A metà degli Anni Novanta scoppiò una specie di "Rivoluzione estetica" destinata a cambiare il canone della bellezza femminile e anche, in un secondo momento, quello della bellezza maschile.
Il canone precedente valorizzava le curve, secondo la classica e abbondante formula 90-60-90.
Esistevano eccezioni illustri, ma non erano molte.
Poi, all'improvviso, sulla scia del successo dell'aerobica, del fitness e della dietologia, a metà degli anni Novanta si impose un nuovo modello basato su un fisico decisamente più asciutto, dove la priorità assoluta era la magrezza.
Le dimensioni di seni e glutei non erano più rilevanti come in passato, almeno dal punto di vista della moda, e sembrava anzi che le curve fossero diventate un impiccio.
La magrezza divenne molto più importante delle curve (nel corpo femminile) e dei muscoli (in quello maschile)
Dietro a queste tendenze c'era un in nuce, un messaggio implicito, da parte degli stilisti, di cui ci stiamo accorgendo soltanto ora con l'affermazione mediatica del concetto di "fluidità di genere".
Il corpo femminile e quello maschile tendevano a convergere in una sorta di ideale androgino.
L'importante era essere magri e, possibilmente anche alti, il resto era un optional.
Il viso femminile poteva assumere tratti più ossuti e marcati, mentre quello maschile, al contrario, tendeva ad una maggiore dolcezza e a tratti più efebici.
I nuovi requisiti ideali del fisico femminile e di quello maschile si affermarono prima sulle passerelle, poi sulle copertine delle riviste e infine nel mondo dello spettacolo e nell'immaginario collettivo.
Dalla metà degli Anni Novanta in poi questa rivoluzione estetica apparve sempre più evidente: nelle sfilate fluttuavano top model evanescenti, creature fatate in dissolvenza e bellezze "elfiche" dai corpi snelli come silfidi dell'aria.
Una delle principali icone di quel nuovo modello femminile era Kate Moss, che sembrava nutrirsi solo di luce e polvere bianca, perché la cocaina o le anfetamine potevano permettere alle nuove top model di mantenersi così magre, quasi anoressiche, senza essere torturate dai morsi della fame e dalla stanchezza.
Non era certo un modello sano, anche se ufficialmente la dieta ferrea e l'attività fisica vennero presentate come un imperativo categorico, cosa che trasformò l'esistenza di un'intera generazione di giovani, sia donne che uomini, in un inferno.
Quell'ossessivo insistere su una nutrizione ipocalorica e ipoglicemica, con portate microscopiche, insalate miste, cucina esotica o comunque alternativa, si sommava allo stramaledetto jogging o a quello spaventoso strumento di tortura che è la cyclette, generando un apparente entusiasmo che mascherava una vita di rinunce e privazioni.
Tutto questo era definito sano, ma produceva spesso disturbi alimentari, ansia e sensi di colpa.
Come poteva definirsi sano questo cercare di protrarre l'androginia dell'adolescenza in eterno?
Per non parlare del fatto che il nuovo canone di bellezza, in maniera implicita, spostava il desiderio in una direzione pericolosa, dal momento che la nuova generazione di modelle sembrava composta (e in buona parte lo era) da ragazze minorenni, e talmente esili da apparire poco più che adolescenti.
Si potrebbe obiettare dicendo che, in fondo, Nabokov aveva già detto tutto sull'argomento, narrando la passione malsana e autodistruttiva di un professore di mezza età nei confronti di Lolita.
Ma si trattava di casi isolati, mentre dopo divenne un fenomeno di massa.
Un'altra obiezione, però, potrebbe essere: "e allora il modello di Audrey Hepburn e di Coco Chanel? Non c'era forse anche prima? Sì, ma era solo uno dei possibili modelli di riferimento, dopo divenne "il" modello.
Sembrava quasi che tutto il mondo della moda e dello spettacolo fosse piombato in una versione estrema della sindrome di Peter Pan, dove anche il desiderio rimaneva bloccato in una fase adolescenziale, ambigua e immatura, che si protraeva sempre più a lungo.
Tutto questo, tra l'altro, spianò la strada ad un certo format televisivo pomposamente detto talent show, che, pur rivolgendosi ufficialmente a un pubblico giovane, strizzava l'occhio anche a un pubblico meno giovane, ma egualmente immaturo.
Nel giro di un decennio, con velocità sempre crescente, moda, cinema, televisione e internet imposero il modello ovunque, cosa che fece soffrire molto coloro che avevano una costituzione fisica robusta.
Che effetto ebbe questa rivoluzione estetica sulla nostra Aurora Visconti-Ordelaffi?
