venerdì 11 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 99. Il Leone in Inverno


Il suo corpo martoriato, la sua casa fatiscente, la sua azienda colpita al cuore, la sua Contea sconfitta: questo era bilancio che Ettore Ricci si trovò davanti quando finalmente, dopo interminabili mesi di ospedale, riuscì a tornare a Casemurate, nel dicembre del 1990.
Cosa restava, dopo una vita di lavoro, di sacrificio, ma anche di ambizione e di desiderio?
Un cumulo di macerie.


Ma Villa Orsini era decorata con le luminarie di Natale, e la famiglia al completo lo attendeva come un re ferito in battaglia e tornato per l'ultima volta nella sua patria, a morire.
Ettore sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Diana lo aspettava sulla soglia, come la fata Morgana che accoglie Artù morente nell'isola di Avalon, da dove un giorno tornerà, secondo la speranza dei Bretoni, la speranza vana...
Accennò un mezzo sorriso, mentre sua figlia Silvia lo faceva accomodare sulla sedia a rotelle, il regalo natalizio che mai avrebbe pensato di poter gradire.
Tutta la sua famiglia era lì, il clan Ricci-Orsini al completo, riunito per l'ultima volta nella sua interezza, per onorare il patriarca e nel contempo prendere congedo da lui.
Lo guardavano come se fosse già morto, come avessero davanti una statua o un fantasma, ma la realtà era ancora peggiore: ciò che vedevano era un relitto.
Di fronte all'improvvisa coscienza del fatto che ormai tutto si era compiutoEttore non poté fare a meno di provare quel senso di rimpianto tipico di coloro che, soltanto in extremis rebus, si rendono conto di aver dedicato troppo tempo a cose vane e troppo poco a tutto il resto.
La vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
Quante cose si era perso!
Pensò ai luoghi che non avrebbe visto mai, ai viaggi che avrebbe voluto fare con Diana, ed aveva sempre rimandato, perché c'erano questioni più urgenti,  a come sarebbero diventati i suoi nipoti da adulti e a come sarebbe stato bello poter conoscerli meglio...
Non aveva saputo apprezzare abbastanza ciò che già era suo, affannandosi sempre a desiderare qualcosa di più.
Gli anni erano trascorsi veloci, rincorrendosi freneticamente come falene intorno al lume della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo. 
Ed ora quel fuoco si stava spegnendo...
Ma c'era quell'ultimo Natale, quell'ultima occasione per stare con i suoi cari.
Si concentrò sul momento presenteperché alla fine aveva compreso che il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché ne abbiamo le forze, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote Roberto avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute irreparabilmente.



Le questioni pratiche erano già state sistemate, in un modo o nell'altro.
Aveva saldato i debiti col Fisco e aveva fatto testamento in maniera scrupolosa, discutendolo con i familiari.
La Villa Orsini e un terzo del Feudo sarebbero andati in eredità a Diana Orsini, che per la prima volta in vita sua sarebbe diventata proprietaria di ciò che un tempo era stato dei suoi antenati.
I rimanenti due terzi del Feudo Orsini dovevano essere ripartiti tra le figlie di Ettore e Diana.
Il Consiglio di Amministrazione sarebbe stato composto nella maniera seguente: Presidente Diana Orsini Balducci di Casemurate, Vicepresidente e Amministratore Delegato Amilcare Spreti di Serachieda, Tesoriere e Direttore Generale Saverio Zanetti Protonotari Campi, Consiglieri con diritto di voto e gettone di presenza gli altri soci: Francesco Monterovere, Adriana Ricci, Carolina Gagni di Montescudo, Maria Teresa Tartaglia, Cassio Baglioni detto "la Marmotta", Sebastiano Luciani detto "Bastcianò" e altri due eventualmente nominati dalla Bancaccia e dai soci di minoranza.

Signoria Rurale medievale


Erano tempi di crisi economica per tutti. 
Una volta Roberto gli aveva chiesto: <<Stiamo per fallire?>> ed Ettore aveva risposto <<Ti stai ponendo la domanda sbagliata>> E allora il nipote gli aveva chiesto <<Quale sarebbe la domanda giusta?>> Ettore aveva abbozzato un mezzo sorriso, con la mezza faccia non paralizzata: <<La domanda giusta, mio caro ragazzo, è : "Chi non fallirà?">>
Roberto non capiva: <<Cosa intendi dire?>>
Il vecchio allora allora alzava l'indice della mano buona, toccandosi la tempia e ruotando il dito orizzontalmente: <<Dicono che sei intelligente, e allora usalo quel cervello! La crisi ci mostra subito chi detiene il potere reale e qual è il suo disegno: chi ci guadagna, chi viene salvato e chi viene sacrificato. E poi c'è chi deve imparare a rimanere a galla da solo, senza più aiuti e salvagenti>>
Roberto comprese:
<<E questi siamo noi>>
Il vecchio gratificò il nipote con un mezzo sorriso:
<<Oh, ecco il mio ragazzo!>>






Ogni tanto Ettore rimaneva in silenzio, e contemplava sua moglie, chiedendosi se alla fine fosse riuscita davvero ad amarlo.
Non avevano più parlato del processo. Lei aveva testimoniato a suo favore con grande convinzione.
Ma lo aveva fatto per salvare lui o per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia?
Tante volte avrebbe voluto parlarle liberamente di tutto ciò che per una vita intera non si erano detti. Ma quelle parole rimasero sempre e soltanto nel pensiero.
"Diana, gli occhi tuoi pieni e lucenti mi hanno incantato un pomeriggio lontano più di cinquant'anni fa. 
Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che un uomo di potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo della sua azienda e della sua famiglia.
Per troppi anni, nel Feudo Orsini, il Potere sono stato io. 
Io, con la mia mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te.
 Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità...
 La responsabilità diretta o indiretta per tutte le malefatte che sono state commesse sotto questo tetto dal 1935 in avanti.
La responsabilità nell'aver permesso che un folle, di sua iniziativa, eliminasse chiunque poteva costituire una minaccia per il nostro sistema di potere.
Sì, io avrei potuto fermare Michele e non l'ho fatto. Questo mi rende suo connivente.
Pertanto ho sulla coscienza la vita di un numero di persone maggiore persino di quello che la gente pensa.
Isabella, Arturo, il Conte Achille avvelenato, Federico, mio fratello Oreste che voleva confessare troppe cose alle autorità in cambio della salvezza finanziaria, tutti loro, per vocazione o per bisogno, irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. 
Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e io non potevo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. 
"
Questi pensieri, che lo terrorizzavano, non li aveva confessati a nessuno, nemmeno ai sacerdoti che più volte gli avevano somministrato l'Estrema Unzione.

Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno, all'età di 81 anni.
Fu castigo o fu misericordia?
A Roberto piacque pensare che in fondo, alla fine, suo nonno avesse trovato la pace.
I funerali si tennero in forma strettamente privata e la notizia della morte venne data solo, come si dice in questi casi, "a esequie avvenute".
Mentre i resti mortali di Ettore Ricci venivano tumulati nella lugubre cappella dei Ricci-Orsini, nel cimitero di Casemurate, "sotto la volta nera", più buia dell'avello dell'Escoriale più istoriata del Mausoleo di Galla Placidia, a Roberto parve che anche la sua lunga e dorata infanzia, in quel preciso istante, fosse stata sepolta definitivamente insieme al nonno.







