domenica 11 marzo 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 107. Se ti piace, fa male

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Secondo alcune profezie, il mondo sarebbe dovuto finire nel 2012: non fu così, ma per quel che riguardava Riccardo Monterovere, il mondo era già finito l'anno precedente.
La malattia dei genitori, la morte dell'adorata nonna Diana, la rovina finanziaria e l'avvento al potere di Monti e dei tecnocrati di Bruxelles, con le loro tasse sugli immobili e la conseguente necessità di mettere in vendita la Villa Orsini, avevano distrutto tutto il suo mondo e tutte le sue certezze.
Aveva cercato di tornare alla normalità, o di fingerla, il che è lo stesso.
Ma come fai a rimettere insieme le fila di una vecchia vita, se non c'è più nemmeno un telaio a fare da base? 
Come fai ad andare avanti quando nel tuo cuore cominci a capire che ci sono ferite che neppure il tempo può risanare, piaghe talmente profonde che minacciano di avvelenare tutto il corpo, cancrene da amputare, lasciandoti menomato a tal punto da condizionare ogni aspetto del tuo futuro, per sempre?
Riccardo cercava di farsi forza, per i suoi genitori, più che per se stesso. Si imponeva di portare una maschera che nascondesse i suoi reali sentimenti, ma gli occhi lo tradivano.
Quello che si leggeva nei suoi occhi era il ricordo del dolore, un dolore che non sarebbe mai riuscito a dimenticare.
Per lui la felicità passata non era più felicità, ma il dolore passato era ancora dolore.
Era questa la sua condanna, ricordare tutto, soprattutto il male, perché nella vita il male è preponderante.
Questa era la verità scomoda che nessuno voleva sentirsi dire, ma che quasi tutti, in cuor loro, prima o poi, erano destinati ad ammettere a se stessi, salvo pochi fortunati e moltissimi stupidi.
E Riccardo non apparteneva né ai primi, né ai secondi.
Apparteneva a quella categoria di persone, nel contempo speciali e tragiche, che erano fatte per la semina, ma non per il raccolto.
Aveva detto no all'opaca trafila delle cose, vana più che crudele, per dedicarsi alla conoscenza, pur sapendo che dalla conoscenza non può che derivare un dolore più grande, perché il modo migliore di difendersi dall'ingiustizia è non accorgersi della sua esistenza.
Stupidità ed ignoranza sono il principale scudo con cui ci si salva dalla cognizione del dolore.
Ma questo non poteva dirlo, perché in troppi si sarebbero offesi, specialmente le "anime belle" che consideravano il dolore come una giusta punizione e il lamento come una colpa vergognosa.
Persino Ilaria, a volte, lo accusava di questo:
<<Ostenti il tuo dolore come se fosse un trofeo>>
La verità era meno edificante: in fondo per lui la sofferenza era anche un alibi, una specie di giustificazione, come quando sotto sotto si è contenti di avere la febbre perché così si può marinare la scuola.
Ma questo non l'avrebbe mai ammesso con nessuno, men che meno con Ilaria:
<<E' un trofeo, in effetti, poiché niente ci rende più grandi, davanti a noi stessi, della capacità di sopportare una grande sofferenza>>
Forse fu proprio la divergenza di opinioni su questo punto la prima crepa del rapporto tra Riccardo e Ilaria.
In fondo lei era uno spirito classico, amava le statue antiche degli atleti olimpionici, agognava ben altri trofei e si rendeva conto che Riccardo era troppo diverso dall'ideale di "mens sana in corpore sano". Anzi, ormai ne era l'opposto.
In lui i tormenti dell'anima si erano sommati a quelli del corpo:  erano come una seconda emicrania, ancora più lancinante di quella che lo affliggeva da sempre.
E non era il peso dei segreti riguardanti la sua disastrata famiglia.
<<Tu non mi dici tutto, riguardo al tuo passato e ai tuoi parenti. Hai dei segreti e per me i segreti sono bugie>>
Era una stupidaggine, ma in fondo Ilaria aveva solo vent'anni, e a quell'età siamo tutti un po' stupidi.
Riccardo cercava di essere comprensivo, ma sentiva anche il bisogno di mettere in chiaro un concetto che gli stava molto a cuore:
<<Se anche ti raccontassi la mia storia e quella della mia famiglia, non sarebbe certo la verità. E questo non per disonestà o per motivi di riservatezza, ma perché ho la vocazione del romanziere, e come tale dico che la vita passata non è quella che abbiamo vissuto e nemmeno quella che ci ricordiamo, ma quella che immaginiamo, e come ce la immaginiamo per raccontarla, e renderla più interessante sia ai nostri occhi che a quelli di uno spettatore distratto>>
Ilaria era stata sul punto di capire, ma poi il concetto le era sfuggito:
<<E tu credi che il dolore sia interessante?>>
<<E' sicuramente più interessante della felicità. Non c'è niente di più noioso di una storia in cui tutto va bene. Forse è per questo che Dio, o chi per lui, ha creato il mondo in questo modo. Un mondo felice sarebbe stato troppo noioso, almeno per chi lo guarda>>
Era un paradosso, ma conteneva un'accusa ben precisa di sadismo rivolta al Demiurgo, che nell'ìpotesi cattolica arrivava, secondo Riccardo, al sado-masochismo.
Si trattava di una tesi eretica e blasfema, ma si basava comunque sull'esperienza.
La preponderanza del male nella vita era un'evidenza empirica: la maggior parte delle cose che ci piacciono fanno male alla salute o all'immagine, oppure sono inaccessibili per motivi legali, morali o economici.
Chi aveva concepito un mondo simile o era il Demiurgo malvagio dello Gnosticismo, oppure era un Dio che voleva che questo pianeta, in questo universo, fosse il vero Inferno dove noi, anime dannate per i crimini di una vita precedente (la vera vita), eravamo destinati a scontarne la punizione.
Certo, come dice Sam Gamgee: "C'è del buono in questo mondo, Padron Frodo ed è per questo che dobbiamo combattere". E, come aveva scritto Italo Calvino,“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Eppure in quel momento, per Riccardo, era difficile trovare qualcosa che non fosse inferno.
Gli mancavano Ettore e Diana, gli mancavano i suoi genitori com'erano prima che la malattia li rendesse l'ombra di ciò che erano stati e gli mancava Ilaria che era in un paese caldo, per quel maledettissimo Erasmus, quella specie di nuova naja che il globalismo tecnocratico imponeva ai giovani studenti.
Lei era al sole, mentre una gran neve aveva sepolto le città italiane nel febbraio del 2012, e Bologna, in particolare, tanto che ancora oggi gli "umarell", in dialetto, ricordarono con nostalgia " e gran nvò de dods".
Ma dov'era Ilaria non c'era neve né pioggia.
C'era una specie di "estate indiana", come quelle ultime giornate di ottobre, quando ancora sembra di essere in estate e che quell'estate debba durare in eterno, e invece è l'ultima luce e l'ultimo calore prima del grande freddo.
Dicono che Socrate, dopo aver bevuto la cicuta, abbia asserito che il freddo della morte incomincia a sentirsi dai piedi, per poi risalire.
Io non ho bevuto la cicuta, pensava Riccardo, eppure il gelo mi arriva fino al cuore.



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