Possiamo rispondere dicendo che rafforzò una tendenza che in lei era già presente.
Nel ripercorrere le tappe della sua evoluzione, prendendo spunto da alcune immagini, riteniamo opportuno partire dal terzo anno del Liceo Scientifico, quando iniziò la sua relazione con Roberto Monterovere.
A sedici anni, nel 1992, Aurora si presentava come una adolescente "acqua e sapone", dai tratti dolci e regolari e dal corpo longilineo e fisiologicamente snello, in armonia col suo fenotipo "nordico".
A diciassette anni, nel 1993, aveva già incominciato ad assumere pose da modella e a seguire una dieta più rigida e provare diverse tinte per i capelli.
A diciannove anni e mezzo, nel 1994, il suo volto aveva assunto un aspetto più maturo, con tratti più marcati, ma più raffinati.
Roberto ricorda ancora con nostalgia lo sguardo radioso di Aurora quando, insieme a lui, arrivò a Milano: era una splendida ed entusiasta "matricola fuori sede", giunta in una città che le era congeniale, ed era consapevole di avere quel tipo di bellezza, che la moda di metà Anni Novanta stava esaltando.
E sapeva altrettanto bene che il suo corpo, in virtù della dieta e dell'esercizio fisico, aderiva in toto al canone estetico che si stava affermando nella moda.
Tale consapevolezza, unita al fatto la propria bellezza era al suo apice, ebbe su di lei un notevole effetto euforizzante.
Era una reazione naturale: chiunque, nelle sue condizioni, si sarebbe sentito euforico.
Questa euforia si sommò al fatto di essere anche un'esperta di moda e di trovarsi a Milano, che era ed è una delle capitali della moda.
Anche la persona più equilibrata di questo mondo, trovandosi in una situazione simile, e godendo anche di ampie disponibilità economiche, avrebbe ceduto allo shopping compulsivo, per valorizzare ciò che la sorte le aveva donato.
Aurora era già mentalmente predisposta a questo comportamento, ma quella sorta di congiunzione astrale apparentemente così favorevole, abbatté ciò che restava dei suoi freni inibitori, dando vita a comportamenti eccessivi.
Il primo di questi fu appunto la spesa esagerata e incontrollata in beni e servizi di lusso, specialmente in capi di abbigliamento firmati e acquistati nel Quadrilatero della Moda, (dove trascorreva ormai gran parte del fine settimana e del tempo libero), ma anche in centri estetici e in saloni di bellezza come quello di Aldo Coppola, il Re dei coiffeur, anzi, pardon, degli hair stylist, l'inventore del Degradé Joelle, la tecnica rivoluzionaria che aprì la strada alle colorazioni più raffinate, come il Balayage, il Flamboyage e lo Shatush, per citare solo alcuni esempi.
All'epoca un trattamento completo da Coppola poteva raggiungere prezzi inimmaginabili per i comuni mortali. I capelli di Aurora, ormai, valevano tanto oro quanto pesavano.
Se poi a tutto questo aggiungiamo il make up e gli accessori vari tipo borsette, cinture orologi, occhiali da sole et similia, possiamo ottenere un'immagine di lei molto più elaborata e curata nei minimi dettagli.
A vent'anni, nel 1995, Aurora Visconti appariva come una elegantissima donna di classe, raffinata e carismatica, ossequiata e venerata ovunque andasse.
La sua metamorfosi specie quando era in "tenuta da shopping", raggiunse livelli miracolosi: sembrava davvero una top-model, o una giovane signora dell'Alta Società, o magari la moglie di un attore famoso, di un calciatore ricchissimo o di un oligarca russo dell'era Eltsin.
Di certo, quando era fresca di parrucchiere e di make up e agghindata con abiti e accessori che seguivano uno stile preciso, non sembrava più la diciannovenne matricola "fuori sede" dei primi giorni.
Era diventata un'altra persona.
E tuttavia, prima di diventare così, aveva dovuto risolvere un problema piuttosto serio, e cioè il fatto che pur essendo di famiglia ricca, non era sufficientemente danarosa per mantenere un simile stile di vita senza destare preoccupazioni persino in sua madre, che in fatto di shopping compulsivo la sapeva lunga.
Se in quegli anni ci fosse stata un'ampia diffusione di Internet con una connessione adsl, avrebbe potuto proporsi come fashion blogger, se poi ci fossero stati lo smartphone e Instagram avrebbe potuto fare l'influencer con ottimi guadagni, ma la storia non si fa con i "se".