Poi lo sguardo di Roberto andò verso sua nonna, bellissima e solenne, resa ancora più nobile e distinta dal lutto e dalla saggezza degli anni.
Diana Orsini Balducci, vedova Ricci, diciottesima Contessa di Casemurate, si stagliava come una statua davanti all'abisso.
Il suo volto era immobile, il suo sguardo imperscrutabile, mentre fissava il sepolcro del marito, avvolta nei veli neri del lutto sollevati dal vento.




Che cosa stava pensando del suo defunto marito? Di quel marito che era stata costretta a sposare contro la sua volontà, per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini, e che aveva continuato a difendere a spada tratta fino all'ultimo, tra processi e scandali, sempre per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini!



Diana forse aveva preferito credere che Ettore, pur essendo capace di atti deplorevoli, non fosse un uomo pericoloso
Forse spericolato, questo sì, ma non malvagio.
Diana, come tutti coloro che erano cresciuti con la consapevolezza di doversi dedicare alla conservazione di ciò che era stato loro trasmesso per tradizione e forse per Mandato Celeste, temeva il Caos al di sopra di ogni cosa.
Ed Ettore, sotto molti aspetti, era stato la personificazione del Caos. Ma lei era riuscita a fare in modo che quell'uragano generasse anche energia utile e costruttiva. 
Aveva preferito non sapere la verità, perché ci sono cose nella vita che è meglio non vedere, non sentire, neppure pensare.
Aveva circonfuso la memoria di suo marito in un'aura di mistero.
E questo mistero sarebbe diventato per lei qualcosa da mettere a posto, nella galleria dei ritratti, dove non mancavano gli sguardi oscuri e minacciosi.
E avrebbe conservato tutto questo con la stessa infinita ed eterna devozione nei confronti della sua villa vittoriana fatiscente, della sua antica ed eccentrica famiglia e della sua Contea, meravigliosa e sconfitta: solo così Ettore avrebbe potuto ancora trovare posto tra i "buoni",  ed essere annoverato nella gloriosa compagnia degli illustri antenati di una grande stirpe.

Sulla lapide, per volontà di Diana Orsini, venne inciso il sonetto "Memoria inmortal de don Pedro Girón, duque de Osuna, muerto en la prisión", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano

Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
    Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
    En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
    Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.

Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer gli diedero le Spagne,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione le straniere.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoran con lamento il lor dolore.


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Note dell'Autore 
1) Il quadro è "La Sepoltura del conte di Orgaz" (El Entierro del conde de Orgaz), dipinto a olio su tela realizzato nel 1586 da El Greco. È conservato nella Chiesa di Santo Tomé (Toledo), Castiglia, Regno di Spagna.
2) Il monologo di Ettore Ricci è ispirato a quello di Giulio Andreotti nel film "Il Divo" di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo.
3) Il titolo del capitolo si ispira al film Il leone d'inverno (The Lion in Winter) del 1968 diretto da Anthony Harvey, tratto dall'omonima opera teatrale del 1966 di James Goldman, ambientato negli ultimi anni di regno di Enrico II Plantageneto, che riunisce la sua famiglia per ultimo Natale, dovendo constatare però che la moglie Eleonora d'Aquitania e i figli superstiti Riccardo Cuor di Leone, Goffredo di Bretagna e Giovanni Senzaterra, tramano continuamente per impadronirsi del trono e del potere.
Il personaggio di Eleonora fu magistralmente interpretato da Katharine Hepurn, che ottenne così il terzo Oscar.
Nel 2003 fu realizzata una versione televisiva per la regia di Andrei Konchalowskj, con Glenn Close nel ruolo di Eleonora d’Aquitania, la quale per questa interpretazione si aggiudicò il suo primo Golden Globe (categoria “Miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione”).



martedì 8 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 98. L' Autunno del Patriarca


Dopo l'ictus che l'aveva colto al termine del suo memorabile discorso alla Corte, Ettore Ricci fu ricoverato all'ospedale Morgagni di Forlì.
La metà destra del corpo era paralizzata, ma nonostante la emi-paresi facciale, riusciva ancora a parlare e a farsi capire fin troppo bene, rispolverando persino il linguaggio "colorito" della sua lontana giovinezza.
Il temperamento istrionico e sanguigno dei Ricci sembrava quasi essere la sua estrema difesa contro la decadenza fisica.
Dopo tre giorni di sedazione farmacologica, il patriarca del clan Ricci-Orsini si svegliò e incominciò subito a protestare perché non lo lasciavano tornare a casa.
 I medici gli spiegarono che, oltre all'ictus, erano stati rilevate altre patologie, tra cui fibrillazione atriale, embolia polmonare, broncopneumatia cronica ostruttiva, edema polmonare, infezione da streptococco, erisipela, calcolosi colecistica grave, ernia inguinale pronunciata e ipertrofia prostatica.
Il primario di medicina generale lo informò riguardo alla terapia e alla degenza:
<<Le somministreremo farmaci anti-ipertensivi, emo-fluidificanti, diuretici, antibiotici, mucolitici, antispastici, anti-infiammatori, alfa-bloccanti e beta-bloccanti.
 Poi valuteremo se intervenire prima sulla cistifellea, oppure sull'ernia inguinale e/o la prostata>>
Ettore non aveva capito pressoché nulla, se non che volevano fargli un intervento in una zona piuttosto imbarazzante, e reagì male:
<<Poche pugnette! Io... io... ho da fare! Devo sistemare le cose, per quando io...  dopo che io...>>
Poi si fermò, consapevole che, in ogni caso, quello era l'inizio della fine.
Il giorno successivo, in mancanza di miglioramenti, l'Iniziato (la cui identità sarà svelata in seguito), convinse la famiglia a chiamare un prete per l'Unzione degli Infermi.
Ettore non la prese bene.
<<Infermi? Quali infermi? Io... io... sto benissimo... >>
Il sacerdote venne comunque e con infinita pazienza riuscì a ignorare le vivaci proteste del malato:
<<Figliolo, forse la tua fede ha vacillato, ma sei ancora in tempo per confessare i tuoi peccati. La tua anima può ancora librarsi in Cielo>>
Ettore sorrise a mezza bocca:
<<Non ci giurerei. E poi... la lista dei peccati è... troppo lunga... e io... sono già stanco>>
Il sacerdote lo incoraggiò:
<<Incomincia dai più gravi, ce la puoi fare. Del resto, come dico sempre ai miei fedeli, nessuno sa veramente che cosa è in grado di fare, fino a quando non osa saltare>>
Ettore fece un cenno vago:
<<La finestra è lì. Salti pure...>>
Il reverendo si rabbuiò:
<<Sei almeno pentito per i tuoi peccati?>>
Ettore si fece serio:
<<Sì... e il rimorso mi tormenta più di questo letto.
Ma io... io ho già scontato la mia pena... ho già... come si dice... espiato...>>
Il sacerdote comprese:
<<In segno di penitenza, reciterai almeno le preghiere?>>
Ettore sospirò:
<<Le reciti lei... per me...  Io ormai ho dimenticato le parole...
Succede, sa... quando si soffre troppo... e per troppo tempo>>
Il prete valutò quella risposta, poi, annuì e recitò ad alta voce Pater, Ave e Gloria, e poi, insieme a lui, recitò l'Atto di Dolore.
Infine, intuendo che il pentimento era sincero, prese una decisione :
<<E' sufficiente>> e poi <<Ego te absolvo peccatis tuis...>>
Poi gli segnò la croce sulla fronte con l'olio benedetto e prese congedo.

