martedì 15 settembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 85. L'illusione di un'amicizia

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Nessuno esce indenne da ciò che legge, e questo vale a maggior ragione per chi mostra fin da bambino una propensione per la lettura, come accadde a Roberto Monterovere.
E' chiaro che nell'infanzia si leggono per lo più testi di fiabe o di romanzi d'avventure ambientate in universi fantastici.
In questi romanzi i grandi temi della vita sono spesso idealizzati: il Bene, il Male, la lealtà, l'altruismo, l'amore e l'amicizia.
"Illusioni! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore", scriveva giustamente Ugo Foscolo, e molto tempo dopo la psicanalisi gli avrebbe dato ragione.
Senza illusioni l'Io non può vivere, poiché esse sono i suoi meccanismi di difesa dalla spaventosa cognizione della propria inadeguatezza di fronte al duplice assalto delle pulsioni interiori e dell'assurda ingiustizia della vita reale.
Schiacciato tra l'impetuoso Principio del Piacere e l'opprimente Principio di Realtà, l'Io si costruisce una rappresentazione del mondo che è nel contempo salvagente, scialuppa di salvataggio e ancora di salvezza.
Ci aggrappiamo alle illusioni perché in fondo, nonostante la rappresentazione della realtà sia sconfortante, c'è in noi una forza cieca, sorda e ostinata, che Schopenauer chiamava Wille zum Leben, la "volontà di vita", che ci spinge a credere a qualunque cosa pur di legarci a questa esistenza, come fossimo ostriche che si attaccano pervicacemente ad uno scoglio in un mare in tempesta.
E' per questo che abbiamo un disperato bisogno di credere in un'idea o in una persona idealizzata.
L'amicizia spesso nasce da un'iniziale idealizzazione, destinata col tempo a ridimensionarsi, pur conservando un'illusione di fondo, e cioè l'idea che noi ci facciamo delle persone per giustificare ai nostri occhi il fatto di provare emozioni di vario genere nei loro confronti.
Questo è vero in modo particolare nel periodo che va dalla tarda infanzia alla fine dell'adolescenza, in cui spesso si sceglie una persona come "migliore amico o amica", che naturalmente si pensa rimarrà tale "per sempre", almeno fino a quando non si trova un "nuovo migliore amico/a".
Qualcosa di simile accadde all'amicizia tra Roberto Monterovere e Vittorio Braghiri, che per tutto il tempo delle scuole elementari si professarono reciprocamente, e con la massima convinzione e partecipazione, "migliori amici per sempre" (oggi i nativi digitali direbbero best friends forever abbreviandolo in b.f.f.).
Eppure sia Roberto che Vittorio avrebbero dovuto accorgersi che l'illusione che teneva in piedi la loro amicizia si stava sgretolando sotto i loro occhi.
Entrambi erano molto orgogliosi e molto legati alle proprie famiglie, tra le quali ormai c'era una rivalità crescente, per quanto tenuta a freno proprio dal legame tra i due rampolli.
Roberto però pensava, sbagliando, che Vittorio non desse troppa importanza a quel clima competitivo generato dai rispettivi genitori.
Il giovane Braghiri, infatti, nonostante avesse seppellito nel giro di pochi mesi il nonno materno (il giudice De Gubernatis) e quello paterno (l'amministratore delegato Michele Braghiri), manteneva un atteggiamento apparentemente distaccato e imperturbabile.
E tuttavia, a ben vedere, qualche segnale di allontanamento, da parte di Vittorio, c'era stato.
Per esempio, quando suo padre, Massimo Braghiri, aveva comprato la macchina nuova, una Ford Escort metallizzata, Vittorio aveva interrotto la tradizione secondo cui, ad ogni gita organizzata dalle due famiglie dietro insistenza dei ragazzi, questi ultimi salivano nella stessa automobile, a turni rigorosamente alterni.
Quando per la prima volta Vittorio, pur dovendo, nel rispetto dei turni, salire con Roberto sulla Citroen azzurra dei Monterovere, preferì correre, all'ultimo minuto, nella nuova Ford paterna, il giovane Monterovere rimase talmente scosso da non riuscire a proferir parola per il resto della giornata, che si concluse infatti in un fallimento clamoroso, per la gioia di Massimo Braghiri.
