domenica 11 giugno 2017

Il Tantra

Risultati immagini per tantra

Risultati immagini per tantra

Tantra è un termine sanscrito (in scrittura devanāgarīतंत्र: "telaio", "ordito"[1]; ma tradotto anche come "principio", "essenza", "sistema", "dottrina", "tecnica"[2]) per indicare sia un insieme di testi[3] dalla non univoca classificazione, sia un controverso insieme di insegnamenti spirituali e tradizioni esoteriche originatesi nelle culture religiose indiane con varianti induistebuddhistegiainiste e bönpo, con diramazioni diffuse in TibetCinaCoreaGiapponeIndonesia e molte altre aree dell'Estremo Oriente[4].
Per riferirsi alle diverse insieme di tradizioni e culture è spesso adoperato come sinonimo anche il termine di tantrismo.
Secondo l'accademico Padoux è possibile elencare una serie di caratteristiche peculiari dell'universo tantrico in sé, aspetti atti a riconoscere ciò che è "tantrico". Essi sono[13]:
  • Immanenza e Potenza: l'universo e gli esseri umani sono permeati dell'energia divina, la śakti, personalizzata come una Dea.
  • Trasmissione: il tāntrika è un iniziato, il che implica la presenza di un maestro, il guru, e una trasmissione della dottrina (saṃpradāya) di maestro in maestro.
  • Segretezza: le dottrine e le pratiche hanno il carattere della segretezza, quindi sono esoteriche.
  • Pūjā: il rituale di adorazione di una divinità è quello della pūjā, che è sempre tantrica nella sua struttura anche se rivolta a una divinità non tantrica.
  • Maṇḍala: il pantheon, sempre vasto, è organizzato in maṇḍala.
  • Mantra: l'oralità, la parola (vāc), assume un ruolo centrale in tutte le pratiche e riti, i mantra sono onnipresenti; molti di essi altro non sono che la forma fonica di divinità.
  • Yoga: esistenza di uno stretto legame con lo yoga[14].
E aggiunge: "Tuttavia si può ammettere che il Tantrismo sia una categoria a parte e lo si può definire in generale come una via pratica ai poteri sovrannaturali e alla liberazione; consiste nell'uso di pratiche e tecniche specifiche (rituali, corporee e mentali), che sono sempre associate a una dottrina particolare."[15]
Sulle peculiarità delle tradizioni tantriche, così altri studiosi:
  • David Gordon White suggerisce che il principio chiave del tantra risieda nel fatto che l'universo che noi sperimentiamo sia la concreta manifestazione dell'energia divina che lo crea e lo mantiene: le pratiche tantriche cercano di contattare e incanalare quell'energia all'interno del microcosmo umano.[16]
Lo stesso autore più recentemente[17] ha evidenziato come la caratteristica comune delle dottrine e delle pratiche tantriche consista nell'uso di maṇḍalamantra e pratiche rituali allo scopo di mappare, organizzare e controllare un universo di potenze, impulsi e forze caotiche.[18]
  • Madeleine Biardeau riassume le dottrine tantriche come "un tentativo di porre kāma, il desiderio, in ogni suo significato, al servizio della liberazione."[19]
  • Prabhat Ranjan Sarkar filosofo indiano contemporaneo noto anche con il nome spirituale di Shrii Shrii Ánandamúrti, spiega così il significato del termine tantra: "Il significato del termine tantra è "liberazione dal legame". La lettera ta è il seme (suono) dell'ottusità (staticità). E il verbo radice trae suffissato da da diventa tra, che significa "ciò che libera" - così, quella pratica spirituale che libera l'aspirante dall'ottusità o dall'animalità della forza statica ed espande il sé spirituale dell'aspirante è il Tantra sadhana. Per questo non potrebbe esistere alcuna pratica spirituale senza Tantra.[20] Lo stesso autore, in un altro volume spiega che i praticanti del tantra più elevato dovrebbero possedere ampie visuali, rinunciando ai pensieri ristretti ed essere disposti a sacrificarsi al fine di promuovere il benessere altrui. Superando in tal modo, attraverso l'autorealizzazione e il servizio disinteressato all'umanità, diversi ostacoli mentali.[21]

Caratteristiche e terminologia

Tantrismo

A proposito di questo termine, "tantrismo", occorre subito chiarire due aspetti fondamentali per la comprensione dell'intero fenomeno.
Il primo è che il termine è del tutto sconosciuto alla tradizione classica indiana, non esiste in sanscrito. Esso fu infatti coniato in occidente[22][23] nel XX secolo da studiosi occidentali del mondo religioso indiano. Pare che il primo a menzionare "tantrismo" sia stato, nel 1918, l'avvocato britannico Sir John Woodroffe, che firmava con lo pseudonimo Arthur Avalon i suoi testi in qualità di orientalista.[24]
Invero, già dal secolo precedente gli orientalisti avevano individuato nel mondo hindu un insieme di fenomeni, culti e ideologie, che non riuscivano a rapportare al brahmanesimo, all'induismo classico fondato sui Veda e sulle Upaniṣad cioè. Essi riscontravano queste teorie e pratiche in testi che in buona parte adoperavano come suffisso il termine "tantra". Di qui i termini "tantrismo", "tantrico", e "tantra" nel senso di religione o setta religiosa.[24]
Il secondo aspetto è strettamente connesso col precedente: il termine "tantrismo" finì per indicare e caratterizzare un insieme di pratiche e credi ritenuti sostanzialmente differenti e scollegati da ciò che era noto delle religioni dell'India, conoscenze per lo più teoriche, fondate sullo studio dei testi. Così l'accademico francese André Padoux[25]:
« Nacque così l'idea di un complesso tantrico estraneo al pensiero e alle religioni originari dell'India [...] idea completamente sbagliata. »
(André Padoux, 2011, p. 13)
Questo errore di inquadramento era però già stato messo in evidenza da alcuni studiosi, come l'indologo H. H. Wilson, che sin dal 1832 riconosceva i riti definiti poi tantrici in tutte le «categorie di hindu». Anche Arthur Avalon osservava l'induismo medioevale e moderno essere in larga parte tantrico.[24]
Pur tuttavia si fece largo la convinzione che in India esistessero due fenomeni o tradizioni religiose abbastanza distinte tra loro, pregiudizio che tutt'oggi persiste, specie al di fuori degli ambiti accademici. Così si esprime al riguardo l'accademico italiano Raffaele Torella:
« Nel tantrismo non c'è un'altra India che viene alla riscossa, ma l'unica India che, proprio all'interno della sua élite brahmanica, sente giunto il momento di riformulare se stessa per garantire la sua futura sopravvivenza. »
(Raffaele Torella, citato in André Padoux, 2011, p. XII)
Idea simile era già presente nel pensiero dello storico delle religioni Mircea Eliade che, in Techniques du Yoga (1948), nega lo status di nuova religione al tantrismo. Ancor più radicale è Madeleine Biardoux che nel suo L'induismo. Antropologia di una civiltà (1981) scrive che «il tantrismo non inventa nulla».[24]
In ambito storiografico la categoria "Tantrismo" è criticata anche da altri studiosi:
  • Per Herbert Guenther il "tantrismo" rappresenta "una delle nozioni più confuse e uno dei maggiori fraintendimenti che la mente occidentale abbia sviluppato".[26]
  • Per André Padoux "non è facile fornire una valutazione obiettiva e scientifica del tantrismo, in quanto il soggetto è controverso e sconcertante. Non solo gli specialisti danno definizioni diverse del tantrismo, ma la sua stessa esistenza è stata talvolta negata."[15]
  • Per Brian K. Smith "il tantrismo si può certamente classificare come tra le categorie più problematiche nello studio della religione in generale e nello studio dell'induismo in particolare. Praticamente ogni proposizione che riguarda il tantrismo è controversa, partendo dalle sue origini e caratteristiche distintive fino alla valutazione della sua posizione nella storia delle religioni".[27]

