domenica 11 giugno 2017

L'Advaita Vedanta

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L'Advaita Vedanta è probabilmente la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta della religione Induista. Letteralmente il termine Advaita significa "non duale", ma viene anche utilizzato per indicare il sistema monistico su cui si fonda il principio dell'indivisibilità del Se o Ātman dall'Unità (Brahman). I testi fondamentali da cui derivano i Vedānta sono le Upaniṣad, o commenti ai Veda, e i Brahma Sutra, anche conosciuti come Vedānta Sutra, nei quali si concentra la discussione sulla natura intima delle Upanişad.

Adi Shankaracharya: i fondamenti dell'Advaita

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Adi Shankara.
Il primo grande codificatore dell'Advaita Vedānta fu Adi Shankara (788-820). La filosofia che propose fu potente e capitalizzò negli anni il monismo dormiente, e la conoscenza mistica dell'esistenza: proseguendo la linea di pensiero di alcuni rishi espressa nelle Upaniṣad e in particolare la testimonianza di Gaudapada, esposta nell'opera principale (la karika di commento alla Mandukya Upaniṣad), Shankara espose la dottrina dell'Advaita, che afferma la Realtà assoluta come unica realtà e la realtà fenomenica come continuo divenire. Quindi l'unica realtà possibile è quella non duale, mentre il mondo, soggetto al continuo divenire, ha una natura illusoria, in quanto impermanente. Egli definì meglio quanto già espresso nelle Upaniṣad: la Realtà assoluta o Brahman e la pura Realtà Ātman dell'essere individuato jivatman o anima individuale, sono la stessa e unica. Questa realtà è non duale, pertanto realizzabile solo rinunciando ai vincoli del contingente.
I tre principali stati di consapevolezza (veglia, sogno e sonno profondo), infatti, sono espressione di un quarto stato trascendentale, conosciuto nelle Upaniṣad come turīya, coincidente con la Realtà assoluta o Brahman. La molteplice natura dei fenomeni e la loro ultima essenza è simboleggiata dal suono Aum, il più sacro fra i mantra induisti. Brahman è al tempo stesso immanente e trascendente, e non solo un concetto panteistico. Inoltre, oltre ad essere la causa materiale ed efficiente dell'intero universo, Brahman stesso non è limitato dalla sua auto-proiezione ed effettivamente trascende tutti gli opposti, tutte le dualità, soprattutto aspetti, quali la forma e l'essere; da sempre è incomprensibile alla mente umana.
Molte testimonianze di queste esperienze sono state esaurientemente descritte in parecchie Upaniṣad. Tra il 1000 e il 1600 d.C., nella Brihadaranyaka, troviamo un dialogo tra Prajapati e Indra in cui si discute del Sé e dei diversi stati di consapevolezza; fu tuttavia Adi Shankaracharya che diffuse e sistematizzò il concetto di non dualismo come pratica religiosa in un lavoro coerente chiamato Vivekacūḍāmaṇi, o Il gran gioiello della discriminazione.
L'influsso di Adi Shankaracharya si fece non solo sentire nella meditazione Advaita, ma anche nella pratica e nella conoscenza Induista. I suoi lavori principali sono le Brahma Bhashyas, che rappresentano dei commentari alle Vedānta Sutra e alla Bhagavad Gita realizzate nello sforzo continuo di ricerca dello stato non-duale, ed infine il trattato sull'Advaita, il Vivekacūḍāmaṇi. Inoltre questo maestro è più conosciuto come l'iniziatore della Bhakti o devozione altruistica, che nel sistema filosofico Advaita si può realizzare soprattutto mediante i bhajan, o canti devozionali, i più famosi dei quali sono il Bhaja Govindam, il Soundaryalahari e Sivanandalhari.