Va detto però che il giorno dopo, Vittorio, per scrupolo di coscienza, invitò Roberto al cinema a vedere Indiana Jones e il tempio maledetto, e tutto sembrò tornare come prima.
Ma non era affatto così.
Persino il cinema era destinato a diventare un terreno "divisivo" (come oggi si usa dire), in quanto i loro padri divergevano anche riguardo ai gusti relativi al grande schermo, come già era emerso anni prima nella vexata quaestio su Fellini, difeso dai Monterovere e stroncato dai Braghiri.
Ma i figli avrebbero anche potuto sorvolare sulle divergenze paterne circa il cinema d'autore, se non ci fossero state altre divergenze tra i loro stessi gusti.
Vittorio Braghiri amava i film d'azione in stile Indiana Jones, che non dispiacevano del tutto nemmeno a Roberto Monterovere, il quale tuttavia preferiva il genere fantasy, ed era infatti entusiasta del film tratto dall'omonimo romanzo "La storia infinita".
Amavano entrambi la fantascienza, ed erano fan accaniti di Guerre Stellari, ma si trovarono divisi sulla resa cinematografica, da parte di David Linch, del capolavoro di Frank Herbert, Dune, uno dei pilastri della formazione narrativa di Roberto Monterovere.
Il paradosso era che Dune, come romanzo, era piaciuto anche a Massimo Braghiri, padre di Vittorio, che però, pur di contrastare i Monterovere, decise di stroncarne la resa cinematografica, soprattutto quando venne a sapere che lo stile visionario e impegnativo del film era stato definito "quasi felliniano" da Francesco Monterovere.
Da quel momento ogni occasione divenne buona per trasformare le serate al cinema e i successivi "cineforum" alla presenza dei rispettivi padri, in una specie di rissa da osteria.
Francesco e Roberto Monterovere esaltarono il brillante film Amadeus, divertente e immaginaria ricostruzione della presunta rivalità tra Mozart e Antonio Salieri, magistralmente interpretato dal grandissimo F. Murray Abraham.
A questo gioiello, i due Braghiri, Massimo e Vittorio, contrapponevano Terminator con Arnold Schwarzenegger, e a quel punto l'abisso che si scavò tra i due amici anche su questo tema divenne irreparabile.
Il velo di Maya dell'illusione si stava lacerando, e i rispettivi genitori riuscivano molto bene a mettere in risalto le differenze tra i loro figli.
Massimo Braghiri era fermamente convinto, e da tempo, che Roberto Monterovere fosse un inetto, un incapace, a cui tutto era piovuto dal cielo, senza alcun merito, e dunque destinato a scialacquare ogni cosa, fallendo in maniera completa e devastante.
Ora, ad essere onesti, Massimo non aveva tutti i torti, ma la sua colpa fu nell'aver attivamente e pesantemente contribuito all'avveramento di quella profezia.
Roberto aveva ereditato dal padre Francesco una certa "imbranatura" di fondo che in effetti lo danneggiava nelle questioni pratiche e negli sport, tranne il nuoto, dove comunque Vittorio eccelleva.
Al contrario, Vittorio era un po' meno brillante dal punto di vista intellettuale e i suoi rendimenti scolastici, pur buoni, erano inferiori a quelli, notevoli, del giovane Monterovere.
In una normale amicizia questo non sarebbe stato certo un problema, ma quella tra Roberto e Vittorio era tutto tranne che normale.
Vittorio, quasi a voler confermare il suo nome, voleva essere primo in tutto, e dunque non tollerava che Roberto fosse più bravo di lui a scuola.





E men che meno lo tollerava Massimo, il quale insinuava che in fondo Roberto fosse solo un detestabile "secchione" che studiava troppo perché non sapeva fare altro.
Questo disprezzo, però, avrebbe potuto giustificare il proverbio secondo cui "chi disprezza compra", dal momento che in segreto i genitori di Vittorio tenevano moltissimo ai suoi risultati scolatici e curavano di persona i suoi studi pomeridiani, essendo entrambi insegnanti.
C'era però un'altra questione, mai espressa a parole, eppure evidente nei fatti e cioè che Vittorio faceva sempre più fatica ad accettare il fatto che Roberto fosse destinato, almeno in teoria, ad ereditare un patrimonio molto più consistente del suo.