Tāntrika

Come si è detto, esiste tutta una letteratura indiana, i Tantra, i cui testi in buona parte adoperano il suffisso "tantra": in queste opere si definisce tāntrika il praticante, colui cioè che segue il percorso spirituale descritto nei testi. Il termine è poi spesso adoperato, sempre nella letteratura indiana, in opposizione a vaidika, colui che segue i Veda. Già nel XV secolo il filosofo indiano Kullūka Bhaṭṭa parlava di rivelazione duplice, nei Veda e nei Tantra, e non, quindi, di due rivelazioni, e nemmeno di un'ortodossia da una lato e eterodossia dall'altro.[24]
Il culto vedico originario, tranne qualche raro caso, non esiste più al giorno d'oggi in India. Continuano però a esistere riti brahmanici la cui osservanza non è affatto respinta da chi si ritiene tāntrika. Fa notare Padoux che oggi l'ortodossia hindu riguarda più il comportamento sociale che quello religioso: non ha tanto importanza quale dio si adori e come, o quali templi si frequenti, o quali pratiche spirituali si preferisca seguire nel privato: più importanti sono sicuramente i riti sociali che segnano i passaggi importanti della vita (saṃskāra), e l'osservanza delle caste (varṇa).[24]

Tantra, i testi


Pārvati ascolta gli insegnamenti del suo sposo il signore Śiva. Datia (Madhya Pradesh, India), aprox. 1750. Molti testi tantra sono nella forma di dialogo fra il Dio e la Dea; negli Śaiva tantra la Dea interroga Śiva e costui risponde; negli Śakta tantra è la Dea a rispondere alle domande del Dio.
Esistono in letteratura molti testi definiti come Tantra, sia in sanscrito sia in lingue vernacolari, come il bengali e il tamil. Diverse sono anche le classificazioni di questo insieme di testi, non sempre univoche e universalmente accettate.
La tradizione vuole che siano 92 i tantra rivelati da Śiva[28], 28 Āgama e 64 Bhairava tantra. Accanto a questi Śaiva tantra occorre poi aggiungere gli Śakta tantra, per le tradizioni religiose che invece considerano la Dea quale divinità principale; e molti altri insiemi di tantra che fanno parte di tradizioni minori.
Essendo stati questi testi trasmessi oralmente prima di darne testimonianza scritta, non è possibile fornire una datazione certa dell'origine. L'orientalista olandese Jan Gonda ritiene che essi vadano datati dopo il IV secolo CE[29]; André Padoux sostiene che la Niḥśvāsatattva Saṃhitā sia uno dei tantra fra i più antichi a noi pervenuti, esso risalirebbe al V-VI secolo[30].
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Tantra (testi induisti).

Tantra, il termine

Etimologicamente il termine "tantra" si ricollega alla radice verbale TAN, verbo che vuol dire "stendere", con riferimento a quanto si fa nella lavorazione dei tessuti. Il termine è perciò generalmente tradotto con "telaio", "ordito"[31], e quindi in senso lato, "opera", "testo"[32]. In letteratura esistono altre traduzioni del termine, che tendono più o meno a dare una chiave interpretativa e del termine stesso e del contesto. Osho Rajneesh, moderno esponente del Tantra, ha reso il termine con "tecnica", "metodo"[33]:
« La parola "tantra" significa tecnica, il metodo, il sentiero, perciò non è filosofico: ricordalo. Non si occupa di problemi e di indagini intellettuali. Non si occupa del "perché" delle cose: si occupa del "come", non di che cosa sia la verità ma di come possa essere raggiunta. »
(Osho, Il libro dei segreti, traduzione di Tea Pecunia Bassani e Swami Anand Videha, Bompiani, 2008, p. 15)
Gavin Flood fa notare che il termine può anche ricollegarsi alla radice TṚ, col significato quindi di "attraversare", "andare oltre", con riferimento al superamento del ciclo delle rinascite.[34]
Nella tabella seguente si riporta in ordine cronologico la ricorrenza del termine in letteratura e la sua traduzione o accezione. Occorre comunque e in ogni caso tenere presente, nella lettura di questa tabella, che quello che a noi lettori di oggi è accessibile, è pur sempre la traduzione del termine stesso, quindi un altro termine, o un insieme di parole, effetto di una traduzione.
Cronologia dell'uso del termine "tantra" nella tradizione dei testi[35]
PeriodoScrittura o AutoreAccezione
1700 – 1100 a.C.Ṛgveda, X, 71.9telaio (o dispositivo per la tessitura)[5]
1700 – ? a.C.SāmavedaTāṇḍya Mahā Brāhmaṇaessenza (o "porzione principale", forse a denotare che rappresentava la quintessenza dei Sastras)[5]
1200 – 900 a.C.Atharvaveda, X, 7.42telaio (o dispositivo per la tessitura)[5]
1400 – 1000 a.C.YajurvedaTaittirīya Brāhmaṇa, 11.5.5.3telaio (o dispositivo per la tessitura)[5]
600 – 500 a.C.per Pāṇini nell'Aṣṭādhyāyītessuto preso dal telaio (con uso del termine "tantraka" come derivato da "tantra")
600 – 400 a.C.Kāmikāgama o Kāmikā-tantragrande conoscenza (su principi della realtà tattva e mantra)[36]
600 – 300 a.C.Śatapatha Brāhmaṇaessenza (o "porzione principale", forse a denotare che rappresentava la quintessenza dei Sastras)[5]
350 – 283 a.C.per Chanakya[37] nell'Arthaśāstrastrategia (politica, militare ecc.)
300Īśvarakṛṣṇa autore della Sāṃkhyakārikā (kārikā 70)dottrina (identifica infatti tutto il Sāṃkhya come un "Tantra)"[38]
320Viṣṇu Purāṇainsieme di pratiche e rituali (parla della śakti di Viṣṇu e dei culti a Durga con l'uso di vino, carne, ecc.)[39]
320 – 400per il poeta Kālidāsa nell'Abhijñānaśākuntalamcomprensione profonda o padroneggiamento di un argomento[40]
423iscrizione su Pietra di Gangdhar in Rajasthan[41]insieme di pratiche e rituali di culto tantrico giornaliero (Tantrobhuta)[42]
500 – 600Canone buddhista cinese (Vol. 18–21: Buddhismo Vajrayāna o buddismo tantrico)insieme di pratiche o dottrine per l'ottenimento dell'illuminazione spirituale (incluse iconografie del corpo sottile con chakranadis, ed energie sottili, spiegazione di mantra ecc.)
606 – 647per lo studioso e poeta sanscrito Bāṇabhaṭṭa (nel Harṣacarita[43] e nel Kādambari), nel Cārudatta di Bhāsa e nel Mṛcchakatika di Śūdrakainsieme di pratiche e rituali con uso di maṇḍala e yantra per propiziazioni delle Mātṛkā, rituali (anusthana) di cura e altri tipicamente tantrici[42][44]
788 – 820per il filosofo Śankarasistema di pensiero o insieme di pratiche o dottrine[45]
950 – 1020per il filosofo Abhinavagupta nel Tantrālokainsieme di pratiche o dottrineinsegnamento e/o dottrina shivaita (secondo le 3 forme: dvaita (dualista), dvaitādvaita (dualista e non-dualista insieme), ādvaita (non dualista))
1000 – 1100per il filosofo Bhaṭṭa Rāmakaṇṭha[46]insieme di pratiche o dottrine (divinamente rivelate) inerenti alla pratica del culto spirituale[47]
1150 – 1200per Jayaratha, commentatore di Abhinavagupta, nel Tantrālokavārttikainsieme di pratiche o dottrineinsegnamento e/o dottrina Shivaita (come nel Tantrāloka)
1690 – 1785per il filosofo Bhāskararāyasistema di pensiero o insieme di pratiche o dottrine[48]
Come indicato dalla tabella cronologica il termine "tantra" : 1) è trasversalmente presente in molte delle principali e più antiche scritture presenti (non solo) nel continente indiano; 2) inizialmente tendeva a denotare un mezzo o uno strumento inteso anche soltanto come scrittura[49], per poi estendersi a significare "dottrina" (il Sāṃkhyakārikā, 300 d. C. cira, principale testo della scuola vedica Sāṃkhya, identifica il Sāṃkhya (nella kārikā 70) come un tantra)[38][50]; 3) si è poi diffuso anche con il significato di "strategia", "insieme di pratiche e rituali" che sfoceranno nell'intero corpus della letteratura tantrica tradizionalmente definita tale. È pertanto riduttivo dare un significato univoco al termine.