Maestro di meditazione

I trattati sulle Upaniṣad, la Bhagavad Gita e i Vedānta Sutra, sono i testamenti di una mente acuta e intuitiva che non ammetteva dogmi; Adi Shankara affermava che un devoto, solo attraverso l'altruismo disinteressato e l'amore, governati dalla discriminazione (viveka) sia in grado di andare verso la liberazione (moksha) e di realizzare il Sé interiore, mentre il solo discernimento e l'astratto filosofeggiare non avrebbero portato a nessun risultato.
L'accusa secondo la quale questa filosofia sia stata influenzata dal Buddhismo era infondata, dato che Shankara si oppose con veemenza alla negazione dell'essere Īśvara, affermando che il non-manifesto Brahman manifestava sé stesso come Īśvara, l'amante, l'essere perfetto, il divino, identificato poi come Vishnu o Shiva o qualunque cosa dettasse il cuore. Shankara inoltre sosteneva di aver viaggiato attraverso l'India, da sud a nord fino al Kashmir, pregando per la popolazione locale, dibattendo di filosofia con monaci e scolari, apparentemente con successo, anche se non esiste documentazione in proposito.
La filosofia che proponeva Shankara era potente, in grado di risvegliare il monismo mistico dormiente dell'allievo, attraverso la conoscenza e la consapevolezza intima dell'esistenza. Inoltre affermava che, sia l'universo fenomenico, sia la nostra coscienza, sia il corpo, che le nostre esperienze, sono realtà illusoria anche se questo non significava negarle. In realtà la Verità Ultima era rappresentata da Brahman, situato al di là del tempo, dello spazio, al di là della causa e dell'effetto. Brahman è immanente e trascendente, non solo come concetto panteistico e pur essendo Brahman la causa materiale del cosmo, esso non è limitato dalla sua proiezione, ma trascende la dualità e gli opposti, soprattutto nella forma e nell'essere, essendo la sua natura intima incomprensibile dalla mente umana.
Il compito supremo dell'essere umano è quello di penetrare il velo illusorio della realtà (Maya) per rivelare la vera natura, che non è perenne cambiamento tra vita e morte, ma perfezione assoluta e gioia eterna. Se noi conoscessimo i veri motivi che stanno dietro le nostre azioni e i nostri pensieri, diverremmo consapevoli della fondamentale unità dell'essere. Ma come può una mente limitata comprendere l'illimitatezza del Sé? In realtà non può, ma tuttavia è in grado di trascendere la mente e unirsi all'Assoluto.

Macrocosmo e Microcosmo

La filosofia Advaita considera la natura e tutto il fenomeno dell'universo come una sovrapposizione che vela il suo immutevole, trascendente e intelligente Substrato.
L'universo è in continuo divenire, è incostante ed impermanente, mentre l'Assoluto che è il substrato che lo sottende, non diviene, è costante e permanente. Secondo la sapienza upaniṣadica, l'errore di considerare reale ciò che è solo una sovrapposizione al Reale è simile allo scambiare la corda per il serpente, è l'illusione (Maya) determinata dall'ignoranza metafisica (avidya) da cui deriva il dolore dell'essere umano.
Nella Tradizione Vedānta, questa illusoria percezione del divenire è attribuita all'identificazione con le forme manifeste che rende inconsapevoli e separati dal Reale e dalla sua serena immutabile stabilità.
Tale identificazione, producendo l'illusione del mondo relativo, rende l'essere umano come il prigioniero della caverna del mito platonico, lontano dalla luce e immerso nelle ombre mutevoli ed ottenebranti di una pseudo realtà, separato dal suo Principio. Obiettivo dell'Advaita Vedānta è la disidentificazione dal relativo e la realizzazione dell'Assoluto. Questa Realtà sottesa ad ogni aspetto del mondo delle forme è, a livello microcosmico, l'Ātman o Sé individuale.
Da un punto di vista macrocosmico, invece, abbiamo una triade:
  • Virat rappresenta la totalità degli esseri animati oggettivi, compreso il corpo umano.
  • Hiranyagarbha, la totalità delle anime manifestate, comprende il mentale cosmico.
  • Īśvara è il Dio personale universale e comprende la manifestazione intera, l'aspetto grossolano come quello causale, l'individuale e l'universale. Da questo punto di vista il jīva è un momento coscienziale di Īśvara che è il Jiva universale.
Di là da queste triplicità esiste il sostrato di tutto chiamato Brahman.