Esistevano comunque opzioni alternative, tra cui, per esempio, il finanziare le spese con nuovi introiti derivanti da una attività lavorativa.
Le sarebbe piaciuto fare la modella, e ne aveva tutti i requisiti e le occasioni, ma su quel punto i suoi genitori furono inflessibili: posero un veto assoluto per varie ragioni facilmente immaginabili e minacciarono di tagliarle i finanziamenti.
Dissero che un eventuale impiego nel mondo della moda non era compatibile con quello negli studi, specie in un'università così difficile, e non avevano tutti i torti.
Lei ne era cosciente e sapeva di dover prendere una decisione chiara su cosa voleva realmente fare nella vita.
Di tutto questo parlò col suo ragazzo, che la rassicurò dicendo che l'avrebbe sempre sostenuta, in qualunque scelta e che credeva in lei e nelle sue possibilità di successo, sia nel mondo della moda che in quello degli affari, che peraltro potevano anche coincidere, in determinati casi.
A far pendere il piatto della bilancia verso una delle due scelte fu qualcosa di inaspettato.
Con sua sorpresa, già nel primo mese di lezioni, Aurora si era resa conto di essere portata per gli studi bocconiani, e questo si aggiunse a ciò che già sapeva, ossia che una laurea prestigiosa con un'alta valutazione le avrebbe permesso una carriera potenzialmente molto remunerativa e ben più duratura, con una posizione sociale più prestigiosa, agli occhi dei genitori, rispetto a quella nella moda. Dobbiamo pensare, infatti, che all'epoca, specialmente dal punto di vista di persone di mezza età e "di provincia", l'attività di modella era pregiudizialmente associata ad ambienti e situazioni "non del tutto rispettabili", una cosa che oggi nemmeno le nonne pensano più.
E dunque, quell'università e quella facoltà a cui all'inizio si era iscritta solo per accontentare i genitori ed essere vicina al fidanzato, le si rivelarono così congeniali che la sua media nei voti degli esami fu ottima fin dall'inizio e decisamente migliore di quella di Roberto.
Come sappiamo, i nervi di quest'ultimo erano stati messi a dura prova in precedenza, ragion per cui la sua mente era troppo stanca per essere ricettiva come in passato.
La giovane Visconti, invece, partiva fresca e riposata e la sua capacità di concentrazione e di memorizzazione, basata su una intelligenza pragmatica e motivata dal suo ferreo desiderio di far buona impressione agli occhi della famiglia e del fidanzato, si rivelò eccezionale.
I meccanismi della mente sono complessi, ma nel caso di Aurora risultava evidente un punto, e cioè che la sua motivazione era accresciuta dall'idea che quell'impegno avrebbe potuto soddisfare, oltre che il suo orgoglio, anche le sue esigenze economiche.
Questo insieme di considerazioni si dimostrò molto efficace nell'ottenere rendimenti universitari molto al di sopra delle aspettative, già alla fine del primo semestre.
A quel punto Aurora stipulò un patto con suo padre e sua madre: se lei avesse continuato ad avere una media dal 29 in su, loro l'avrebbero premiata con una consistente "iniezione di liquidità" nel conto da cui la sua Mastercard attingeva.
E quella media fu mantenuta, dal momento che, per preparare gli esami, le occorreva molto meno tempo di quello che era necessario non solo al suo ragazzo, ma anche a studenti molto più portati per quelle materie.
Poteva trascorrere i weekend a fare shopping o a farsi bella costosamente senza che i rendimenti universitari calassero e persino senza che le sue spese fossero più contestate dai genitori, dal momento che si trattava di un premio concordato, e che comunque le si prospettava davanti una luminosa carriera, a prescindere dai conti dell'azienda di famiglia.
Sembrava, sotto tutti gli aspetti, la famosa quadratura del cerchio, o quanto meno il proverbiale uovo di Colombo.
Il look che scelse e a cui rimase fedele era adatto a ciò che voleva diventare: una donna in carriera, un po' come le protagoniste nel film omonimo, con Sigourney Weaver, Mellanie Griffith ed Harrison Ford, e con quella splendida colonna sonora, la canzone "Let the river run".
Aurora sarebbe stata perfetta come protagonista.
Ed era proprio così che lei si proponeva di diventare: un'elegante, bellissima ed emancipata donna in carriera.
Il suo aspetto divenne autorevole: era già alta di suo, per cui, quando metteva i tacchi alti e i pantaloni a palazzo o comunque svasati o flare, che coprivano quei tacchi per tre quarti o, a volte, del tutto, sembrava ancora più alta e acquisiva un'autorevolezza immediata, che quasi intimidiva i comuni mortali (specie quando indossava gli occhiali da sole e il cappello).