Le tradizioni tantriche

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Devi e Kaula.
Alcune fra le maggiori tradizioni che presentano elementi tantrici sono: AghoraĀḷvārBāulGauḍīyaKālāmukhaKālīkulaKānpaṭhaKāpālikaKaulaKramaLākulaLiṅgāyatNāthaNāyaṇarPāñcarāṭraPāśupataSahajiyāŚaivasiddhāntaŚrīvidyāTrika.
È possibile considerare e classificare queste tradizioni da più punti di vista, per esempio in relazione alla divinità principale (o alle divinità principali); in relazione all'area geografica di appartenenza e al periodo storico (molte sono estinte); in relazione all'eterodossia del rituale, nel senso di allontanamento più o meno marcato dai canoni vedici.
Buona parte di queste tradizioni contemplano quale divinità principale o comunque determinante Śiva, l'erede del dio vedico Rudra, già oggetto di venerazione sin dai primi secoli della nostra era, e assurto poi a grande dio dell'induismo. Molti studiosi sostengono inoltre che il culto di Śiva, o di altra divinità che ne aveva le caratteristiche, risalirebbe a epoche pre-vediche, stante ad alcuni sigilli ritrovati nella Valle dell'Indo e risalenti a un'epoca antecedente l'invasione degli indoari. La questione è comunque controversa.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Shiva.
Altrettanto numerose sono le tradizioni tantriche che invece prediligono il culto della Dea, che si presenta con nomi e caratteristiche differenti, a volte anche ben contrastanti fra loro. Abbiamo, come dee più importanti: TripurasundarīKālī, che fa parte di un gruppo di dieci dee, le Mahāvidyā (le dee della Grande Conoscenza); Durgā. Accanto a queste esistono comunque tantissime altre divinità secondarie, a volte solo locali come le dee di villaggio, a volte semplici compagne o assistenti di dee maggiori, quali per esempio le Bhairavī e le Yoginī.

Statua moderna per l'adorazione di Kālī, dea feroce, padrona di sé stessa, comune a molte tradizioni trasgressive e cuore dello shivaismo kashmiro; qui rappresentata sul corpo immobile di Śiva a indicare il rapporto fra causa materiale e causa efficiente nel cosmo.
Non sempre è possibile distinguere nettamente fra tradizioni (tantriche) śaiva (quelle che si rifanno a Śiva) e tradizioni śākta (quelle che si rifanno alla Dea: il termine deriva da Śakti, letteralmente "energia", e in senso lato Dea, perché nelle tradizioni tantriche śaiva la Dea è paredra del Dio e sua "energia" che opera nel mondo, suo aspetto immanente).[51]
Le tradizioni śākta sono tipiche dell'India meridionale, e certo non erano caratteristica del mondo ariano.[52] Il mondo ario era essenzialmente patriarcale, né è possibile riscontrare un culto della Grande Madre nella cultura vedica.[53] Queste tradizioni sono dunque molto probabilmente un'eredità delle popolazioni autoctone dell'India meridionale, delle popolazioni dravidiche o pre-dravidiche, come i munda; come aborigena è per esempio la devozione a una divinità sotto forma di adorazione, la bhakti; come aborigena è la forma di culto più diffusa oggi in India, la pūjā.[54][55]
Nelle tradizioni tantriche si ritrovano dunque, già in epoche precedenti, molti elementi tipici dell'induismo attuale e che non facevano parte del mondo brahmanico: oltre la bhakti, la pūjā, il culto della Dea, il dio Śiva nella sua forma pre-vedica o meno, va ricordato anche lo Yoga. Su quest'aspetto così sintetizza Mircea Eliade:
« Gli Indo-europei portavano una società di struttura patriarcale, un'economia pastorale ed il culto degli dei del Cielo e dell'atmosfera, in una parola la "religione del Padre". Gli aborigeni preariani conoscevano già l'agricoltura e l'urbanesimo (la civiltà dell'Indo) e, in generale, partecipavano alla "religione della Madre". L'induismo, come si presenta alla fine del Medioevo, rappresenta la sintesi di queste due tradizioni, ma con un accentuato predominio dei fattori aborigeni: l'apporto degli Indo-europei ha finito per essere radicalmente asiatizzato. L'induismo significa la vittoria religiosa della tradizione locale. [...] Da questo punto di vista, il tantrismo prolunga e intensifica il processo di induizzazione incominciato dai tempi post-vedici. »
(Eliade, 2010, p. 334 e p. 194)
In ambito vaiṣṇava troviamo essenzialmente le tradizioni del Pāñcarāṭra e del Sahajiyā, essendo le tradizioni tantriche in gran parte o śākta o śaiva. Il Pāñcarāṭra, alla cui base vi è una vasta letteratura, è molto vicino all'ortodossia brahmanica e tuttora vivo in India. I seguaci sono devoti al dio Nārāyaṇa, assimilato a Viṣṇu e adorato anche col nome di Vasudeva. La sua śakti è Māyā, adorata anche col nome di Lakṣmī, dea benigna considerata dispensatrice di fortuna e benessere. Da Māyā è considerata emanata la natura, prakṛti, secondo una visione filosofica che è molto prossima quella del Sāṃkhya. Per il resto i seguaci non adottano riti trasgressivi e utilizzano i mantra e lo yoga come mezzi per la liberazione.[56] I Bāul, tradizione ancora attiva nel Bengala, hanno raccolto l'eredità dei Sahajiyā, setta estinta: sono devoti alla coppia di dèi Kṛṣṇa e Rādhā, e praticano, fra altri culti devozionali, l'unione sessuale ritualizzata come mezzo per il raggiungimento della liberazione.[57]
Un'altra tradizione moderata la si ritrova nello Śaivasiddhānta, una tradizione śaiva tuttora presente in India soprattutto nel sud e che risalirebbe almeno al X secolo[58]. Śiva è adorato nella forma di Śadaśiva, Śiva l'eterno, il Signore (pati) che emana l'universo, lo conserva, lo riassorbe, si cela e si rivela per mezzo della grazia.[59] Lo Śaivasiddhānta è dualista: da un lato le singole anime (paśu) sono eternamente distinte dal Signore (causa efficiente); dall'altro il mondo, nel quale agisce la māyā (causa materiale), è distinto da Lui. Quindi Dio ha creato il mondo e le anime, ma ne resta sempre separato; l'unico contatto fra le anime e Dio si ha nella grazia divina. La māyā non è una divinità, ma soltanto un'energia che non è dotata della coscienza di sé. Strumento principale per la liberazione è il rito: i seguaci dello Śaivasiddhānta sono iper-ritualisti e presentano una devozione emozionale (bhakti) molto accentuata. Essendo una dottrina dualista, la liberazione dal ciclo delle rinascite non implica alcun ricongiungimento dell'anima col Signore, ma soltanto un'assimilazione della Sua essenza.[60] Il cammino per la liberazione è aperto a tutte le classi sociali, ma inaccessibile alle donne, le quali possono soltanto beneficiare del percorso del proprio consorte.[61]
Nātha costituiscono un'importante tradizione śaiva, evolutasi poi nel tempo e oggi rappresentata dai Kānpaṭha. È ai Nātha che si deve, nel IX secolo d. C. circa[62], l'introduzione nel mondo tantrico dello Haṭhayoga, sistema Yoga che contempla numerose posture (āsana), anche difficili, pratiche di purificazione del corpo e tecniche di meditazione complesse. La dottrina è non-dualista: tramite i metodi dello Haṭhayoga ci si può ricongiungere con Dio, Śiva, che è attivo nel mondo con la sua śakti, non venerata quindi come dea ma visualizzata come sessualmente unita a Śiva.[63]
Una delle più antiche sette śaiva è quella dei Kāpālika ("portatori di teschio"), i cui seguaci erano asceti distinguibili per il fatto di portare con sé un cranio umano aperto che usavano come scodella per il cibo. Da costoro e da altri culti trasgressivi e visionari che prediligevano divinità terrifiche, sorse, intorno al II secolo d. C., la sette dei Pāśupata[64] e successivamente quella dei Lākula. Da questi ebbe quindi origine un nucleo di culti che va sotto il nome di Kula.[65]