Saguna Brahman e Nirguna Brahman

Un altro argomento di discussione nei Veda è se la realtà di Brahman sia "saguna" (con attributi) o "nirguna" (senza attributi). La fede nel concetto di Saguna Brahman portava ad una sviluppo delle facoltà devozionali e a una diffusa devozione per Vishnu e Shiva. Tuttavia dobbiamo ricordare che l'Advaita Vedānta non nega Saguna Brahman. In realtà, Shankara consigliava l'adorazione di Dio nella sua forma più pura e autentica, e lo affermava in diversi lavori nei quali disapprovava l'utilizzo dell'intelletto e della ragione, affermando che solo attraverso l'apertura del cuore si sarebbe trovato l'amore del Signore.
Advaita Vedānta è comunemente scambiata come una filosofia intellettuale, data la sua funzionale praticità, nel quale un insegnamento è in grado di "forgiare" il corpo e la mente in puro stato dell'essere.
Sia Saguna Brahman che Nirguna Brahman sono comunque forme valide; dalla Coscienza Assoluta deriva sia il principio divino che la creazione. Nirguna Brahman (senza attributi) è la radice metafisica del Saguna Brahman (con attributi), così come lo Zero lo è dell'Uno. Quel Supremo Principio è inclusivo di tutti gli attributi degli esseri, e persino di quelli di Dio.
Dal nucleo della vita indifferenziata originano l'Uno ed il molteplice, il creatore e l'esistenza differenziata. In altre parole, il Principio Divino, i mondi celesti ed umani che comprendono l'universo, esistono sulla base di tale Assoluto onnipervadente che li contiene. Nella gerarchia dell'Esistenza, l'Assoluto precede l'universalità del Divino. Nello Spirito Supremo, Uno ed indivisibile, sono impliciti come propri riflessi il Padre e la Madre dell'Universo, l'energia vitale che alimenta le forme e le forme stesse. Questa è la spiegazione filosofica e metafisica del mistero dell'esistenza e dà misura della non-dualità della vita e dell'inscindibilità di tutte le sue dimensioni. In questa cosmogonia sacra, lo Spirito Assoluto, Dio, l'universo, il Sé dell'essere umano appaiono come un continuum, come parti di un sistema unitario dove ogni aspetto non può essere scisso o compreso senza l'altro.
Può darsi che l'Advaita sia stato insegnato meglio a partire dal XIX secolo da Shri Ramakrishna. Questo maestro ha paragonato l'infinito senza forma Nirguna Brahman ad un vasto oceano che, attraverso la fresca brezza dell'amore devoto, condensa la forma nella manifestazione. Ma poi, attraverso il calore della conoscenza del sole, il ghiaccio si dovrebbe sciogliere e il devoto realizzare sé stesso in una indifferenziata e perfetta beatitudine.
La scuola Vishistadvaita e Dvaita credono nel Saguna Brahman, ossia in un Dio con attributi. Entrambe come l'Advaita sono scuole monistiche e panteistiche, ma differiscono nella definizione dell'ultima forma di Dio.
È bene tenere a mente che quando si parla del Brahman si allude al Nirguna Brahman altrimenti noto come ParabrahmanSat-Cit-AnandaUno senza secondoZero senza attributi, etc.
Quando invece si parla di Brahma si intende il Saguna Brahman, ovvero Īśvara: l'Uno qualificato, con attributi.

Alcuni insegnamenti dell'Advaita Vedānta

Vi sono altri testi, molto conosciuti, che hanno influenzato la scuola Vedānta l'Ashtavakra Gita e l'Avadhuta Gita, scritti inizialmente da Ashtavakra e più tardi da Dattatreya.
Il venticinquesimo verso dell'Avadhuta Gita dice:
Da tale sentenza "ciò che tu sei", il nostro Sé si afferma. Di ciò che è falso e composto di cinque elementi – le Sruti, le scritture dicono, "non questo, non quello, ( Neti, Neti )".
Questo è un potente e coerente riassunto del sentiero dello Jñāna Yoga, di viveka o discriminazione. Eliminando la prospettiva di maya o dell'illusione, del mondo finito, discriminando tra ciò che è Brahman e ciò che non lo è, si giunge alla Verità. Brahman non è il corpo, non è la mente. Attraverso questo processo, l'aspirante o yogi, "presto" si rende conto che Brahman è il tutto, infinito Satcitananda (Assoluta Verità-Consapevolezza-Perfetta Beatitudine), e ottiene la moksha, la liberazione.

L'impatto dell'Advaita

La filosofia dell'Advaita Vedānta ha avuto uno straordinario impatto sulla dottrina tantrica e ha fornito un valido appoggio alle considerazione del Sé ultimo sviluppate dagli Yogi, come BrahmanĀtman, l'essere Uno.
L'Advaita ha rinnovato il pensiero Indù stimolando il dibattito sul Vishista Advaita, o non dualismo qualificato, e del Dvaita, o dualismo. Grazie all'Advaita la filosofia indù/Vedica ha avuto un forte impulso, il cui seme può essere riconosciuto nell'espressione: La Verità è Una, tuttavia il saggio la osserva come una moltitudine.

L'Advaita e la scienza

Diversi seguaci dell'Advaita ritengono che questa filosofia potrebbe rappresentare un punto di incontro tra la scienza e il mondo spirituale. Per giustificare questa ipotesi, essi fanno riferimento alle relazioni tra la massa, la frequenza e l'energia stabilite dalla fisica del XX secolo. Credono che queste relazioni, formalizzate in equazioni da Planck e Einstein, suggeriscano che tutta la struttura di questo Universo appaia come un'Unità che esibisca sé stessa come una moltitudine (energia, massa, onde eccetera) e che questo sia coerente con la visione Advaita in cui ogni cosa esiste ma è il risultato della manifestazione dell'"Unità", che è onnipresente, onnisciente e onnipotente. Inoltre correlano le onde materiali di De Broglie della meccanica ondulatoria al mantra Aum della dottrina indù.