Per completare quel look sceglieva camicie eleganti e bluse realizzate con tessuti preziosi e speciali, con balze, rouches e volants o con un fiocco elaborato e "assertivo": una versione femminile della cravatta dei dirigenti maschi (escluso Marchionne, che si sarà presentato in maglione anche in Paradiso).
Quando sentiva quegli abiti e quei tessuti aderire alla propria pelle, Aurora era percorsa da un brivido di libidine: provava un vero e proprio piacere feticistico nell'essere vestita così e Roberto la trovava irresistibilmente sexy, per cui tra loro c'era un'intesa immediata.
Lui moriva dalla voglia di toccarla, e ormai era diventato un esperto nel sapere dove la sua fidanzata voleva essere toccata, per cui bastava solo un cenno da parte di lei, e lui faceva scivolare le sue dita su quei tessuti serici, a contatto con quella pelle dorata, facendosi strada verso zone proibite.
E se erano in pubblico, era tutto ancora più eccitante, e del resto nessun tassista o commesso o passante aveva avuto qualcosa da ridire, perché Aurora era così bella che tutti, uomini o donne che fossero, avrebbero desiderato di poterla anche solo sfiorare per un breve istante.
E invece Aurora concedeva questo privilegio a due sole persone: se stessa e il fidanzato.
Roberto traeva da quei momenti un piacere puramente tattile eppure così intenso da rivaleggiare con quello più specificamente sessuale.
Ed era consapevole che anche Aurora provava quel tipo di piacere, e molto superiore, perché ormai la conosceva bene e sapeva che quella determinata condizione, per lei, era la perfetta alchimia di tutti gli ingredienti che le provocavano un qualcosa di estatico anche solo al minimo contatto con lui.
Solo Roberto sapeva esattamente cosa fare e cosa dire per rendere perfetta e completa la soddisfazione che lei viveva in ogni istante, per ore e ore, mentre il mondo intorno a loro non sospettava nulla.
Per questo, anche se il numero dei corteggiatori di Aurora era cresciuto in maniera esponenziale, nessuno di loro poteva anche solo lontanamente immaginare quanto lei e Roberto fossero in sintonia.
Crediamo sia legittimo dire che si erano plasmati a vicenda, ma senza dubbio fu lei quella che maggiormente influenzò l'altro.
Anni dopo, quando la loro storia era finita, Roberto si accorse di aver acquisito molte caratteristiche della personalità di lei, e non riuscì a liberarsene, perché era come un tatuaggio impresso non sul corpo, ma sull'anima.
In quel periodo tra l'ottobre del 1994 e il febbraio del 1995 si sentivano entrambi molto forti, e il pericolo stava proprio in questo.
E' proprio nel momento in cui ci sentiamo più forti che corriamo i rischi maggiori.
Aurora e Roberto erano all'apice della felicità, e non si resero conto delle crepe che incominciavano a svilupparsi nel loro rapporto, e che solo anni dopo divennero visibili.
In lei c'era un lato oscuro, molto nascosto, il cui peso finì per gravare sempre più sulle spalle di lui.
Nonostante apparisse una persona sicura di sé, Aurora aveva i suoi punti deboli.
L'abbiamo scritto più volte e lo ripetiamo: nessuno è invulnerabile, nemmeno una personalità energica e determinata come quella di Aurora.
Lo shopping compulsivo era solo la punta dell'iceberg di un problema molto più serio.
Ora, i lettori più affezionati ricorderanno che sin dall'adolescenza Aurora aveva sviluppato un disturbo della personalità di tipo ossessivo-compulsivo con, ci si consenta la battuta un po' scontata, cinquanta sfumature di grigio, ossia con risvolti sado-masochistici non convenzionali, del tipo che i Giapponesi chiamano omorashi e anche quelli da dominatrice (non a caso spesso si vestiva in abiti maschili, con giacca, cravatta e pantaloni). Roberto subì tutto questo obtorto collo, ma che sopportò stoicamente pur di stare con lei, perché ne era follemente innamorato.
Già da quel momento, comunque, lui aveva capito che c'erano dei problemi difficili da risolvere.
Di tutto questo avremmo preferito non parlare, se non fosse stato così rilevante da costituire uno dei segreti inconfessabili della loro granitica stabilità di coppia.
Certo, anche per tutto questo, se ci fosse stato Internet con l'adsl diffuso, forse Aurora avrebbe potuto rendersi conto che tutto ciò che la rendeva insicura era molto più diffuso di quanto pensasse.