Una riproduzione schematica del triśūlābjmaṇḍala, il mandala del tridente e dei loti, adoperato in uno dei culti visionari della scuola del Trika. Le tre dee del Trika sono immaginate sui rebbi del tridente, che quindi l'adepto visualizza nel proprio corpo ripercorrendo tutti e 36 i principi costitutivi della manifestazione cosmica, dalla terra a Śadaśiva, steso immobile sotto i rebbi in corrispondenza della sommità del suo capo, e oltre, fino alle tre dee supreme, Parāparā, Parā, Aparā, il divino assoluto.
Del Kula originario, come delle altre sette, non si sa molto. Questo nucleo evolse[66] dando luogo a quattro tradizioni, ciascuna coi propri Tantra e ciascuna col proprio pantheon, ma con le medesime concezioni metafisiche: sono non dualisti; e con un complesso di riti e pratiche yogiche somiglianti. Sono tradizioni śākta, essendo la divinità principale una Dea, personificazione della "energia divina" di Śiva. Śiva conserva pur sempre una supremazia, che però è più di ordine metafisico che devozionale, e la Dea è adorata sotto numerossissime forme, restando però una[67] e sovrana.[68]
Le quattro tradizioni sono[69]:
  • Pūrva-āmnāya ("tradizione orientale")
È l'erede del Kaula originale, col dio Kuleśvara e la dea Kuleśvarī, le otto madri Bramī, Kālī, eccetera. Questa tradizione è poi evoluta nella scuola del Trika. Il termine trika sta per "triade", e si riferisce al fatto che la dottrina che espone prevede un insieme di triadi. Per esempio Parā (la Suprema), Aparā (la Non-suprema), Parāparā (la Suprema-non suprema) sono le tre dee del pantheon, essenzialmente entità metafisiche. Il culto è rivolto invece alla dea Kālī. Dopo un'interruzione durata secoli, la scuola del Trika è stata ripresa[70] nel XX secolo da Swami Lakshman Joo (1907 – 1991).
  • Uttara-āmnāya ("tradizione settentrionale")
È la tradizione che ha dato poi luogo alla scuola denominata Krama, con le diverse forme di Kālī quali dee al centro dei culti. Il Krama è caratterizzato da un sistema pentadico e il termine sta per "successione", con riferimento al percorso spirituale che la coscienza deve seguire per la liberazione.
  • Paścima-āmnāya ("tradizione occidentale")
È detta anche Kubjikāmata[71], dal nome della divinità principale, la dea gibbuta Kubjikā, il cui culto è ancora vivo nel Nepal.
  • Dakṣiṇa-āmnāya ("tradizione meridionale")
È detta anche Śrīvidyā, e gli dèi principali sono quelli dell'eros: Kāmeśvara e Kāmeśvarī, col culto della dea Tripurasundarī (dea benigna, identificata anche con Lalitā nelle versioni vedantizzate), e di Bhairava.
Il Trika e il Krama non sono tradizioni nel senso stretto del termine, ma scuole esegetiche sviluppatesi come eredi delle rispettive tradizioni. Queste due scuole insieme a quelle dello Spanda e del Pratyabhijñā, costituiscono le quattro scuole dello Śivaismo tantrico non dualista, fiorito nel Kashmir tra la fine del I millennio e l'inizio del successivo.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Shivaismo kashmiro.
I culti delle quattro tradizioni del Kula sono culti trasgressivi e visionari, e in questo si differenziano molto da altre tradizioni. Trasgressivi sia per l'uso di sostanze e cibi ritenuti impuri dall'ortodossia brahmanica; sia per l'adozione di pratiche proibite, quali l'unione sessuale ritualizzata (tranne che nella tradizione del Dakṣiṇa-āmnāya, la più moderata fra le quattro). I culti visionari prevedono pratiche di meditazione complesse, sia su yantra, sia sulle icone adibite al culto e all'adorazione, la pūjā.[72]
Liṅgāyat, sono una setta fondata da Basava nel XII secolo e tuttora attiva soprattutto nel Karnataka, avendo ereditato in qualche modo le tradizioni delle sette śaiva originarie. Più che essere dediti all'ascetismo, gli adepti preferiscono la via della devozione, e unico oggetto del loro culto è il liṅgā, il "segno" di Śiva, portato anche come pendente al collo (da cui il nome). Sono caratteristici anche per il fatto di non praticare la cremazione, ma la sepoltura.[73]
Eredi attuali delle prime sette śaiva sono gli Aghora[74] ("non terrifico"), movimento diffuso soprattutto a Varanasi. Questi asceti mangiano in teschi umani, meditano nei campi di cremazione e utilizzano le secrezioni del corpo come offerta agli dèi.[75] Almeno fino alla fine del XIX secolo erano dediti al cannibalismo.[76]

Le pratiche

(SA)
« nādevo devam arcayet »
(IT)
« Non si può venerare un dio se non si è un dio. »
(Massima tantrica, citato in Mircea Eliade, Lo YogaOp. cit., p. 200)
Il tantrismo, nel fine che persegue in quanto insieme di dottrine, non si differenzia dagli altri movimenti religiosi hindu: è anch'esso una via per la liberazione (mokṣa) dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), dalle sofferenza che l'essere in vita comporta. L'uomo vive in universo che è emanato e continuamente animato da Dio[77], il quale Dio può manifestare la sua potenza sia sotto forma di oscuramento (tirodhāna), essere cioè di ostacolo alla salvezza, sia concedendo la grazia (anugraha) nel mostrare le vie per la liberazione.[78]
Fra l'umano e il divino sussiste un isomorfismo per cui il corpo risulta permeato di forze sovrannaturali. Il corpo assume, nelle tradizioni tantriche, un'importanza nucleare[79] proprio per questa compenetrazione fra umano e divino, fra corpo e universo. La concezione non è certo nuova: già nei Veda è possibile rintracciare l'idea del corpo umano come microcosmo, e del macrocosmo come corpo; ma è proprio nel tantrismo che quest'aspetto si presenta come dato assolutamente caratteristico, e quasi ogni aspetto del mondo tantrico è inquadrabile in relazione al corpo.[80] Così recita una Upaniṣad dello Yoga:
« Nel corpo dell'adepto, / l'elemento Terra è situato / tra i piedi e le ginocchia; / la Terra è un quadrato / di colore giallo / e il suo mantra è LAM. / Là risiede Brahmā, / con quattro braccia, quattro volti, / splendenti come l'oro. »
(Yogatattva Upaniṣad, 86 e segg.; citato in Jean Varenne, 2008)
Per quanto concerne il sistema in sé, la via tantrica, più che essere una dottrina coerente, è un insieme di pratiche e ideologie, caratterizzato da una grande importanza dei rituali, da pratiche per la manipolazione dell'energia (śakti), con azioni talvolta considerate "trasgressive", dall'uso del mondano per accedere al sopramondano e dall'identificazione del microcosmo con il macrocosmo.[81]
Tale correlazione consentirebbe al tāntrika (l'adepto dei Tantra) di poter accedere, mediante delle precise tecniche, all'energia cosmica presente nel proprio corpo e quindi raggiungere la liberazione con questo corpo e in questa vita (jīvanmukti).
Il tāntrika cerca di utilizzare il potere divino che scorre in tutte le manifestazioni universali al fine di ottenere i propri risultati, siano essi spirituali, materiali o entrambi.[82]
tāntrika considerano la guida di un guru un prerequisito indispensabile[83]. Nel processo di manipolazione dell'energia il praticante ha diversi strumenti a disposizione: tra questi lo Yoga, con pratiche anche estreme che portano a un controllo pressoché completo del proprio corpo; la visualizzazione e verbalizzazione della divinità attraverso i mantra, e la meditazione su di essi; l'identificazione e internalizzazione del divino, con pratiche meditative tendenti a una totale immedesimazione con una divinità[84].
Secondo la visione del mondo hindu, l'evoluzione del mondo è ciclica, e all'interno di ogni ciclo (detto kalpa) sussistono ere (dette yuga) nelle quali la storia principia da un'età dell'oro (Satya Yuga) per giungere ad ere cosmiche di progressivo declino spirituale. L'ultima era, detta Kali Yuga (quella in cui attualmente viviamo), è caratterizzata da ignoranza spirituale, diffusione di falsi dèi o ateismo, commistione delle caste, guerre e sovvertimento dei valori del dharma.
Gli adepti del Tantra ritengono che i Veda e la tradizione brahmanica non siano più adeguate in questa nostra era: l'uomo ha perso la capacità spirituale di servirsi di quella tradizione per conseguire la liberazione. Né il rito vedico, né l'introspezione avviata nell'epoca delle Upaniṣad e nemmeno i metodi dello Yoga classico sono ritenuti sufficienti a questo scopo. In alcune tradizioni tantriche è possibile persino ravvisare un disprezzo per gli asceti: nel Kulārṇava Tantra si ironizza sul fatto che questi girino nudi come gli animali, ma non per questo, come gli animali, raggiungono la liberazione.[85] Nel Guhyasamāja Tantra si può leggere:
« Nessuno riesce a ottenere la perfezione mediante operazioni difficili e noiose; ma la perfezione si può acquistare facilmente mediante la soddisfazione di tutti i desideri »
(Guhyasamāja Tantra; citato in Mircea Eliade, Lo yogaOp. cit., p. 197)
Il tantrismo ritiene che sia possibile raggiungere l'illuminazione anche nelle peggiori condizioni morali e sociali: l'età oscura in cui siamo immersi presenta innumerevoli ostacoli, che rendono difficile la maturazione spirituale. Per questo sono necessarie misure drastiche come, appunto, il metodo tantrico.[85]