Il rito e il sacramento respinsero il demone Eclion che era stato evocato contro di lui, ed annullarono la maledizione delle streghe di Casemurate, ossia Ida Braghiri, nata Paludi, e le sue sorelle Elvira, Iole, Irma ed Ermide.
L'intervento dell'Iniziato e del Sacerdote-Esorcista da lui chiamato, aveva sconfitto la malvagità delle cinque sorelle Paludi, le streghe della confluenza tra Bevano e Torricchia.
Quella notte Ettore dormì sereno e per la prima volta dopo tanto tempo non sentì il peso della sua coscienza.

Nei giorni successivi, i familiari si alternarono al capezzale del malato.
La moglie Diana Orsini parlò con lui più tempo in quei giorni che nei precedenti cinquantacinque anni di matrimonio.
Quello che si dissero appartiene soltanto a loro, e alla loro memoria.
Possiamo comunque testimoniare che la malattia li aveva riavvicinati a tal punto che sembravano essere la coppia più unita del mondo.
Talvolta il dolore unisce più della felicità.
Diversi furono i ruoli delle tre figlie.
La prima figlia, la marchesa Margherita Spreti di Serachieda, per i suoi look ricercati con tanto di cappelli in stile Royal Ascot, oltre che per i suoi modi da gran dama, era stata soprannominata da medici e infermieri "la Principessa di Galles".


Questo suo ascendente le consentì di ottenere per il padre un trattamento di riguardo.
Da quel momento fu incaricata di mantenere le pubbliche relazioni.
La seconda figlia, la professoressa Silvia Monterovere, che era stata insegnante di almeno una dozzina di medici ospedalieri, e riceveva nel suo salotto un'altra dozzina che erano stati studenti del marito, riuscì ad avere informazioni più precise sulla condizione del padre.
Le notizie purtroppo non erano incoraggianti.
Per quanto il quadro clinico si fosse stabilizzato, il paziente non sarebbe più tornato a camminare e avrebbe dovuto cambiare radicalmente stile di vita e alimentazione. Inoltre, considerando l'instabilità cardio-respiratoria e gli interventi chirurgici che dovevano essere fatti, la prognosi rimaneva infausta. 
Comunicarlo al resto della famiglia non fu facile.
La terza figlia, la contessa Isabella Zanetti Protonotari Campi, che era sempre stata la più pragmatica delle tre, fece subito chiamare il notaio per definire le questioni ereditarie e l'avvocato e il commercialista per capire se era ancora possibile salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
C'era ancora qualche speranza, ammesso che, naturalmente, i processi si concludessero, almeno per la causa civile sui danni erariali, in maniera positiva.
Bisognava trovare nuovi soci e fare modifiche allo statuto della società in accomandita.
I due nipoti maggiori, Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, all'epoca studenti universitari, si alternarono a fare compagnia al nonno, che predisse loro una carriera accademica brillante e un avvenire da luminari della scienza in odore di Nobel.
Questo accadeva nelle ore diurne.
Quando però giungeva la sera, ad Ettore Ricci sembrava che tutta la sua vita fosse sul punto di contrarsi e le pareti dell'ospedale gli si stringessero addosso, come le sbarre di una gabbia volta a imprigionare qualcosa di selvaggio, ecco che chiedeva la presenza del nipote più giovane, l'allora quattordicenne Roberto Monterovere.
Per qualche motivo, che a tutti sfuggiva, Ettore riponeva in quel ragazzo le sue speranze di rivalsa contro coloro che l'avevano tradito e contro un'intera città che sembrava avergli voltato le spalle.
<<Ti ricordi quando ti ho portato a caccia? Quando ti ho detto che per intrappolare i lupi bisogna intingere il coltello nel miele? Ecco, il momento è arrivato. 
Come vedi, i lupi ci circondano, e presto o tardi, quando io non ci sarò più, attaccheranno la nostra famiglia per fare a brandelli tutto ciò che ne resta.
 Prenderanno di mira tua nonna, tua madre, le tue zie, forse anche i tuoi cugini, ma risparmieranno te, perché sei ancora minorenne. Ecco perché sarai tu a doverti fare carico della nostra rivincita>>
Quanto possono valere le promesse fatte ad un parente in condizioni così gravi?
Quanto potranno condizionare la vita successiva di chi ha giurato di mantenere quegli impegni?
Anche se alcuni potranno addurre la giovane età di Roberto, all'epoca, come un'attenuante, lui non riuscì mai a perdonare se stesso per essersi vincolato ad una promessa che, realisticamente, era al di là delle sue forze   e per aver ceduto su tutte le richieste, in quella notte interminabile al capezzale del nonno.
<<Devi promettermi e giurarmi che mai e poi mai il Feudo Orsini o la Villa Orsini saranno venduti. Naturalmente finché vivrà tua nonna nessuno avrà il coraggio di cacciarla dalla casa dei suoi avi, ma dopo le cose potrebbero mettersi male. Confido però nel fatto che gli Orsini hanno una vita lunga e che tua nonna Diana vivrà almeno un'altra ventina d'anni. Nel frattempo tu ti laureerai in Economia Aziendale in un'università prestigiosa, a Milano o a Roma, e farai tutti i master che servono per conoscere il mondo degli affari. A quel punto sarai in grado di prendere in mano la situazione e di riportare il nostro patrimonio al valore di un tempo>>
La faccia di Roberto non dovette apparire molto convinta agli occhi del nonno, il quale tese la mano buona verso di lui e gli intimò:
<<Prometti, Roberto!>>
E il nipote promise e giurò, e le conseguenze di quella promessa lo perseguitarono per il resto dei suoi giorni.

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giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero". 








giovedì 26 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 96. Il mondo sa tutto di noi