Fondatori e testi chiave

I maestri più recenti

Voci correlate

Le Sacre Scritture dell'Induismo: i Veda, i Vedanta e le varie scuole di interpretazione

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Vedānta (devanāgarī: वेदान्त) è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda (anta, "fine", del Veda).
Il termine intende indicare quindi sia le Upaniṣad, per l'appunto parte finale del corpus vedico, sia il fatto che esse rappresentino il culmine dello stesso corpus nel senso che indirizzano al fine ultimo dello stesso, il mokṣa ("liberazione"), sia nel senso che tale letteratura viene studiata per ultimo, dopo gli altri testi.
Il termine indica anche una tradizione dottrinale, detta altrimenti Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), che si fonda sul Brahmasūtra (conosciuto anche come VedāntasūtraUttaramīmāṃsāsūtra o Śārīrakamīmāṃsāsūtra), testo teologico generalmente attribuito a Bādarāyaṇa (primi secoli della nostra èra[1]; altra datazione III-II sec. a.C.[2]) e composto di 555 aforismi suddivisi in 4 adhyāya, questi a loro volta divisi in 4 pāda.
In tal senso questo alveo dottrinale fa particolare riferimento a un "triplice canone" (prasthanātrayatraya, tre; prasthanā, "punto di avvio" ) che corrisponde alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā, al Brahmasūtra di Bādarāyaṇa, quindi ai testi dei loro rispettivi epitomatori e commentatori.

Le correnti del Vedānta

Tradizionalmente sono sei le principali correnti (sampradāya) indicate come Vedānta[3] le quali, pur radicandosi nel prasthanātraya, offrono dottrine e teologie assolutamente diverse tra loro:
Segnatamente ai differenti commentari (bhāṣya) al basilare testo del Brahmasūtra di Bādarāyaṇa, commentari che sono a fondamento di queste differenti scuole vedāntiche, la critica moderna ha cercato di individuare quale fosse il più coerente con l'insegnamento originario.
Paul Deussen[5] (1845-1919) ha ritenuto che la dottrina monista del kevalādvaita di Śaṅkara, tra l'altro all'origine della scuola vedāntica più antica, fosse la più coerente.
Diversamente altri importanti autori quali George Thibaut [6] (1848-1914), Vinayak Sakharam Ghate [7] e Louis Renou[8] ritengono che la dottrina detta del bhedābheda ("differenza e non differenza"), propugnata da Rāmānuja a fondamento del suo viśiṣtādvaita, rifletta maggiormente le intenzioni dottrinarie del Brahmasūtra di Bādarāyaṇa.

Darśana (devanāgarī दर्शन, dalla radice sanscrita drś, cioè "vedere" ) è un aggettivo e un sostantivo neutro sanscrito dai molteplici significati.
In qualità di aggettivo darśana indica "che espone", "che mostra", "che sa", "che insegna", "che rivela".
In qualità di sostantivo neutro darśana possiede numerosi significati che vanno dalla "vista", all'"indagine", al "discernimento", all'"opinione", alla "dottrina".
Nell'ambito delle cosiddette "teologie" o filosofie religiose induiste il termine darśana indica un sistema teorico o interpretativo frutto di un "punto di vista".
Tali sistemi interpretativi prendono avvio dal pieno periodo del Brahmanesimo fino agli inizi dell'Induismo (dal IV secolo a.C. al IV secolo d.C.).
La necessità di pronunciare un astika ("è così")[1] rispetto alla interpretazione dei Veda rientra tra i "quattro obiettivi dell'uomo" (quattro puruṣārtha) stabiliti dai Dharmasūtra (VI secolo a.C.-V secolo d.C.). L'ultimo di questi obiettivi denominato mokṣa inerisce al saṃnyāsin (il rinunciante) il quale deve necessariamente mettere in atto quelle vie di liberazione collegate ai Veda che lo emancipino dalla schiavitù del karman. Da qui la necessità di elaborare delle darśana sulla comprensione della realtà e sulle vie di emancipazione.
Secondo Gianluca Magi, la nascita e lo sviluppo delle darśana corrisponde alla nascita e allo sviluppo delle correnti religiose, come il Buddhismo e il Jainismo, considerate eterodosse dai brahmani:
« Questa minaccia delle scuole eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l'adozione di un metodo logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei metodi, chiamati appunto "punti di vista" (darśana), considerati sei aspetti di una singola tradizione ortodossa sono ... »
(Gianluca MagiDarśana, in "Enciclopedia filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.)