Il guru

Il guru, specie nelle tradizioni tantriche, è ben più che un maestro spirituale. Egli non si limita ad impartire la dottrina al discepolo (śiṣya) come un ordinario maestro potrebbe fare, per quanto accorato e devoto: il guru è come un dio (gurudeva) che grazie alla propria potenza spirituale (śakti) "trasmette" al discepolo la dottrina e gli oggetti della tradizione. Per esempio, un mantra non può essere appreso semplicemente ascoltandolo (né tantomeno apprendendolo da un testo): deve e può solo essere passato dal guru al discepolo (guru śiṣya paramparā). Fra i due si stabilisce una relazione intima che ha i caratteri della riservatezza, della devozione e dell'obbedienza.[86]
Va detto che questo stato di cose, questo lignaggio iniziatico, non è esclusivo del tantrismo, bensì comune a tutte le scuole hindu. Nelle tradizioni tantriche alcuni caratteri risultano però ben marcati: la segretezza e la devozione. Come si è accennato, il guru è considerato manifestazione divina, a lui si deve non soltanto obbedienza ma anche devozione nel senso stretto del termine. Per esempio, la gurupādukā, l'impronta dei piedi del guru, va vista come il segno della presenza divina, e come tale adorata e omaggiata.[87]
Nelle tradizioni del Kaula ("famiglia", intesa come insieme di comunità che condividono la medesima tradizione), il rito di iniziazione (dīkṣā) del discepolo alla comunità (cakra; "cerchio", nel senso di "circolo", "setta") è una cerimonia piuttosto complessa. Il guru, quando ritiene essere giunto il momento, comunica al discepolo la decisione di introdurlo nella setta. Viene quindi organizzata una cerimonia con gli altri membri del cakra. Questa comincia con la recitazione di mantra e offerte alla Dea, quindi prosegue con la richiesta ritualizzata del guru al Signore del Cerchio (cakreśvara). Il discepolo viene interrogato e preparato, mentre prosegue l'adorazione alla Dea. L'iniziazione propriamente detta ha luogo con il posizionamento del discepolo su un maṇḍala appositamente tracciato sul suolo; un'aspersione; la trasmissione di un mantra personalizzato; l'imposizione di un nome nuovo; quindi l'iniziato offre doni agli astanti. La cerimonia prosegue con riti che includono il pasto e l'unione sessuale (maithuna).[88]
L'iniziato, il tantrikā, continuerà la sua via verso la realizzazione spirituale (sādhana) e un giorno potrà diventare guru egli stesso. Toccherà quindi a lui perpetuare (saṃpradāya) la dottrina, in quella che è una successione di maestri (guru paramparā) che così tramandano la disciplina.

Il corpo yogico e la kuṇḍalinī


Il corpo yogico in una illustrazione da un manoscritto del XIX secolo, India. Sono ben visibili sette cakra, raffigurati come fiori di loto (padma), e nel cakra più in alto, Śiva.
L'individuo è immaginato possedere una struttura complessa che convive col corpo fisico: è questo il "corpo yogico"[89]. Tale corpo yogico è costituito di canali (nāḍī) e centri (cakra o padma)[90], e in esso gioca un ruolo determinante una potenza non umana bensì divina, la kuṇḍalinī. Lungo uno dei canali principali, la suṣumnā, quello che verticalmente collega la regione perineale con la sommità del capo, la kuṇḍalinī, che normalmente si trova allo stato latente alla base del canale stesso, può risalire, con pratiche adeguate, verso l'alto conducendo così alla liberazione.[91]
Il filosofo Kṣemarāja (X-XI secolo), discepolo di Abhinavagupta ed esponente della scuola del Trika[92], nel commentare un passo degli Śivasūtra, così descrive la kuṇḍalinī quiescente:
« L'energia sottile e suprema è addormentata, attorcigliata come un serpente; essa racchiude in sé il bindu, e insieme l'universo intero, il sole, luna, astri e mondi. Ma essa è incosciente, come obnubilata da un veleno. »
(Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a II, 3; citato in Lilian Silburn, La kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 76)
Bindu è il seme maschile, la scintilla che può risvegliare la kuṇḍalinī. In questo caso bindu è anche simbolo di Śiva in quanto Coscienza.[93]
Il corpo yogico, fondamentale in quasi tutte le pratiche meditative e rituali, è ovviamente immateriale, è una struttura somatica inaccessibile ai sensi che l'adepto crea immaginandola, visualizzandola. Del resto molti culti tantrici sono culti visionari.
Va qui detto esplicitamente che lo Yoga cui il Tantra fa riferimento non è né il Kriyā Yoga né l'Aṣṭāṅga Yoga presentato da Patañjali nel suo basilare Yoga Sūtra (lo Yoga classico cioè), ma lo Haṭhayoga. Altrettanto esplicitamente va fatto notare che qui non si parla dello Haṭhayoga moderno (occidentale e indiano), invero versione reinterpretata di elementi tradizionali, ma dello Haṭhayoga che risulta dai testi classici, come la Gheraṇḍa Saṃhitā, la Haṭhayogapradīpkā o la Śiva Saṃhitā. Proprio per evitare questa confusione, molti autori preferiscono servirsi del termine "Kuṇḍalinī Yoga".[94]
Secondo una interpretazione classica, il termine haṭhayoga vuol dire letteralmente: unione (yoga) del Sole (ha) e della Luna (ṭha); e questa lettura risponde in pieno alle dottrine tantriche, per le quali la liberazione è il ricongiungimento della śakti, presente nell'individuo come kuṇḍalinī, con l'assoluto, Śiva, immaginato risiedere nell'ultimo cakra.[95] È da notare che in questo simbolismo, Śiva è rappresentato dalla Luna: nell'iconografia classica del Dio, bianco è il colore della sua pelle, bianco come il crescente di Luna che porta fra i capelli, bianco come il colore dello sperma, e sia per "Luna" sia per "sperma" è anche utilizzato il termine soma, il succo sacrificale, e il Dio di cui si parla nei Veda.[96]
Molte sono le tecniche che consentono il risveglio della kuṇḍalinī e la sua risalita lungo la suṣumnā[97]. Ne fa una dettagliata esposizione Abhinavagupta nel suo Tantrāloka, vasto trattato sul mondo del tantra ai suoi tempi (X secolo circa). Ecco come il filosofo descrive la risalita dell'energia:
« Quando non emette, la kuṇḍalinī assume la forma di pura energia quiescente (śaktikuṇḍalinī). In seguito diventa energia vitale o del soffio (prāṇakuṇḍalinī). Anche giunta al punto estremo dell'emissione, essa rimane la kuṇḍalinī suprema, chiamata brahman supremo, firmamento di Śiva e sede del Sé. I movimenti alterni di emanazione e riassorbimento non sono che l'emissione del Signore. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka 138-41ab; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 46)
Nella interpretazione dello shivaismo tantrico non dualista, commenta l'indologa Lilian Silburn, Śiva, Essere Supremo, è il soggetto conoscente, l'oggetto conosciuto e la conoscenza stessa, e quindi l'emissione e l'assorbimento della kuṇḍalinī restano emissioni di Śiva.
In un testo precedente (IX secolo circa), il Vijñānabhairava Tantra[98] ("Conoscenza del Tremendo"[99]), è presentato concisamente un compendio di tecniche yogiche; qui un esempio di uso del controllo della respirazione per il risveglio della kuṇḍalinī:
« Il soffio ascendente esce, il soffio discendente entra, di sua propria volontà, in forma sinuosa. La Grande Dea si estende dappertutto Suprema-Infima, supremo luogo sacro. »
(Vijñanabhairava, 152, a cura di Attilia Sironi, introduzione di Raniero Gnoli, Adelphi, 2002)
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: kuṇḍalinī.