Nemmeno la famiglia reale inglese dovette subire da parte della stampa una curiosità così morbosa come quella che fu riservata alla famiglia Ricci-Orsini quando alle redazioni dei giornali locali arrivarono buste piene di documenti potenzialmente scottanti contro Ettore Ricci.
La maggior parte concerneva questioni analoghe a quelle di cui Ettore era già stato accusato, ma ce n'erano altri che si riferivano al presunto insabbiamento, da parte dell'ispettore Onofrio Tartaglia e del giudice Guglielmo De Gubernatis, riguardante le morti sospette di Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari. 
Era la vendetta di Ida Braghiri nei confronti dei suoi ex datori di lavoro, sui quali faceva ricadere l'ombra del sospetto riguardo a eventi che, in realtà, erano stati provocati dallo stesso marito dell'accusatrice, il defunto Michele Braghiri.
Tutti gli scandali che per oltre mezzo secolo erano stati scrupolosamente, faticosamente e dolorosamente evitati, esplosero come bombe a orologeria, uno dietro l'altro e coinvolsero tutte le famiglie di rilievo della Contea di Casemurate.
Doppiamente colpita da questo scandalo fu Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, in quanto era nel contempo sorella delle vittime, moglie del giudice che aveva insabbiato le indagini, cognata del principale accusato e consuocera della "anonima" accusatrice (e del suo famigerato marito).
Non sapendo bene da che parte le conveniva stare, in questa faida tra parenti e affini, Ginevra si limitò a manifestare, alle sue amiche della canasta (tutte appartenenti all'alta società) <<incredulità e sdegno per il modo in cui la stampa lucra sul dolore e sull'onore dei miei familiari>>.
Quella frase riuscì ad accontentare tutte le parti in causa, senza accusare specificamente nessuno.
Ben diversa era la situazione di sua sorella maggiore, Diana, Contessa di Casemurate, riguardo alla quale i documenti anonimi dicevano: "Non poteva non sapere, o quantomeno non avere dei sospetti che le indagini fossero state insabbiate".
Nel leggere quelle frasi, Diana pensò subito che a scriverle doveva essere stato Massimo Braghiri, il figlio della signora Ida, che con una sola mossa era riuscito a stornare le colpe lontano da suo padre Michele, facendole ricadere su Ettore Ricci.
Quest'ultimo cercò di mantenere i nervi saldi, osservando che <<A parte i documenti sulle questioni finanziare, che comunque erano gestite da Michele, non esiste alcuna prova a sostegno delle illazioni sull'insabbiamento. E' tutta spazzatura>>
Tecnicamente Ettore aveva ragione, ma non teneva conto di una finezza che solo la mente astuta di Massimo Braghiri poteva partorire, e fu Diana ad accorgersene:
<<Il problema è che la veridicità delle prove sulle questioni finanziarie fornisce credibilità all'anonimo mittente. E' per questo che i giornali hanno dato credito anche alle accuse più gravi>>
Ettore ne convenne, ma fece comunque notare che: <<Non hanno niente in mano e nessuno che possa inventarsi testimonianze credibili. L'unico sopravvissuto è Onofrio Tartaglia, che preferirebbe auto-evirarsi piuttosto che ammettere di avere delle colpe>>
Anche questo era vero, ma non bastava a rincuorare Diana Orsini:
<<Nella testa di chi legge i giornali noi siamo già colpevoli. La gente è colpevolista per natura, vuole il capro espiatorio e soprattutto gode nel vedere infangato il nome di coloro che invidia>>
Ettore annuì, ma formulò un'obiezione significativa:
<<Abbiamo dato troppo peso all'opinione della gente, ed è proprio per questo che Michele è riuscito a farla franca. Avrei dovuto accusarlo subito. Alla fine l'insabbiamento è servito solo a lui>>
Diana annuì a sua volta:
<<Volevamo proteggere la memoria dei  miei fratelli e il cognome delle nostre figlie, ma alla fine, come hai detto tu, abbiamo solo aiutato il vero assassino>>
Ettore cercò di sdrammatizzare:
<<Be', esiste anche un lato positivo, e cioè che, almeno dalle nostre parti, Diana Orsini fa più notizia di Diana Spencer>>
La Contessa sorrise:
<<Oh, non è affatto una consolazione! Mio padre diceva che il nome di una nobildonna onesta deve comparire sui giornali soltanto tre volte: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
Mi era stato insegnato che, come contrappeso ai privilegi di nascita, il nobile doveva mantenere un certo contegno, una riservatezza mista a sobrietà e cortesia.
Credevo che fosse questo che ci si aspettava da me.
E invece mi ritrovo al centro dei riflettori, e senza averlo voluto, con la stampa che passa al vaglio la mia vita, la nostra vita, e la gente che si diverte a inventare versioni sempre più fantasiose riguardo alla storia della nostra famiglia.
E adesso il mondo sa tutto di noi. 
O meglio, crede si sapere tutto.
Tutto, tranne la verità>>

Ettore fu colpito da questa frase e formulò una propria ipotesi al riguardo:
<<A nessuno interessa la verità: vogliono qualcosa di più romanzesco, vogliono gli incesti, le gelosie, i tradimenti. Vogliono che i membri della "famiglia reale" si sbranino tra di loro, perché se i delitti li commette qualcun altro, meno illustre, allora tutto diventa più banale e quindi meno interessante>>
Diana si trovò molto d'accordo su quel punto:
<<E' vero: vogliono che noi recitiamo il copione scritto da altri. A questo siamo ridotti!
All'inizio eravamo signori feudali, e tutta la Contea era sotto la nostra giurisdizione, e la nostra parola era legge. Poi siamo diventati dei meri proprietari del Feudo Orsini, il quale però è andato sempre più frazionandosi e disperdendosi, fino a sfuggirci di mano. 
E adesso cosa siamo? Marionette! Commedianti di una telenovela che deve divertire il pubblico, un pubblico che ci permette di sopravvivere solo a questa condizione.
Ecco quello che siamo! Ecco come ci siamo ridotti...>>

giovedì 19 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 95. La caduta di Ida Braghiri, la Governante-Dittatrice di Villa Orsini