Note

  1. ^ Pelissero, p. 282
  2. ^ Dandekar, p.9545
  3. ^ Pelissero, p. 298;
  4. ^ Nella sua accezione ristretta quello di Caitanya non rappresenta un vero e proprio sampradāya, in quanto a differenza dei primi cinque questa corrente non ha prodotto un proprio commentario al Brahmasūtra ma, come spiega uno dei loro più importanti teologi, Jīva Gosvāmī (1511—1596), l'unico vero commentario è, secondo questa corrente viṣṇuita, il Bhāgavatapurāṇa (cfr. in tal senso l'opera di Jīva Gosvāmī, Tattva-sandarbha).
  5. ^ Cfr. il suo Das System des Vedānta (Lipsia, 1883)
  6. ^ Cfr. il suo The Vedānta Sūtra of Bādarāyaṇa in "Sacred Books of the East" voll. 34, 38, e 48 (Oxford, 1890–1904)
  7. ^ Cfr. il suo Le Vedānta : Études sur les Brahma-Sūtras et leurs cinq commentaires, Paris, 1918.
  8. ^ Cfr. il suo L’Inde classique, vol. 2, Hanoi, 1953.

Bibliografia

  • Un'accurata disamina del Vedānta qui inteso come quell'insieme di scuole e delle relative dottrine, è in Alberto PelisseroFilosofie classiche dell'India, Brescia, Morcelliana, 2014, pp. 298-382.
  • R. N. DandekarVedānta, in "Encyclopedia of Religion", vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9543 e sgg.

Voci correlate



Om, il Simbolo dell'Induismo e il Mantra più sacro

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Oṃ (ॐ) (romanizzato anche come Oṁ[1]Óm e Aum), è un termine indeclinabile sanscrito che, con il significato di solenne affermazione, è posto all'inizio di buona parte della letteratura religiosa indiana.
  • Come sillaba sacra viene pronunciata all'inizio o al termine di una lettura dei Veda.
  • Come mantra, il più sacro e rappresentativo della religione induista, è oggetto di riflessioni teologiche e filosofiche, nonché strumento di pratica religiosa e meditativa.

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Origine e sviluppo del significato e della funzione della sillaba Oṃ nelle Upaniṣad vediche