Evoluzione e involuzione

Secondo Swami Nikhilananda, esponente dell'Advaita Vedānta, nelle dottrine tantriche il Satchitananda[100] ha insieme sia il potere dell'auto-evoluzione che quello dell'auto-involuzione. La Realtà fisica (prakṛti) si evolve in una molteplicità di cose ed esseri viventi, eppure al tempo stesso resta pura coscienza, essere e beatitudine; in questo processo di evoluzione, Māyā ("illusione") nasconde la realtà e la separa in coppie di opposti, come conscio e inconscio, piacevole e spiacevole, e così via. Queste condizioni limitano o restringono l'individuo (jīva) e trasformano la sua percezione in quella di un animale.[101]
In questo mondo relativo, Śiva e Śakti sembrano separati; nel Tantra, però, anche durante l'evoluzione, la Realtà resta identica, sebbene il Tantra non neghi né l'atto né il fatto di questa evoluzione. Di fatto, il Tantra afferma che sia il processo di evoluzione universale sia quello individuale sono Realtà, prendendo le distanze sia dal puro dualismo sia dal non-dualismo del Vedānta.[101]
Comunque, l'evoluzione o "corrente di uscita" è solo una delle funzioni di Māyā; l'involuzione, o "corrente di ritorno", riporta il jiva alla sorgente o radice della Realtà, rivelando l'infinito. Si dice che il Tantra insegni il metodo per cambiare il verso della corrente, da quella di uscita a quella di ritorno. Questa idea è alla base di due proverbi tantrici: "ci si deve rialzare con quello che ci fa cadere" e "lo stesso veleno che uccide diventa l'elisir della vita se usato dal saggio".[101]

Pratiche tantriche

Per il tantrikā il mondo è permeato di potenze divine, energie che è possibile manipolare con la corretta esecuzione dei rituali. Il rito tantrico è spesso molto articolato, e implica non soltanto la gestualità e l'oralità, ma anche la visualizzazione interiore. Il coinvolgimento del corpo può essere tale da alterare lo stato di coscienza dell'officiante: non è intatti infrequente assistere a fenomeni di possessione (āveśa).[102]
La pratica di culto più comune è la pūjā, l'omaggio a una divinità. Il rituale è sostanzialmente diviso in due parti: la purificazione e divinizzazione del corpo dell'officiante ("culto interiore"); l'omaggio vero e proprio ("culto esteriore"). La prima parte consiste nel rendere il corpo dell'officiante degno di poter eseguire l'omaggio, e prevede pratiche di purificazione con lavacri e mantra, seguito da pratiche di visualizzazione. La seconda parte continua con mantra e pratiche di visualizzazione accompagnate, con variazioni a seconda della divinità, dal rito di adorazione.[103]
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Pūjā.
Esistono poi i riti di iniziazione (dīkṣā), il cui fine è la trasformazione spirituale dell'iniziante, il suo cambiamento di stato ontologico: riti di affiliazione alla setta tantrica; riti di passaggio; riti periodici o di occasione (nainmittika); riti funerari; riti per l'acquisizione di poteri; l'iniziazione a guru (ācārya); l'iniziazione a figlio spirituale (putraka), eccetera.[104]
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Dīkṣā.
Elementi pressoché comuni dei riti sono i maṇḍala e i mantra.

Maṇḍala e yantra


Un disegno non tradizionale dello śrīcakra, noto anche come Śrī Yantra, utilizzato nella tradizione dello Śrīvidyā. Questo yantra rappresenta l'attività cosmica della dea Tripurasundrī, la Bella dei tre mondi: vi si possono distinguere una fascia esterna di forma quadrata con quattro accessi sul mondo; due fasce centrali disegnate rispettivamente con sedici e otto petali; una parte interna fatta di quattro triangoli con la punta verso l'alto e cinque con la punta verso il basso, che si intersecano a formare complessivamente 43 triangoli; un punto centrale, il bindu, ove si visualizza la Dea stessa.
Il termine maṇḍala vuol dire letteralmente "cerchio", nel senso di "ciò che circonda"[105], ed è qui utilizzato per indicare un elemento caratteristico della liturgia tantrica. Esteriormente si presenta come un disegno, o un'incisione, a volte molto complesso, altre volutamente schematico, che basandosi su simmetrie e figure geometriche quali il cerchio, il quadrato e il triangolo, spesso inserisce motivi grafici anche molto elaborati.[106] I maṇḍala non sono affatto una prerogativa del tantrismo, se ne ritrovano infatti anche in altre culture e religioni, e non è tanto nel tantrismo hindu quanto in quello buddhista che i maṇḍala diventano opere vere e proprie, manufatti che richiedono anche mesi per poter essere realizzati.
Nel tantrismo hindu è più spesso utilizzato un tipo di maṇḍala più semplice, lo yantra (letteralmente "strumento", ma anche "amuleto")[107], volutamente schematico per poter essere disegnato o inciso con faciltà.
Per i tantrikā il maṇḍala è un'immagine del cosmo e una teofania. In quanto imago mundi possiede un centro, detto bindu, e una geografia costituita di elementi simbolici. In quanto teofania lo yantra è dunque anche oggetto sacro oltre che simbolico, e non assurge soltanto a "dimora" (temporanea) della divinità, ma diventa anche espressione dei significati metafisici di cui la divinità è portatrice.
Il maṇḍala, o lo yantra, è utilizzato in diversi modi: può essere tracciato sul suolo, per lo svolgimento di alcune cerimonie che ne prevedono l'uso (come le iniziazioni); può essere disegnato o dipinto su stoffa o inciso su pelle o metallo, per realizzare uno strumento di meditazione o anche di adorazione di una divinità (spesso la Dea) che vi viene fatta temporaneamente discendere.[108] Esistono, inoltre, anche yantra tridimensionali. Così un testo della scuola Kaula:
« La differenza fra lo yantra e la divinità che esso simboleggia è simile alla differenza tra un corpo e l'anima che lo abita. »
(Kaulāvalīam; citato in Alain Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 396)
Nelle cerimonie di iniziazione il maṇḍala tracciato sul suolo prevede una fascia esterna dal doppio significato: impedire l'accesso ai non iniziati e "bruciare" l'ignoranza che impedisce la conoscenza metafisica. All'interno di questa fascia ve ne è un'altra che simboleggia l'illuminazione, nella cui area sono rappresentate gli aspetti della conoscenza, spesso rappresentati da divinità terrifiche. Segue un'ulteriore fascia che simboleggia la rinascita spirituale, nel cui centro si trova il maṇḍala propriamente detto, sede di una o più divinità.[109]
Un'altra applicazione dello yantra la si ritrova nella costruzione dei templi: la pianta di questi infatti è un vero e proprio yantra, e di più, la struttura e le proporzione del tempio stesso non sono opera di architetti, ma sono dettate dai testi sacri, dai Tantra.[110]

Mantra

mantra, che esistono sin dall'epoca vedica, rivestono nelle tradizioni tantriche un'importanza particolare, e per la loro onnipresenza nel rituale, e per il loro senso profondo. Mentre nel brahmanesimo il mantra è l'inno invocato nelle oblazioni o la formula rituale, nel contesto tantrico il mantra si arricchisce di altri significati, divenendo spesso un enunciato privo di senso apparente, denso di "energia", adoperato anche per scopi magici oltre che religiosi.[111]
Spesso, ma non sempre, un mantra è inteso come la forma fonica di una divinità, e quando così, è ritenuto sacro. Ad esempio, il mantra della dea Tripurasundarī è:
« HA SA KA LA HRĪṂ, HA SA KA HA LA HRĪṂ, SA KA LA HRĪṂ »
Esso è costituito di quindici sillabe ordinate in tre gruppi. Queste sillabe sono poi a loro volta mantra, mantra monosillabici detti bīja ("seme"), ognuno portatore di un particolare significato o essi stessi forma fonica di una divinità, e possono essere raggruppate per costruire così mantra più complessi, come quello riportato nell'esempio.[112]
Il bīja SAUḤ è, per esempio, il mantra della Dea suprema del Trika, composto dai tre fonemi S ("l'Essere"), AU ("la congiunzione delle tre energie di Śiva"),  ("l'emissione cosmica", il visarga). L'interpretazione è del filosofo Abhinavagupta: "L'universo, grazie alla presa di coscienza delle tre energie, è seme che sta per essere emesso nel grembo di Bhairava[113]". SAUḤ è quindi l'universo nel suo stato nascente: in questo senso il mantra è anche noto come «il seme del cuore di Śiva». Esso è adoperato nelle pratiche yogiche per l'ascesa della kuṇḍalinī[114], e così André Padoux commenta:
« Ne consegue un'esperienza cosmica di salvezza nella quale si combinano, in modo decisamente tantrico, identificazione vissuta con la parola nella sua potenza corporea e cosmica e apprensione intellettuale, se non di una realtà, per lo meno di una costruzione metafisica. »
(André Padoux, 2011, p. 146)
Il bīja di certo più noto è Oṃ, che può essere impiegato da solo, come espressione fonica dell'Assoluto, o adoperato come formula iniziale dei mantra di invocazione, come ad esempio nell'invocazione alla Dea KālīOṃ Kalyai namaḥ.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Oṃ.
La recitazione ripetitiva di uno stesso mantra è detta japa, pratica spesso accompagnata da una precisa gestualità anch'essa densa di significati, le mudrā, e adoperata in molti contesti, quali la pūjā; i riti collettivi; o anche come ordinario atto di devozione a una particolare divinità; oppure, connessa alla respirazione, nelle pratiche meditative.[115] L'esempio più eclatante di tecnica meditativa con mantra è quello della cosiddetta "recitazione non recitata" (ajapājapa), nella quale il mantra HAṂSA non è in realtà pronunciato, ma articolato con i flussi dell'inspirazione e dell'espirazione. Questo mantra è costituito dai bīja HA e SA che vengono qui intesi come l'espressione delle frasi ahaṃ saḥ ("io sono Lui") e, in senso inverso, so 'haṃ ("Egli è me", con riferimento a Śiva): la funzione fisiologica della respirazione è qui strettamente connessa con la parola, il tutto inteso come un'espressione complessa dell'identificazione con Dio.[116]