L'ingenuità di Roberto, su questo versante, era dovuta al fatto che i suoi genitori e i suoi nonni avevano cercato, proprio per evitare le invidie degli altri, di mantenere un profilo basso, per quanto possibile, per cui il giovane Monterovere non percepiva una gran differenza con Vittorio, su questo punto, anche perché le loro nonne materne erano sorelle, e la nonna paterna del giovane Braghiri esercitava, a Villa Orsini, un potere maggiore della stessa Contessa.
Alla fine però, ad aprire gli occhi a Roberto fu il nonno materno, il vulcanico Ettore Ricci.
Lo convocò per la prima volta nel suo "ufficio" a Villa Orsini, come se fosse una sorta di "iniziazione" ai sacri misteri.
<<Tua madre mi ha detto che tra te e Vittorio Braghiri c'è un po' di maretta>>
Roberto minimizzò:
<<Ma no... è solo che a volte non ci capiamo... e si litiga, ma è normale... poi alla fine torna tutto come prima>>
Ettore scosse il capo:
<<Sei un ingenuo, proprio come tuo padre. Ma per fortuna hai un nonno materno molto sveglio che ti aiuterà a farti strada nella vita. E la prima lezione è proprio questa. Bisogna imparare a non riporre troppa fiducia nelle persone, persino quelle che ci sembrano più amiche>>
Roberto aveva la risposta pronta:
<<Tu lo hai fatto proprio con Michele, il nonno di Vittorio!>>
Ettore sospirò:
<<Ed è stato il mio più grande errore. Ne ho pagato le conseguenze per tutta la vita.
Per questo voglio metterti in guardia dalla famiglia Braghiri! Sono invidiosi e sadici. Godono quando gli altri soffrono. Hai visto, l'anno scorso, com'erano felici quando hanno arrestato il povero Enzo Tortora? Verrà fuori che è innocente, ma intanto il danno è fatto, e la gente come i Braghiri si diverte un mondo a vedere gli innocenti in manette. Io credevo che mi sarebbero stati riconoscenti per il fatto di averli resi ricchi e di averli fatti entrare nel clan Ricci-Orsini, ma a loro questo non bastava. 
Loro vogliono essere al vertice di tutto , alla sommità, e non sopportano l'idea che noi li superiamo in molte cose>>
Roberto non poteva negare questo riguardo ai genitori di Vittorio:
<<Questo vale per Massimo ed Elisabetta, ma non per loro figlio. Io credo di conoscere molto bene Vittorio e sento che le cose a cui lui dà importanza sono altre>>
<<Per esempio?>>
<<Be', l'autocontrollo, le abilità pratiche e sportive, la realizzazione di grandi obiettivi con le proprie forze, senza l'aiuto della famiglia>>
Ettore Ricci sorrise:
<<In poche parole, dà importanza a tutto quello in cui ritiene di esserti superiore. Non ti dà da pensare, questa cosa?>>
Roberto sapeva che c'era un fondo di verità in tutto questo, ma non voleva credere che tali considerazioni fossero sufficienti per mettere in crisi un'amicizia:
<<A me non interessa la competizione>>
<<A te no, ma a lui sì. Ce l'ha nel sangue. Ricordo che suo padre, alla tua età, aveva così tanta rabbia dentro che si divertiva a spaventare i bambini più piccoli e a torturare gli insetti. Staccava le ali alle mosche o faceva annegare in acqua le formiche. Scommetto che lo fa anche Vittorio, non è così?>>
Era proprio così, ma Roberto non voleva fare la spia:
<<No, Vittorio è diverso, non è come suo padre>>
Ettore scosse il capo:
<<Forse è anche peggio. E' più furbo e più ipocrita. E' il classico tipo capace di pugnalare alle spalle qualcuno che gli è amico. Spero di sbagliarmi, ma temo che ti farà soffrire>>
Roberto non poté fare a meno di sentire un brivido di paura.
Dal più profondo della sua mente, l'orda degli spiriti animali dei suoi antenati lo metteva in guardia, allo stesso modo delle parole di suo nonno.
E il messaggio era quello istintivo e salvifico che aveva permesso ad una linea ininterrotta di generazioni di arrivare fino a lui; quel messaggio diceva: "Fuggi, prima che sia troppo tardi!".

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