Il termine Oṃ compare indubbiamente nelle prime Upaniṣad vediche (IX-V secolo a.C.). Alcuni autori[2] ritengono tuttavia che la sua presenza sia comunque indicata anche in un inno tardo del Ṛgveda (XV-XII secolo a.C.):
(SA)
« ṛco akṣare parame vyoman yasmin devā adhi viśve niṣeduḥ yastan na veda kiṃ ṛcā kariṣyati ya it tad vidusta ime samāsate »
(IT)
« Colui che non conosce la sillaba imperitura del Veda, quel punto supremo presso il quale vivono tutti gli Dei, che cosa egli ha a che fare con il Veda? Solo coloro che la conoscono siedono qui pacificamente riuniti »
(Ṛgveda I,164,39)
Una delle più antiche Upaniṣad vediche che esprimono significati e funzioni del termine Oṃ è la Chāndogya Upaniṣad (Upaniṣad collegata al Sāmaveda e quindi al canto rituale, sāman), la quale al primo verso del primo kaṇḍa del primo prapāṭaka così si esprime:
(SA)
« om ity etad akṣaram udgītham upāsīta om iti hy udgāyati tasyopavyākhyānam »
(IT)
« Occorre venerare il canto liturgico (udgīta) come fosse la sillaba Oṃ con Oṃ infatti si inizia il canto liturgico. Ora spiegheremo »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,1)
Nelle sue spiegazioni la Chāndogya Upaniṣad indica che il canto liturgico (udgītha) è l'essenza di tutti gli esseri (I,1,2). Ma cos'è l'udgītha?
(SA)
« vāg evark prāṇaḥ sāma om ity etad akṣaram udgīthaḥ tad vā etan mithunaṃ yad vāk ca prāṇaś cark ca sāma ca »
(IT)
« La parola è il ṛk (Ṛgveda), il soffio vitale è il sāman (Sāmaveda), l'udgītha è la sillaba Oṃ . Parola e soffio vitale formano una coppia così come il ṛk con il sāman »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,5)
Così come senza la parola non c'è l'inno e senza il respiro non c'è il canto liturgico, questi trovano la loro essenzialità nella sillaba Oṃ.
Ma Oṃ è anche una risposta affermativa e un saluto fausto:
(SA)
« tad vā etad anujñākṣaram yad dhi kiṃcānujānāty om ity eva tad āha eṣo eva samṛddhir yad anujñā samardhayitā ha vai kāmānāṃ bhavati ya etad evaṃ vidvān akṣaram udgītham upāste »
(IT)
« Questa sillaba esprime l'assenso. Quando si vuole dare l'assenso a qualcosa si pronuncia Oṃ. E ciò a cui si dà l'assenso verrà realizzato. Colui che conosce questo venera udgītha come la sillaba Oṃ realizzerà i suoi desideri »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,8)
Da Oṃ procede la conoscenza sacra:
(SA)
« teneyaṃ trayī vidyā vartate om ity āśrāvayati om iti śaṃsati om ity udgāyati etasyaiva akṣarasyāpacityai mahimnā rasena »
(IT)
« Da essa procede la triplice conoscenza (i Veda). Pronunciando Oṃ si recitano (le formule del Yajurveda); pronunciando Oṃ si innalzano le lodi (del Ṛgveda); pronunciando Oṃ si cantano (le melodie del Samāveda), onorando la grandezza e l'essenza di questa sillaba »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,9)
Con lo sviluppo delle successive Upaniṣad, le caratteristiche della sillaba Oṃ verranno ulteriormente a delinearsi.
La Taittirīya Upaniṣad (collegata al Kṛṣṇa Yajurveda) afferma esplicitamente che:
« Oṃ è il BrahmanOṃ è tutto l'universo »
(Taittirīya Upaniṣad, I,8)
La Morte (Yama) afferma, nella Kaṭha Upaniṣad (o Kaṭhaka Upaniṣad collegata al Kṛṣṇa Yajurveda) che:
« La parola che tutti i Veda proclamano, verso cui muovono le austerità, per il desiderio per la quale si conducono le discipline, io ti rivelo: è Oṃ. Questa sillaba è davvero il Brahman eterno, questa sillaba è la meta suprema, colui che conosce questa sillaba otterrà quello che vuole »
(Kaṭha Upaniṣad, I,2,16-17)
Con la Māṇḍūkya Upaniṣad (collegata all'Atharvaveda) una delle ultime Upaniṣad vediche[3] la sillaba Oṃ viene per la prima volta analizzata e scomposta foneticamente:
(SA)
« So'yamātmā-adhyaksharam-Omkaro'dhimatram, pādā mātrā, mātrāsca pādā akāra ukāro makāra iti »
(IT)
« Egli è l'Ātman privo di difetto corrispondente ad Oṃ guardandone gli elementi che lo costituiscono. Gli elementi che lo costituiscono corrispondono alle essenze e le essenze corrispondono agli elementi che lo costituiscono, ossia ai suoni A U M. »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 8)
(SA)
« Jāgaritasthāno vaiśvānaro'kārah prathamā mātrā, āpterādimatvādvāpnoti ha vai sarvān kāmānādisca bhavati ya evam veda »
(IT)
« Vaiśvānara, lo stato di veglia è indicato dalla suono A che è il primo elemento in quanto ottiene o in quanto è primo. Ottiene ciò che desidera e risulta primo colui che così conosce. »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 9)
(SA)
« Svapnasthānastaijasa ukāro dvitīya mātrotkarṣhādu- bhayatvādvotkarṣhati ha vai jñana-santatim, samānasca bhavati, nāsyābrahmavit kule bhavati, ya evam veda »
(IT)
« Lo stato di sogno, Taijasa, è indicato dal suono U che è il secondo elemento per il fatto che è più in alto [di quello precedente] o perché partecipa dagli altri due [in cui sta in mezzo]. Chi lo conosce è in armonia col Tutto, nessuno dei suoi discendenti ignorerà il Brahman »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 10)
(SA)
« Pushuptasthānah prājño makārastṛtīya mātrā miterapīter vā, minoti ha vā idam sarvam-apītisca bhavati, ya evam veda »
(IT)
« Lo stato di sonno profondo, prājña è indicato dal suono M che è il terzo elemento, in quanto crea o dissolve. Colui che conosce questo penetra questo universo facendolo suo »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 11)
(SA)
« Amātrascaturtho'vyavahāryah prapancopaśamah sivo'dvaita evamomkāra ātmaiva, samviśatyātmanatmanam ya evam veda, ya evam veda »
(IT)
« Il quarto non corrisponde ad un elemento è non misurabile è al di là della manifestazione e non agisce; è calmo e non duale. Tale è la sillaba Oṃ, in verità è l'Ātman colui che così conosce penetrando con l'Ātman [individuale] l'Ātman [universale] »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I,12)
La sacra sillaba viene quindi analizzata dividendola nei quattro vissuti che costituiscono lo stato di coscienza: veglia, sogno e sonno senza sogni, nonché, il quarto stato, turīya, al di là di ogni definizione è l'Ultimo, il Brahman.
Nella Maitri Upaniṣad (o Maitrāyaṇīa Upaniṣad collegata al Kṛṣṇa Yajurveda), probabilmente l'ultima delle Upaniṣad vediche, l'Oṃ viene indicato come suono originario (VI,3) e viene infine raccomandata la pratica della meditazione dell'Oṃ come Sé.
« "Ci sono due aspetti del Brahman quello materiale e quello immateriale. Quello materiale è privo di realtà, quello immateriale è reale, è il Brahman è la luce. La luce è il sole, esso è Oṃ. Esso divenne il Sé e divenne tre parti[4]. Da questo tutto l'universo è intessuto." Così disse. Il sole è Oṃ: su questo meditate e su questo concentrate il vostro spirito »
(Maitri Upaniṣad VI,22)