Immagine correlata

Riti sessuali


La coppia divina di Kṛṣṇa e Rādhā, acquarello del XVII secolo. L'amore del dio con Rādhā, la sua preferita fra le pastorelle, è stato ed è tuttora soggetto d'ispirazione per una vasta letteratura religiosa, spesso dai risvolti decisamente erotici.
I riti sessuali potrebbero essere emersi agli inizi del Tantra induista anche come un metodo pratico di generare fluidi corporei trasformativi per costituire un'offerta vitale alle divinità tantriche, oppure essersi evolute da cerimonie di iniziazione dei clan che comprendevano la transazione di fluidi sessuali.[117]
Nelle tradizioni del Kaula, per esempio, l'iniziato di sesso maschile era inseminato o insanguinato con le emissioni sessuali della consorte femmina, talvolta frammiste al seme di un guru, ed era così trasformato in figlio del clan (kulaputra) per grazia della consorte; si pensava infatti che il fluido del clan (kuladravya) o nettare del clan (kulāmṛita) scorresse naturalmente dalla sua pancia. Sviluppi successivi del rito enfatizzavano l'importanza della beatitudine e dell'unione divina, che sostituirono le connotazioni più corporee delle forme più antiche. Sebbene in Occidente il Tantra sia pensato come coincidente con i riti sessuali, solo una minoranza di sette vi fa ricorso, e nel tempo per lo più questi riti hanno subito un processo di sublimazione.[117]
Non si ritrovano riti sessuali nelle tradizioni viṣṇuite del Pāñcarātra, per esempio, né nello Śaivasiddhānta, corrente religiosa śaiva (dualista e dualista/non-dualista).[118] È però possibile affermare che tratto comune di tutte le tradizioni tantriche è la piena accettazione della varietà del mondo, del piacere in generale e del desiderio sessuale o amoroso (kāma) in particolare. Del resto in India il sesso non è certo un'attività peccaminosa, anche se il perseguire il piacere, l'esserne in qualche modo dipendente cioè, continua a legare l'individuo al mondo ostacolando la liberazione.[118] Questo contrasto fra il sesso e il fine spirituale delle liberazione è risolto, in alcune tradizioni tantriche, guardando all'eros come la via maestra per accedere al divino, eros qui inteso come principio presente in diverse forme, non solo nei riti e nelle pratiche, ma anche nelle speculazioni metafisiche, nella teologia, nella mitologia, nei pantheon e nello yoga.[119]
Una caratteristica comune ai pantheon tantrici è la coppia (yamala): ogni dio è compagno di una dea, per esempio Śiva con Pārvatī, o anche con Durgā o UmāViṣṇu con LakṣmīBhairava con TripurasundarīKṛṣṇa con Rādhā; eccetera. Anche nelle tradizioni śākta, dove è la Dea a essere considerata Essere Supremo (per esempio Kālī o Kubjikā), pur se meno appariscente, è presente la divinità maschile, quasi sempre Śiva.[120]

Una rappresentazione moderna di Śiva e Pārvatī, Bangalore, India
La coppia divina è in realtà, specie nelle dottrine moniste del Kashimir, intesa come l'unica divinità suprema, vista nei due aspetti trascendente (il maschile) e immanente (il femminile). La Śakti, il polo femminile, altro non è se non la potenza del Dio[121], il suo aspetto immanente, la forza vivificante che opera nel mondo.[120] Śakti è presente nell'essere umano come kuṇḍalinī, energia quiescente, che l'individuo può risvegliare e utilizzare per fini spirituali. Śakti è presente in ogni donna, nel senso che ogni donna è ritenuta rappresentare e possedere naturalmente l'energia divina. Da ciò deriva il posto in un certo senso privilegiato che la donna occupa nelle tradizioni tantriche, cosa che non è possibile riscontrare nel brahmanesimo. Di più, secondo la tradizione vaiṣṇava del Sahajiyā (tuttora seguita nel Bengala presso i Bāul), e l'uomo e la donna sono ritenuti rappresentazioni concrete della coppia divina, in questo caso Kṛṣṇa e Rādhā, e l'unione sessuale ritualizzata è mezzo per il raggiungimento del samādhi.[122]
La kuṇḍalinī, forma concreta della Śakti, si trova normalmente inattiva nell'individuo, arrotolata (è questo il significato letterale del termine) nella zona perineale del corpo yogico. Secondo le dottrine yogiche del Tantra, questa kuṇḍalinī ha come meta suprema, proprio in quanto Śakti, il ricongiungimento con la controparte maschile, Śiva: è la riunione del maschile e del femminile, il ripristino dell'androginità originaria, la realizzazione nel microscosmo umano dell'Essere Supremo. Nei testi che spiegano le tecniche yogiche per la risalita della kuṇḍalinī, il linguaggio adoperato è ricco di metafore sessuali.[123]