Riguardo alla cosiddetta "dialettica servo-padrone", Hegel aveva già detto quasi tutto: col passare del tempo e delle generazioni, i proprietari perdono dimestichezza con le abilità pratiche, le quali vengono delegate ai dipendenti, in misura sempre maggiore, e se il dipendente è così abile da rendersi necessario, allora il rapporto si ribalta e il dipendente assume il comando.
Qualcosa di molto simile, e sotto certi aspetti anche peggiore, era accaduto nel rapporto tra la famiglia la famiglia Ricci-Orsini-Monterovere e la famiglia Braghiri.
Sembrava quasi una riedizione in piccolo della tecnica con cui i Carolingi, maggiordomi di palazzo, avevano soppiantato gli antichi re Merovingi, bollati poi impietosamente dalla storia come "re fannulloni".
Diana Orsini, che amava molto la storia, si avvaleva spesso di quell'esempio, ogni volta che metteva in guardia suo nipote, evocando poi, con terrore, lo spettro di Childerico III, deposto, umiliato e bollato dalla storia come "l'Idiota" o "il re fantasma", pace all'anima sua.
Questa inquietante similitudine divenne ancor più minacciosa quando, dopo la tempesta giudiziaria che aveva travolto il Feudo Orsini, la famiglia Braghiri continuò, come se niente fosse, a esercitare il suo potere sulla Villa, tramite il rango della matriarca, la settantacinquenne signora Ida, Governante da più di cinquant'anni.
Quella permanenza era, agli occhi di tutti, non solo scandalosa, ma anche sospetta, poiché appariva come una prova evidente del fatto che Ettore Ricci fosse ricattato e dunque che avesse molte cose da nascondere, e di non poco conto.
Si favoleggiava persino che la signora Ida avesse ereditato dal defunto marito, ex Amministratore del Feudo Orsini, un archivio contenente le prove dei più scabrosi segreti della "dinastia" che per ottocento anni aveva detenuto il potere nella Contea di Casemurate.
Ogni volta che Roberto Monterovere cercava di capire se in quelle voci ci fosse un briciolo di verità, suo nonno Ettore si offendeva con sdegno, mentre la nonna Diana, che sembrava reggere sulle esili spalle il peso di tutte le diciotto generazioni degli Orsini di Casemurate, sospirava e ripeteva, con pazienza non priva di afflizione, che: <<La situazione è un po' più complessa>>.
Roberto se n'era reso conto da un pezzo, e sentiva la necessità di sapere qualcosa di più.
La sua insistenza, però, produceva l'effetto opposto, tanto che, una volta, Diana lo ammonì severamente scandendo le seguenti parole: <<Imparerai che nella vita ci sono cose che è meglio non sapere>>.
Era l'eterna storia delle tre scimmiette che si coprivano occhi, orecchi e bocca, a significare: "non vedo, non sento e non parlo". Alcuni la chiamavano omertà, ma Diana sosteneva che, sempre in piccolo, era lo stesso metodo della Royal Family britannica: "Never complain, never explain", mai lamentarsi, mai dare spiegazioni.
Roberto allora le faceva notare che quel metodo si era rivelato disastroso nella gestione della crisi, ormai sotto gli occhi di tutti, del matrimonio tra il Principe e la Principessa di Galles.
Diana rideva: <<Loro hanno riflettori di tutto il mondo puntati addosso. Noi no. L'unica cosa che ho in comune con la Principessa di Galles è il nome, che temo diventerà infausto>>.
Fu così che Roberto, preso dalla disperazione nel vedere che tutto il mondo della sua infanzia gli si stava sbriciolando sotto gli occhi, incominciò a indagare per conto suo, ricostruendo le radici della faida tra i Ricci-Orsini e i Braghiri.
Ida Braghiri e suo marito Michele erano entrati al servizio del defunto conte Achille Orsini dietro raccomandazione dell'altrettanto defunto usuraio Giorgio Ricci, detto "Zuarz", il padre di Ettore, che deteneva tutte le cambiali firmate dal conte Achille in decenni di folli spese.
Inizialmente Ida era una normale cameriera e Michele un semplice fattore, ma la loro abilità era consistita nel guadagnarsi fin dall'inizio l'ingenua simpatia e la malriposta fiducia sia di Ettore Ricci che di Diana Orsini.
Questo fu possibile perché in fondo, mentre Ettore e Diana pensavano in grande e delegavano i dettagli ai dipendenti, Michele e Ida avevano i piedi saldamente ancorati a terra, ed erano estremamente felici di accumulare le deleghe su deleghe, incarichi su incarichi, poteri su poteri, ben oltre l'ordinaria amministrazione.
In particolare, questo tipo di dinamica era risultato facilissimo per la signoraa Ida.
Tutto quello che per Diana Orsini rappresentava una terribile seccatura, per Ida Braghiri era invece un modo piacevolissimo per esercitare il potere e consolidate la propria autorità.
Diana non amava le questioni pratiche: era uno spirito poetico, che viveva nel mondo dei sogni e dell'immaginazione, un universo fatto di letteratura, di musica, di arte, di spiritualità: tutto il resto le pareva un'imperdonabile perdita di tempo.
Citando, con una punta di snobismo, una celebre battuta di Villiers De L’Isle-Adam, Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, giustificava così ai parenti la propria inerzia e il proprio orrore per le questioni pratiche: <<Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici>>
Mentre pronunciava questa frase in stile Ancien Regime, che pareva uscita dalla bocca della compianta regina di Francia, Maria Antonietta, non immaginava che la Governante stesse origliano dietro la porta del Salotto Liberty, e decidesse di prendere quelle parole alla lettera, tanto da sentirsi moralmente autorizzata a impadronirsi sul serio della vita della sua datrice di lavoro.
Ida Giorgini divenne, per tutti, l' "Arzdora", per usare un termine romagnolo, ossia "colei che regge la casa e la famiglia". 
Ed era un'Arzdora tirannica, una vera e propria dittatrice.
Del resto Ida Braghiri aveva, come si suol dire, le physique du rôle.
C'era un tale piglio autoritario, nel suo sguardo freddo e minaccioso, da far soggezione a tutti, compresi i suoi stessi datori di lavoro.
Era quasi peggio della spaventosa governante del film Rebecca, la prima moglie.
Decisa, sicura di sé, inflessibile e implacabile, aveva esercitato, specialmente nei riguardi delle tre figlie di Ettore e Diana, il ruolo della severa educatrice, approfittando delle continue emicranie e crisi esistenziali della loro romantica madre.


Col tempo non si curò nemmeno di nascondere il sadico piacere che traeva dall'aver instillato nelle figlie dei padroni una sorta di sudditanza psicologica.
Nessuno si meravigliò quando la Governante tentò di ripetere quell'operazione con i tre nipoti di Ettore e Diana, ma qui le cose non funzionarono egualmente bene.
In particolare Alessio e Roberto non sopportavano la presenza asfissiante e ingombrante di quella donna terribile. il cui cipiglio ancora faceva tremare le loro madri e la loro nonna.
Resasi conto che con Alessio e Roberto le sole maniere forti non funzionavano, passò al metodo del bastone e della carota, alternando i rimproveri con le lusinghe.
<<Per me siete come figli, anzi nipoti, e vi voglio bene come ai miei stessi nipoti>>
Roberto non ci credette neanche per un decimo di secondo, ma finse di stare al gioco, per riuscire a trovare un punto debole, una "maglia rotta nella rete", un anello cedevole della catena con cui la signora Ida teneva avvinghiata la famiglia Ricci-Orsini.
Alla fine si convinse che l'unica debolezza di Ida Braghiri era l'eccesso di autostima, che la portava, a volte, ad abbassare la guardia.
Era talmente sicura del proprio potere che non si prendeva più nemmeno la briga di nascondere le proprie emozioni, in particolare la vile tendenza a gioire delle disgrazie altrui.
La cosa era fin troppo evidente. Quegli occhi gelidi improvvisamente scintillavano di una gioia sadica e la bocca si incurvava in un ghigno malefico.
Un giorno, durante una riunione di famiglia, la Governante si spinse troppo oltre.
Il casus belli fu una conversazione tra Ida Braghiri e Margherita Ricci-Orsini, coniugata Spreti, la figlia maggiore di Ettore e Diana. L'argomento era un esame universitario che il figlio di Margherita, Fabrizio, non era riuscito a superare.
Si vedeva chiaramente che Margherita era molto dispiaciuta, e Ida si divertiva ad agitare il coltello nella piaga, con domande tese a conoscere tutti i particolari di quell'umiliazione. 
Fabrizio era presente, ma a un certo punto lasciò la stanza. Gli altri due cugini, Alessio e Roberto, si scambiarono un segnale, come a dire che era venuto il momento di fare qualcosa.
Fu così che Alessio Zanetti, che dei tre cugini era il più coraggioso e ruspante, nel vedere sua zia torturata in quel modo e suo cugino così vilipeso, se ne uscì con parole che di certo il Salotto Liberty non aveva mai sentito:
<<Zia, perché le rispondi? Non vedi come gioisce per i nostri fallimenti? Guardala bene: non vedi che le ride anche il culo?>>
Il gelo calò nella stanza.
Anche le altre conversazioni si spensero. 
Era come se qualcuno finalmente avesse gridato che il re era nudo.
Ida Braghiri rimase stupefatta, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, nel dubbio di come reagire a quella mossa imprevista.