La sillaba Oṃ nella letteratura religiosa post-vedica

Nel Manusmṛti ("Le leggi di Manu", opera databile a cavallo della nostra Era), raccolta di disposizioni darmiche, precetti sociali e norme etiche, viene stabilito che:
« Egli deve sempre pronunciare "Oṃ!" alla fine e all'inizio della recitazione dei Veda, perché se non c'è prima, [la recitazione dei Veda] si perde, se non c'è dopo, questa si dissolve. »
(Manusmṛti, II,74)
Non solo:
« Un sacrificio che consiste nel recitare [la sillaba Oṃ e il verso in onore di Savitṛ[5]] è dieci volte migliore di un sacrificio regolare; se mormorato è cento volte migliore; è se è [recitato] solo con la mente è tradizionalmente considerato mille [volte migliore]. »
(Manusmṛti, II,85)
Quest'ultimo verso del Manusmṛti è esemplificativo del processo di interiorizzazione di mantra e formule sacrificali proprie della letteratura vedica, interiorizzazione che andrà a sostituire, con le annesse esegesi e credenze articolate nella successiva letteratura religiosa, il sacrificio vedico, promuovendo così la nascita della religione induista.

La sillaba Oṃ nell'Induismo


Esso è considerato il suono primordiale che ha dato origine alla creazione, la quale viene interpretata come manifestazione stessa di questo suono.Oṃ è il mantra più sacro e rappresentativo della religione induista, religione nata dal Brahmanesimo a sua volta sviluppo del Vedismo.
Secondo le scritture induiste, il mantra Oṃ rappresenta la sintesi e l'essenza di ogni mantrapreghiera, rituale, testo sacroessere celeste o aspetto del Divino.
In virtù di questo, la sillaba Oṃ viene recitata in apertura delle letture religiose, della pratica della pūjā e del yajña.
Essendo venerata dagli induisti come il 'suono originario', viene appellata come akṣara (eterna) o anche come ekakṣara (la sola cosa eterna) e praṇava (da pra e ṇu, udire un ronzio, per via della sua pronuncia nasalizzata).

"Tre in uno"

Questo mantra viene spesso utilizzato per rappresentare simbolicamente la sintesi di tre aspetti differenti del tre in uno, un tema comune in molti aspetti dell'Induismo. Questo implica che la nostra attuale esistenza definita come mithyā ('realtà apparente'), deve essere trascesa al di là del corpo e della mente intuendo che la vera natura dell'infinito, la natura di Dio, è immanente, trascende la dualità, essendo e non essendo, e che non può essere descritta a parole, ma solo sperimentata.
All'interno di questo simbolismo metafisico, il tre viene rappresentato dalla curva più bassa, mentre la curva più alta e la coda sono rappresentate da , sottomesso all'Unità, rappresentato da un punto e da una piccola ombra luna-crescente, conosciuta come candra-bindū (bindū indica l'anusvāra ovvero il "suono successivo" o "suono nasale" marcato da un punto sopra la linea e che appartiene alla vocale che precede, di grande importanza mistica).
Seguono alcuni esempi di tre aspetti in uno che possono essere simboleggiati dall'Oṃ.
Aspetto divinoTrimūrtiGuṇaMondiStato di coscienzaKośa
ACreazioneBrahmāTamasTerraVegliaCorpo grossolano
UConservazioneViṣṇuRajasAtmosferaSonnoCorpo sottile
MDissoluzioneŚivaSattvaCieloSonno profondoCorpo causale
Totalità indifferenziataBrahmanTurīyaĀtman
Come si può vedere dalla tabella, esiste anche un quarto suono: esso, però, è trascendentale e consiste nel silenzio che segue i tre suoni del mantra. È un "suono silenzioso", un momento di assoluta contemplazione che rappresenta l'immanifesto, la condizione primordiale dell'Essere che precede la manifestazione.

L'Oṃ e le Mūrti

Approfondimento
La sacra sillaba Oṃ in lingua Tamil.
In lingua Tamil, la sacra sillaba è indicata da un carattere la cui forma ricorda la sagoma della testa d'elefante di Gaṇeśa.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Murti.
I vari aspetti della Divinità sono venerati dagli induisti attraverso il sistema delle Mūrti; molte delle rappresentazioni di tali aspetti sono chiamate con l'appellativo oṃkāra o Omkāreśvara, ossia “avente la forma della Oṃ”. Le varie forme divine vengono paragonate alla sacra sillaba e descritte quindi come illimitate, quali aspetti vibrazionali di tutto il creato.
Ad esempio, l'Oṃ viene attribuito a Gaṇeśa, la cui figura è spesso rappresentata nella forma di questo simbolo. Un altro esempio può essere la danza cosmica di Śiva con la quale egli crea, preserva e distrugge i mondi; questa danza viene vista come il riflesso dell'Oṃ.
Si dice che sia l'approssimazione più aderente dell'esistenza cosmica nel tempo e nello spazio, quindi del suono più vicino alla Verità.

