poi quelle che gli creavano dei problemi e lo mettevano nei guai.
Nello specifico, aveva preso la decisione irremovibile di costruire le tre case su una collinetta rialzata artificiale.
Tutto questo per dare l'idea che quelle tre case dominassero il panorama.
La collina fu creata portando terra argillosa da Casemurate, in un punto dove poi nacque un lago, a cui tanto si affezionò Diana Orsini.
Questo ammasso di terra era sopraelevato, nella parte esterna più bassa, di almeno due metri rispetto ai vicini, che si trovarono improvvisamente coperti da un'ombra perenne.
Ne nacque una contesa incresciosa, in particolare con un certo signor Mario, un anziano che in precedenza aveva fatto da giardiniere e ortolano nello stesso terreno di Ettore.
Fu il signor Mario a portare avanti la denuncia contro Ettore Ricci per abuso edilizio, una causa che si protrasse per vent'anni e finì con una multa stratosferica che causò un durissimo colpo al già traballante impero del "Conte" di Casemurate e Cervia.