Improvvisamente, e in maniera del tutto inaspettata, Margherita Spreti di Serachieda incominciò a ridere e la risata si estese a tutti gli altri presenti.
Ida Braghiri divenne paonazza per la rabbia e mollò un ceffone sulla faccia di Alessio Zanetti Protonotari Campi, cadendo così nella trappola che il ragazzo le aveva teso.
In quel momento Diana Orsini si alzò e tutti tacquero:
<<Signora Ida, c'è un limite a tutto e lei lo ha superato ampiamente e da molto tempo.
Non sono disposta a tollerare oltre. La sollevo da tutti gli incarichi che ricopre e la invito a lasciare al più preso questa casa>>
Ida Braghiri non si mosse di un millimetro:
<<Questa casa è di suo marito: solo lui ha il potere di licenziarmi e credo che gli convenga farlo>>
Ettore Ricci, che era stato avvertito della situazione, intervenne:
<<Questa casa appartiene alla famiglia Ricci-Orsini, a cui lei ha mancato di rispetto, in maniera pubblica e plateale. Per cui confermo ciò che ha detto mia moglie: lei è licenziata per giusta causa. La invito a seguirmi nel mio studio per informarla riguardo al trattamento di fine rapporto. Potrà rimanere nel suo appartamento fino a quando non avrà trovato una nuova sistemazione>>
Ida Braghiri lo fissò con sguardo omicida e abbandonando ogni forma di cortesia, urlò:
<<Sarai tu a dovertene andare, Ettore! E lo sai dove? In galera!>> poi si rivolse al resto della famiglia <<E voi altri, non durerete nemmeno mezza giornata, senza di me. Non siete capaci nemmeno di svuotare un pitale! Verrete a supplicarmi in ginocchio di ritornare a mettere ordine in questa gabbia di matti!>>
Ettore le si parò davanti:
<<Non peggiori la sua situazione>>
Ida rimase immobile:
<<Se no cosa mi fai, Ettore? Chiami la polizia? Il grand'uomo agli arresti domiciliari che chiama la polizia... sembra una barzelletta>>
Ettore si sentì stranamente sollevato, come se finalmente, dopo tanto tempo, fosse libero da un peso che lo stava schiacciando:
<<Io sono innocente fino a sentenza definitiva. Nel frattempo ho tutto il diritto di chiamare chi di dovere per difendere la mia casa e la mia famiglia>>
Ida Braghiri si rese conto di aver perso, per la prima volta in vita sua, una battaglia:
<<E va bene, Ettore, mi ritiro, ma non finisce qui, puoi scommetterci!>>
Ettore le lasciò l'ultima parola, purché se ne andasse.
Quando finalmente la Governante-Dittatrice abbandonò il campo di battaglia, tutti si sentirono leggeri come non erano mai stati.
Diana abbracciò Ettore e gli sussurrò all'orecchio una parola che non gli aveva detto quasi mai, in cinquant'anni di matrimonio: <<Grazie>>

Roberto, sconvolto dagli eventi, si chiese se le minacce di Ida Giorgini potessero avere un qualche fondamento.
Per cinquant'anni, la Governante aveva saputo nascondere bene sia i suoi reali sentimenti che le sue trame. Per tutti quei decenni, dietro alla maschera di una apparente e rigorosa professionalità, Ida Braghiri si era mantenuta fredda, livida, divorata dall'invidia, chiusa nel suo cupo disegno di rivalsa, valutando, ponderando, prendendo la mira, aggiustando il tiro come un cacciatore esperto.
Per quanto Ettore fosse stato generoso con lei e con la sua famiglia, questo non bastava.
Mentre fingeva di accettare con ritrosia sdegnosa i premi per la sua presunta fedeltà, Ida era rimasta, nel suo intimo, una regista gelida, impenetrabile, indifferente ai valori dell'amicizia, senza dubbi, senza palpiti , senza un briciolo di pietà umana.  
Aveva agito nell'ombra, come certi ragni velenosi di cui non ci si accorge se non quando sono diventati troppo pericolosi per poterli sfidare.
E infine, dopo la morte di suo marito Michele, Ida aveva consumato il tradimento che meditava da anni, diffondendo documenti riservati, mettendo in giro voci allarmanti, ma soprattutto tessendo una ragnatela di alleanze in grado di infliggere allo stesso Ettore un colpo decisivo.
E tutto questo per cosa?
Invidia e odio, poiché lei apparteneva a quella miserabile schiatta di individui che desiderano soltanto distruggere tutto ciò che non appartiene a loro, traendo il massimo piacere nell'assistere alla rovina altrui.
Per lei l'intero clan Ricci-Orsini rimaneva, anche dopo una vita di convivenza sotto lo stesso tetto, un nemico da distruggere.
Tutte le malefatte del suo defunto marito dovevano essere scontate da Ettore Ricci, che ne era venuto a conoscenza soltanto a posteriori, e poi costretto ad insabbiare tutto per evitare uno scandalo nel momento in cui il Feudo Orsini doveva ancora riprendersi dalla cattiva gestione del conte Achille.
Diana l'aveva capito subito e dentro di sé pensava: "Ettore e Achille, come nell'Iliade, e il Feudo Orsini rischia di fare la fine di Troia".
Ed era proprio ciò che Ida Braghiri e suo figlio Massimo incominciarono a desiderare nel momento in cui le figlie di Ettore rifiutarono di sposare Massimo stesso.
Isa e Massimo chiamavano quel piano di distruzione "il Grande Disegno", lo scopo di una vita intera: una vita dedicata al Male.
E tutto questo senza alcuno scrupolo di coscienza.
Cosa significava, per Ida Braghiri, la rovina di uomo, della sua anziana sposa, lo sfascio di una famiglia già danneggiata, l'ostracismo della sedicente "buona società", una volta che fossero stati accusati ingiustamente di tremendi delitti? 
Perché era questo il punto: gettare su Ettore l'ombra della responsabilità della morte di tre persone: Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari, in realtà uccisi da Michele Braghiri.
Che significava tutto questo per Ida Braghiri, una volta esercitato il potere per fare il Male come sempre aveva fatto nella sua vita?
La risposta era semplice e sconcertante nello stesso tempo.
Tutto questo non significava niente.
Non è nostra intenzione rievocare ulteriormente la sua grigia freddezza. Non è questa una colpa.
Si può essere grigi, ma buoni; grigi, ma onesti; grigi, ma sinceri nel rendere conto del proprio operato di fronte al tribunale della coscienza. 
Ebbene, a Ida Braghiri era proprio questo che mancava: una coscienza morale.
Le mancava quell’insieme di lealtà, rettitudine, sincerità e coraggio che rendono una persona degna di fiducia, di amicizia e di ammirazione.

venerdì 13 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 94. Lambrugo Bava detto "Mattoncini Lego", catastrofico Amministratore Giudiziario del Feudo Orsini