Pronuncia corretta e recitazione

Aum è la somma e sostanza di tutte le parole che possono essere emesse da una gola umana. È il suono primordiale fondamentale, simbolo dell'Assoluto Universale. Il mantra Aum deve essere pronunciato, con concentrazione, in un modo ben preciso e con energia:
  • La A- deve originarsi dalla regione dell'ombelico ed emergere dalla gola;
  • La U- la si pronuncia rovesciando la lingua;
  • La M- termina sulle labbra e la vibrazione termina sulla sommità del capo.
Anche se viene suddiviso in tre, la sua recitazione deve avvenire come un unico suono. Il quarto suono, come si è visto, non viene pronunciato attraverso la voce; tuttavia esso è il momento più importante della recitazione, in quanto è pura contemplazione, e va ricordato e vissuto come tale.
In molti ashram e templi induisti si esegue la pratica dell'Aumkara (o Omkara), ossia la ripetizione di 21 Aum. Dietro a questo numero c'è una precisa simbologia.

La sillaba Oṃ nel Buddhismo

La sillaba Oṃ con i suoi sacri significati è stata propugnata, diffusa e spiegata fin dalle prime Upaniṣad vediche, quindi almeno dal VI secolo a.C. In ambito buddhista la si riscontra nel cosiddetto "Buddhismo esoterico" oggi afferente ai Canoni cinese e tibetano.
Nel primo ambito, la sillaba Oṃ è pronunciata all'inizio delle dhāraṇī riguardanti il garbhadhātu (胎藏界).
Sempre in questo ambito le tre componenti fonetiche dell'Oṃ, ovvero A/U/M, vengono rispettivamente ad indicare le tre parti del Trikāyadharmakāyasaṃbhogakāya, e nirmāṇakāya.
In ambito tibetano è invece posto nell'importante mantra Om Mani Peme Hung (tib., sanscrito Oṃ Maṇi Padme Hūṃ) relazionato al bodhisattva della compassione Avalokiteśvara.
In ambito buddhista, la sillaba sanscrita Oṃ è così resa nelle altre lingue asiatiche:

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Il simbolo dell'Oṃ in devanāgarī e in altre scritture asiatiche

Il simbolo dell'Oṃ (ॐ) deriva dall'unione di due caratteri del devanāgarī: ओ ('o') + ँ ('m' nasale) riportati in corsivo. Risultando il devanāgarī una scrittura non precedente all'VIII secolo d.C. questo simbolo è quindi di gran lunga posteriore alla sillaba Oṃ presente in testi anteriori almeno al VI secolo a.C.

Note

  1. ^ Il diacritico inserito nella 'm' di Oṃ e nel meno diffuso Oṁ ha lo scopo di nasalizzare la vocale che precede in questo caso la o che nel sanscrito è fondamentalmente un dittongo risultante foneticamente dalla contrazione delle vocali 'a' e 'u' che pronunciate rapidamente danno il suono di 'o' (Cfr. al riguardo: Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, pag.312).
  2. ^ Cfr. ad esempio:
    « Evidence of its use as an invocation occurs in the Ṛgveda; though it appears in a relatively late section (1.164.39), this note dates the practice to at least 1200 BCE »
    (Anne-Marie EsnoulOṃ in Encyclopedia of Religion vol.10. NY, MacMillan, 2005, pag.6820.)
  3. ^ Occorre precisare che questa Upaniṣad è profondamente radicata nel commento (kārikā) attribuito a Gauḍapāda (VIII secolo d.C.) di cui fa parte integrante. Qui ci riferiamo esclusivamente ai passaggi inerenti alla tarda Upaniṣad vedica e quindi a quella parte del primo capitolo della kārikā. Tale precisazione si rende necessaria quando consideriamo che la kārikā di Gauḍapāda esprime nel suo monismo radicale una dottrina della illusorietà del mondo lontata dalle concezioni dei Veda e delle Upaniṣad vediche, testi per cui, invece, il mondo è assolutamente reale (Cfr. Carlo Della CasaOp.cit pag.415).
  4. ^ Richiama la Māṇḍūkya Upaniṣad I,8-12 con i tre aspetti di veglia, sonno e sonno profondo.
  5. ^ Conosciuto anche come Savitrī o gāyatrī è il Ṛgveda III, 62, 10.

Bibliografia

  • Anne-Marie Esnoul. Oṃ in Encyclopedia of Religion vol.10. NY, MacMillan, 2005
  • Guy L. Beck. Sonic Theology: Hinduism and Sacred Sound. Columbia, S.C., 1993