Aurora era riconoscente, nei confronti del fidanzato, per questo e per altri motivi, ancor meno limpidi, ma crediamo che comunque fosse in buona fede nel manifestagli i suoi sentimenti.
E tutto questo forse sarebbe anche potuto giungere ad un esito felice, se solo entrambi si fossero resi conto in tempo di cosa si stava sviluppando nella mente di lei.
Cercheremo di spiegarlo senza troppi giri di parole: l'autostima è un bene, l'eccesso di autostima no.
Negli anni milanesi, il narcisismo di Aurora assunse connotati patologici tali che gli psichiatri avrebbero potuto riscontrare in lei, in base al famigerato manuale statistico diagnostico (DSM), un numero sufficiente di sintomi del disturbo narcisistico della personalità.
Anche considerando che il senso "grandioso" di sé si può sviluppare con facilità se si è oggettivamente dotati sotto molti punti di vista, esiste comunque un limite oltre il quale c'è una patologia.
Aurora incominciò a prendersi troppo sul serio, ad attendersi dagli altri un trattamento di riguardo, a non perdonare più le fragilità altrui, a non rapportarsi bene con le visioni del mondo alternative alla propria, a manifestare un egocentrismo eccessivo.
Siamo tutti un po' egocentrici, chi più, chi meno: è la malattia della nostra generazione e forse anche della successiva, ma il punto è capire quando questo egocentrismo diventa eccessivo.
La giovane Visconti riusciva ancora, se lo voleva, a mascherare questi sintomi dietro ad una normale esigenza di galanteria che una donna con le sue qualità può considerare un atto dovuto, ma chi la conosceva bene si accorgeva che c'era qualcosa che non andava.
Roberto era ancora troppo innamorato per rendersene conto, e questo trascinò anche lui nel vortice di frenesia edonistica che la sua ragazza aveva creato intorno a sé.
Non vogliamo però scaricare le colpe su una sola delle parti.
Ognuno dei due ebbe le sue responsabilità riguardo a ciò che accadde in seguito.
Roberto avrebbe potuto dirle di no, una volta ogni tanto, ma non lo fece, e non solo per amore, ma perché gli piaceva immensamente essere al fianco di quella dea, ne era onorato e lusingato e si divertiva pure lui nel partecipare a quella vita edonistica e nel frequentare quell'ambiente così sfarzoso, invece di studiare.
Alla fine lei era riuscita a trasformarlo in un dandy, perché anche lui lo voleva, e questo divenne parte integrante del suo "personaggio" per il resto dei suoi giorni.
Gli sembrava di essere un novello Julien Sorel, un Rastignac, un Lucien de Rubempré, ricalcando i passi di quegli studenti provinciali divenuti raffinati esteti dediti al piacere e alle donne, invece di studiare.
Quando girava per le strade del centro, mano nella mano con Aurora, si sentiva un dio, e si convinceva che lui e la sua ragazza, insieme, erano più fighi persino di Johnny Depp e Kate Moss!
Ora sappiamo tutti come l'alcolismo ha ridotto Johnny Depp e come la cocaina ha ridotto Kate Moss, ma all'epoca la loro storia era vista come l'archetipo della passione tra due personalità forti, colleriche e carismatiche, quel tipo di coppia che litiga furiosamente e al culmine della lite i due si arrapano e si fanno la scopata del secolo.
Tutti volevano essere come loro, in quegli anni, ed era normale che fosse così: dopo di loro, ben poche coppie raggiunsero, tali livelli di "divismo": Brad Pitt e Gwyneth Paltrow, Tom Cruise e Nicole Kidman, Leonardo Di Caprio e Gisele Bundchen, poi ognuno di loro è invecchiato, si è sposato due o tre volte, e ha lasciato il testimone a nuove coppie, meno carismatiche.
Tutto passa.
Ma in quei mesi tra il novembre del '94 e il febbraio del '95, Roberto visse una in specie di sogno ad occhi aperti, ed era un bel sogno. E così, ebbro di piacere, si lasciò trascinare dalla corrente e dimenticò tutto il resto.
La sua unica dipendenza (giudichino i lettori se tossica o meno) fu quella da Aurora Visconti-Ordelaffi.
Era lei la sua bevanda inebriante: Aurora era tutto per lui.
L'avrebbe seguita anche all'Inferno, e forse fu proprio quello che fece.
Sapeva che avrebbe pagato caro il prezzo di quei mesi di vita dissipata, e infatti il conto, in termini di voti, arrivò insieme agli esami di fine semestre.
Ma di tutto questo e di molto altro ancora parleremo nel prossimo capitolo.
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