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Dopo le inevitabili dimissioni del Consiglio di Amministrazione, la gestione del Feudo Orsini fu affidata dal Tribunale ad un Amministratore Giudiziario.
La scelta cadde su un personaggio a dir poco sgradevole.
Si trattava di un certo Lambrugo Bava, detto "Mattoncini Lego" a causa di una similitudine che usava in continuazione, ma che nessuno aveva mai capito ("Un buon investimento è come i mattoncini Lego").
Il dottor Bava era un uomo di mezza età, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, occhi infossati, un riporto di capelli radi color topo, tendenti alla forfora, la faccia arrossata di chi sembra reduce da un'insolazione senza crema protettiva, la pelle sudaticcia, la voce stridula e nasale e un modo di fare affettato e viscido, come del resto era anche la sua stretta di mano.
Si presentò a Villa Orsini all'ora del tè, con un completo gessato che aveva decisamente visto tempi migliori, e un'orribile cravatta verde elettrico, e fu fatto accomodare nel Salotto Liberty.
Quando Diana Orsini gli chiese se voleva una tazza di tè, lui, con un sorrisetto lezioso e con voce querula in falsetto, dichiarò:
<<Preferirei un caffè doppio, alto e amaro>>
Nel dire questo divenne color lilla in faccia e nelle mani.
Fu a quel punto che tutti i presenti incominciarono a percepire l'odore del suo alito.
Inizialmente rimasero confusi per il fatto che si trattava di un alito diverso da quelli normalmente considerati pesanti, nel senso che quel lezzo era troppo fetido per poter provenire da una bocca umana.
Pertanto incominciarono a formulare mentalmente le più svariate ipotesi.
Come poi emerse, dopo che "Mattoncini Lego" se ne fu andato, tutti i presenti avevano inizialmente pensato che quel fetore rivoltante dovesse provenire dalle feci di un cane pestate dal dottor Lambrugo Bava.
Purtroppo però avevano dovuto ricredersi.
Quell'inequivocabile puzza di merda (perdonateci il francesismo) proveniva altrettanto inequivocabilmente dall'alito del dottor Bava.
Il caffè doppio amaro non fece che peggiorare la situazione.
Ben presto la maggior parte dei presenti lasciò la stanza in preda alla nausea e ai conati di vomito.
Ettore Ricci e sua figlia Isabella resistettero, perché era di vitale importanza capire se quello sgradevole personaggio fosse almeno in grado di gestire un'azienda.

La sua frase d'esordio, che riprendeva il suo cavallo di battaglia, lasciò al riguardo ben poche speranze.

Con un ghigno untuoso e una voce nasale e petulante, emise una zaffata micidiale:
<<Io concepisco l'amministrazione di un'azienda come se fosse, tra virgolette, un insieme di "mattoncini lego">>
Cercando di evitare l'impatto massiccio dell'ultima "emissione gassosa" del signor Mattoncini Lego, Ettore Ricci gli chiese di spiegarsi meglio.
Lambrugo Bava continuò a parlare per un'ora, appestando non solo il Salotto, ma tutta la casa, perché la pesantezza del suo fiato sembrava penetrare attraverso ogni interstizio:
<<Intendo dire che per me un'azienda è, tra virgolette, un investimento fatto di tanti diversi mattoncini da combinare in modo tale che, tra virgolette, risulti tutto ben frazionato>>
Ettore Ricci, asfissiato dalla mancanza d'ossigeno in quella stanza ormai piena di zolfo, si allarmò a tal punto da perdere quasi conoscenza, e solo con grande sforzo alla fine protestò:
<<Frazionato? Vuole forse smembrare il Feudo Orsini?>>
La faccia di Mattoncini Lego divenne color fucsia e il sudore gli colò dalla fronte stempiata:
<<Lei dice "smembrare", ma io preferisco dire "diversificare". E' una prassi comune>>
Ettore, ormai in apnea, ribatté:
<<Lo è nella gestione di un portafoglio azionario! Ma il Feudo Orsini è un'azienda agricola cha già diversificato i propri investimenti in attività industriali legate alle macchine agricole e all'allevamento avicolo e suino. Questa è la natura della nostra azienda che non deve in nessun modo essere trasformata in qualcosa di diverso>>
Mattoncini Lego iniziò a ghignare, emettendo gas mefitico da quella bocca che ricordava una cloaca:
<<Si fidi di me, signor Ricci. Vedrà che un mattoncino dopo l'altro io costruirò un'azienda nuova, con agriturismi, campi da golf, laghi di pesca sportiva, parchi da gioco per bambini e per cani, alberghi, insomma tra virgolette, un "resort di lusso">>
A quel punto Ettore Ricci esplose e scattò in piedi:
<<Ma questa non è una zona turistica! Ci sono porcili e pollai e inceneritori di biomassa! E' tutto piatto, nebbioso d'inverno e afoso d'estate. Non siamo mica la Toscana! E nemmeno sugli Appennini o in Riviera!>>
Lambrugo Bava non si lasciò minimamente scalfire ed emise l'ennesima nube tossica:
<<Ma lei ha una mentalità arcaica. Adesso viviamo in un mondo, tra virgolette, "green", che cerca un divertimento, tra virgolette, "eco", mi verrebbe da dire che la presenza di porcili e pollai, con il loro odore così caratteristico, sia un fattore, tra virgolette "folk" e tra virgolette "etno" che conferisce al tutto quel sapore tra virgolette "vintage" che è così tra virgolette "trendy"...>>
A quel punto Ettore Ricci non riuscì più a contenersi:
<<Basta con queste cazzate! Le ricordo che un Amministratore Giudiziario deve occuparsi solo dell'ordinaria amministrazione e non degli investimenti straordinari! Lo tenga bene a mente! Non le permetterò di buttar via il lavoro di tutta la mia vita! E adesso fuori da casa mia! 
E se vuole un consiglio, si lavi i denti, prima di andare ad appestare la casa della gente!>>
Poco ci mancò che lo prendesse a calci.
La faccia di Mattoncini Lego aveva raggiunto ormai un color prugna e nemmeno la deferenza della Governante-Dittatrice Ida Braghiri riuscì a tranquillizzarlo.
I Braghiri speravano infatti che l'Amministratore Giudiziario avrebbe definitivamente affossato il Feudo Orsini, e Lambrugo Bava era la persona giusta per quel compito.
Dopo che finalmente Mattoncini Lego ebbe preso congedo, salutando con la mano sudaticcia i pochi presenti che si erano avventurati nell'atrio completamente invaso dal gas tossico, fu necessario tenere aperte tutte le finestre di Villa Orsini per tre giorni e tre notti, al fine di cacciare via quel tanfo rivoltante che era penetrato fin nei suoi angoli più reconditi.

venerdì 6 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 93. Après nous le déluge


Forse, in circostanze diverse e meno complesse, la novantottenne Contessa Madre Emilia Orsini, nata Paolucci de' Calboli, avrebbe detto <<Laissez faire, laissez passer, le monde va de lui meme>>, "laciate fare, lasciate passare, il mondo va avanti da sé".
Ma quella volta, quando sua figlia Diana e suo genero Ettore le riferirono i rischi dei processi che stavano per cominciare a carico dei dirigenti del Feudo Orsini, la veneranda matriarca si sentiva ormai come una reliquia della Belle Epoque interminabilmente sopravvissuta a se stessa ed era ben consapevole di avere ormai un piede nella fossa, pertanto il suo distacco dalla realtà contingente e dai beni materiali aveva modificato il suo punto di vista.
La sua risposta, per quanto ancora espressa in francese, fu diversa e più apocalittica.
Rispolverò infatti la frase che Madame de Pompadour disse a Luigi XV dopo la terribile disfatta dell'esercito francese nella battaglia di Rossbach, durante la guerra dei Sette Anni:
<<Il ne faut point s'affliger; vous tomberiez malade. Après nous, le déluge!>>



"Non è il caso di affliggersi; vi ammalereste. Dopo di noi, il diluvio!"
Annuì per ribadire il concetto :
<<Dopo di noi il diluvio!>> ripeté in italiano, a beneficio del genero, e spiegò <<Ora ci criticano, ma un giorno ci rimpiangeranno, perché siamo stati noi a tenere in piedi la baracca per più di mezzo secolo, e quando non ci saremo più, andrà tutto a catafascio, e tanti perderanno il lavoro, i risparmi e il rispetto che noi abbiamo sempre manifestato nei loro confronti>>
Quelle considerazioni non risollevarono però il morale di Ettore Ricci, che già di per sé era consapevole che senza di lui il Feudo Orsini si sarebbe disgregato nel giro di una generazione.
Certo sua suocera non avrebbe visto nulla, di quel diluvio, dal momento che i suoi giorni erano contati.




A Villa Orsini, il ruolo della novantottenne Contessa Madre Emilia, era sempre stato quello di rasserenare gli animi, trasmettere calore umano, rassicurare chiunque entrasse nel suo Salotto Liberty, dove lei garantiva la presenza di pasticcini, biscotti, tè, ma anche buon vino pregiato, il tutto accompagnato da battute brillanti, aneddoti spassosi e validi consigli (non potendo più dare cattivi esempi, a causa dell'età e del divieto dei medici sulle quantità di alcool assunte nei bei vecchi tempi).
Quando infine si ammalò, tutti i suoi numerosi interlocutori si trovarono perduti e spaesati.
Il Salotto perdeva la sua coesione, poiché Emilia si era sempre prodigata affinché le sue due figlie supersisti, ossia la Contessa Diana Orsini Balducci di Casemurate e la vedova Ginevra De Gubernatis, continuassero a intrattenere rapporti cordiali, nonostante Ginevra parteggiasse per suo genero, Massimo Braghiri, e per la sua terribile madre, la Governante Ida Braghiri, che era riuscita fino ad allora a dettar legge a Villa Orsini.
La dipartita dell'antica matriarca, nel febbraio del 1988, segnò la fine della tregua armata tra il clan Ricci-Orsini-Monterovere e quello De Gubernatis-Braghiri.
Diana e Ginevra furono le uniche a mantenere una certa compostezza.
Meno diplomatiche furono le loro rispettive figlie.
Silvia Monterovere disse ad Elisabetta Braghiri una frase poi divenuta memorabile; 
<<Senti, facciamo un patto: tu smetti di dire falsità su di me e io smetto di dire la verità su di te>>
I discendenti della defunta, a riprova che, come dice il proverbio, "il denaro non dorme mai", erano già pronti all'ennesima battaglia per l'ennesimo testamento.
Ma c'erano dissapori anche nella generazione più giovane.
Sia Roberto Monterovere che Vittorio Braghiri erano pronipoti della Contessa Madre, ma mentre il primo provava un dolore immenso, perché con la bisnonna se ne andava una parte della sua infanzia, il secondo sembrava del tutto estraneo al lutto.
Pareva persino affascinato e quasi divertito dal manifesto funebre affisso su tutte le strade di Casemurate e Pievequinta, dove il nome della defunta si estendeva per quasi tutto lo spazio.
"E' mancata all'affetto dei suoi cari la contessa Emilia Paolucci de' Calboli vedova Orsini Balducci di Casemurate, di anni 98. Ne danno il triste annuncio le figlie, il genero, le nipoti, i pronipoti e i parenti tutti".
La Chiesa di Casemurate era gremita 
Il nuovo parroco, succeduto a don Pino Ricci, pronunciò un'accorata omelia, concludendo con due citazioni evangeliche:
<<Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. 
Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia>> e a quel punto rivolse lo sguardo direttamente ad Ettore Ricci:
<<Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti condurrà dove tu non vorrai>>
Ettore non batté ciglio, ma un brivido di paura lo percorse, e ripensò ai bei tempi, quando il clan Ricci-Orsini controllava anche la nomina del parroco e poteva contare persino sulla benevolenza del vescovo.
Terminata la funzione, il corteo funebre si diresse verso il cimitero di Casemurate.
Diana Orsini e il marito Ettore Ricci camminavano per primi dietro il feretro, tenendosi a braccetto, come se fossero stati per cinquant'anni la coppia più bella del mondo, ma a volte le avversità hanno l'effetto di ricompattare coloro che prima erano in disaccordo, poiché i saggi sanno che, tra compagni di sventura, l'unica speranza è unire le forze, per non fare la fine dei manzoniani "capponi di Renzo"
Infine si giunse al camposanto, dove, alla destra dell'ingresso, incombeva la cappella funebre dei Ricci-Orsini, mentre alla sinistra c'era la tomba comune dei Ricci "di seconda classe": i genitori di Ettore, i suoi fratelli maggiori, i cognati e i cugini, tra cui don Pino.
<<Ecco, lì è dove finiremo tutti>> commentò Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, indicando la cappella dei Ricci-Orsini, come se quel luogo di sepoltura fosse un hotel a cinque stelle.
<<Tranne i tuoi discendenti, cara suocera>> specificò Massimo Braghiri <<ma noi ci costruiremo un mausoleo più grande in città, dove tutti potranno vederci, non solo questi bravi villici casemuratensi>>


Ma i Braghiri non erano gli unici a sentirsi in ombra.
Le sorelle di Ettore Ricci e i loro parenti e affini vari avevano preteso un posto in prima fila.
In primo piano c'erano Caterina, vedova del senatore Baroni e Carolina, vedova del conte Gagni di Montescudo. Le altre sorelle, ossia la vergine Adriana e la battagliera Maria Teresa Tartaglia si erano dovute accontentare della seconda fila, il che era inaudito, considerando la parentela dei Tartaglia con i Visconti di Bertinoro.
E infatti, con una certa virulenza, la signora Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, si fece avanti, con tanto di marito, figlia, sorella e nipote.
E fu in quell'occasione che accadde un evento gravido di conseguenze nefaste, ossia la saldatura di un'alleanza tra due famiglie che nutrivano rivalità verso i Monterovere.
Quando Aurora Visconti fece le condoglianze a Roberto, subito Vittorio Braghiri rimase colpito dalla bellezza della fanciulla dai capelli d'oro e anche dall'ingombrante e massiccia presenza dell'onnipresente cugino, Felice Porcu.
Fu in quel momento che il seme del male, piantato da tempo, incominciò a germogliare nel cuore di Vittorio Braghiri.
Quella rivalità che fino ad allora Vittorio era riuscito a tenere a freno, improvvisamente divenne manifesta.
Alexandre Dumas avrebbe detto: "Cherchez la femme!", anche se al giorno d'oggi quell'antico motto di spirito sarebbe tacciato di sessismo politicamente scorretto.
In ogni caso, si profilava all'orizzonte un ennesimo motivo di scontro tra due famiglie che erano ormai ai ferri corti.
Non era ancora il diluvio preconizzato dalla compianta bisnonna Emilia, ma di certo grandi nuvole cariche di pioggia incominciavano ad addensarsi in un cielo color cenere.
E nella loro stamberga nei pressi della confluenza tra il Bevano e la Torricchia, le tre streghe Iole, Irma ed Ermide tessevano la tela che Eclion ed Elvira avevano disegnato.
Tutto era in movimento, eppure Roberto Monterovere sentiva soltanto il dolore per la perdita della bisnonna e del mondo che lei rappresentava.
Gli tornarono in mente, chissà perché, alcuni versi di Montale che aveva studiato pochi giorni prima.

<<                         ... un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. 
Ed io non so più chi va e chi resta>>