Risultati immagini per tantra hindu

Così si esprime Abhinavagupta a proposito dell'unione:
« La fusione, quella della coppia Śiva e Śakti, è l'energia della felicità, da cui emana tutto l'universo: realtà al di là del supremo e del non-supremo, essa è chiamata Dea, essenza e Cuore [glorioso]: è l'emissione, il Signore Supremo. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka III, 68-69; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l'energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 45)
Jayaratha, aggiunge la Silburn, nel suo commento a questo passo[124] parla di unione della kuṇḍalinī con Śiva come sfregamento che dà reciproco godimento.
Una cerimonia tuttora in vigore nel Nepal e nel Bengala, la kumārī-pūjā ("adorazione della ragazza"), testimonia il rapporto fra la donna e la śakti. Una fanciulla vergine di circa dodici anni viene fatta sedere su un trono e tramite una funzione complessa, la ragazza viene deificata divenendo così temporaneamente personificazione della Dea stessa, e in quanto tale adorata.[125]
Il cakra-pūjā è una cerimonia religiosa di gruppo: cakra ("cerchio") indica qui il circolo di cui fanno parte i membri di una comunità tantrica. Il rito avviene di notte: attorno a un trono dedicato alla Dea, gli officianti maschi si dispongono a ferro di cavallo. Il Signore del Cerchio assegna a ogni uomo una donna (a sorte o seguendo un piano solo a lui noto), che andrà a sedersi alla sinistra del compagno. Il rito prosegue con offerte alla Dea, recitazione di mantra e meditazioni secondo un rituale complicato, al termine del quale ogni coppia si apparta.[126]
Un rito molto esplicito è la yoni-pūjā ("adorazione della vagina"). Il rito fa parte di una tradizione vaiṣṇava ed è descritto nello Yoni Tantra. Una donna, opportunamente preparata e ornata, è collocata prima su un maṇḍala e poi fatta accomodare sulla coscia sinistra dello yogin che officia il rito. Costui procede con la cerimonia facendole bere del vino, recitando mantra e massaggiandole la vagina con pasta di sandalo, quindi si unisce a lei. Le secrezioni dell'eiaculazione sono poi offerte come oblazione alla Dea. Diversi altri testi prescrivono l'unione sessuale rituale, talune molto particolari, come quella che si pratica di notte su cadaveri.[127]
L'unione sessuale e l'uso del vino per fini rituali sono pratiche ritenute non ortodosse nel brahmanesimo, anzi proibite; e proibito al brahmano è in ogni caso il consumo di bevande alcooliche, di carne e pesce, stante al Manusmṛti (la "Legge di Manu"), testo fondamentale del codice e dell'etica hindu. Nelle tradizioni tantriche cosiddette della "mano sinistra" (vāmācāra) sono invece trasgredite proprio queste raccomandazioni, e la questione è nota come le pratica delle «cinque emme»: maithuna (unione sessuale), māṃsā (carne), madya (vino), matsya (pesce), mudrā (cereali arrostiti).[128]
E a proposito del maithuna, questo Tantra della tradizione Kaula (XII secolo circa) sottolinea il significato spirituale dell'amplesso:
« Per chi non sa questo, la propria consorte a cui deve unirsi giace incosciente, ma così conosce, sa che essa è la consorte interiore, ben desta, la shakti con cui compiere la propria unione. L'effluvio di beatitudine che è prodotto dall'amplesso della coppia divina del Supremo Shiva e la Suprema Dea, questo è l'unico e vero significato dell'unione sessuale. Chi in altro modo si unisce a una donna, non è altro che un animale che copula. »
(Kulārṇava Tantra, V, 111-112; citato in Cattive tradizioni. Estratti dalla via della mano sinistra, a cura di Fabio Zanello, Coniglio editore, Roma, 2008)
Quando eseguito in accordo al Tantra il rituale sessuale culmina in una sublime esperienza di infinita consapevolezza, per entrambi i partecipanti. I Tantra specificano che il sesso ha tre finalità ben distinte - procreazione, piacere e liberazione. Coloro che cercano la liberazione evitano l'orgasmo frizionale per una forma più alta di estasi, e la coppia che prende parte al rituale si immobilizza in un abbraccio statico; diversi rituali sessuali sono raccomandati e praticati, comprendendo riti purificatori e preparatori elaborati e meticolosi. L'atto risulta in un equilibrio delle energie che scorrono nell'ida prāṇico nel corpo yogico di entrambi i partecipanti, il suṣumnā si risveglia e la kuṇḍalinī risale dentro di esso. Questo può infine culminare nel samādhi, dove le rispettive individualità di ciascuno sono completamente dissolte nella coscienza cosmica. I praticanti interpretano l'atto su molteplici livelli; i partecipanti maschio e femmina unendosi fisicamente rappresentano il Dio e la Dea, il principio maschile e quello femminile, e al di là del corpo fisico le due energie si fondono generando un unico indistinto.[83].

Visione occidentale del Tantra

In Occidente, i primi orientalisti europei vedevano il Tantra come una forza sovversiva, antisociale, licenziosa e immorale colpevole della corruzione dell'induismo classico; molti oggi lo vedono invece come una celebrazione dell'uguaglianza sociale, della sessualità, del femminismo e della cultura del corpo[129], al punto che se ne è formata una variante occidentale (Neotantra), seppure criticata dai tantristi orientali.

Sir John Woodroffe

Il primo studioso occidentale ad affrontare seriamente lo studio del Tantra fu il magistrato britannico Sir John Woodroffe (1865 – 1936), giudice presso la Corte Suprema del Bengala, che con lo pseudonimo di Arthur Avalon scrisse molti testi sul tema, anche traducendo dal sanscrito. Egli è comunemente considerato il "padre fondatore degli studi tantrici"[130]. A differenza dei suoi predecessori, Woodroffe era apologetico nei confronti del Tantra, difendendolo contro le innumerevoli critiche e presentandolo come un sistema etico-filosofico compatibile con i Veda e i Vedānta[131].

Sviluppi successivi

Dopo Sir John Woodroffe, diversi studiosi cominciarono ad analizzare attivamente gli insegnamenti tantrici, alcuni restando in ambiti accademici, altri allontanandosene. Si ricordano la divulgatrice francese Lilian Silburn (1908 – 1993); lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907 – 1986), uno dei primi a interessarsi dello yoga tantrico; il controverso e reazionario Julius Evola (1898 – 1974), che cercò di coniugare tantrismo e cultura occidentale; l'orentalista e accademico tedesco Heinrich Zimmer (1890 – 1943); Agehananda Bharati (1923 – 1991), nome monastico di Leopold Fischer, professore di antropologia presso la Syracuse University, il quale diede una lettura personale del mondo Tantra imperniata sull'edonismo e la sessualità; Aleister Crowley (1875 – 1947), occultista britannico, che si ispirò allo yoga tantrico per promulgare pratiche di magia sessuale; Omar Garrison, che nel 1964 pubblicò Tantra. The Yoga of Sex, contribuendo alla diffusione dell'idea del sesso come componente fondamentale del fenomeno tantrico e come "salvezza" per l'Occidente.[132][133]
Il padre fondatore della psicologia analiticaCarl Gustav Jung (1875 – 1961), dedicò molti saggi al simbolismo del maṇḍala, considerando l'India come il paese dove i simboli dell'inconscio collettivo si manifestano più chiaramente.[134]
Hugh Urban, Zimmer, Julius Evola, e Eliade vedevano il Tantra come «la culminazione di tutto il pensiero indiano: la forma più radicale di spiritualità e il cuore arcaico dell'India aborigena», e lo consideravano come la religione ideale dell'era moderna. Tutti e tre vedevano il Tantra come «il cammino più "trasgressivo" e "violento" verso il sacro»[135]. Zimmer elogiò il Tantra per il suo atteggiamento affermativo nei confronti del mondo:
« Nel Tantra, l'approccio non è quello del Nay (arcaismo per "No") ma dello Yea (arcaismo per "Sì") [...] l'atteggiamento verso il mondo è affermativo [...] L'uomo vi si deve avvicinare attraverso e per mezzo della natura, non con il rifiuto della natura" »
(Urban, 2003, p. 168)

Tantra nell'Occidente contemporaneo

Dopo queste prime presentazioni del Tantra, altri autori molto popolari come Joseph Campbell contribuirono a importare il Tantra nell'immaginario collettivo contemporaneo; il Tantra cominciò a essere visto come un "culto dell'estasi" che combina spiritualità e sessualità, in modo da agire come una forza correttiva dell'atteggiamento repressivo della cultura occidentale nei confronti del sesso.[136]
La diffusione di una siffatta visione del Tantra avvenne soprattutto negli anni sessanta e in America, in sinergia coi movimenti di liberazione dei costumi, in particolare quelli relativi al sesso e all'uso di sostanze psicotropeAlan Watts (1915 – 1973) fu uno dei più noti esponenti di questa controcultura, tanto da guadagnarsi il titolo di guru psichedelico della Beat Generation, il movimento culturale sorto negli anni cinquanta. Questa versione americanizzata del tantrismo divenne poi un elemento significativo della New Age, movimento degli anni ottanta.[137]
Va menzionato, come divulgatore fra i più recenti, il guru indiano Osho Rajneesh (1931 – 1990), che nel 1981 si trasferì negli Stati Uniti, fondando nello stato dell'Oregon la comune "Rajneeshpuram". Al centro di numerose polemiche e fatti poco chiari, fu espulso e fece ritorno in India, dove proseguì il suo insegnamento fondando un movimento di ispirazione tantrica ("Osho International Meditation Resort"), che vanta numerosi adepti. Osho tenne numerose conferenze esponendo un sincretismo fra valori religiosi orientali e occidentali. Negli Stati Uniti, guidato da Nick Douglas, prosegue tuttora l'insegnamento del guru nell'associazione "New Tantric Order in America".[133]
All'interno della occidentalissima New Age, la visione del Tantra, diventato ormai popolare in Occidente, subì un'ulteriore e significativa trasformazione, dando luoghi a fenomeni come il neotantrismo, corrente invero molto differente dalla tradizione tantrica originale indiana. Per molti lettori occidentali moderni, "Tantra" è diventato un sinonimo di "sesso spirituale" o "sessualità sacra", il concetto che il sesso stesso debba essere santificato in quanto capace di elevare la coppia ad un piano di spiritualità superiore.[136].
Sebbene il Neotantra adotti molti dei termini e dei concetti del Tantra indiano, in esso le tradizionali fondamenta di guruparampara (la trasmissione della dottrina da maestro a maestro) e delle regole di condotta rituale sono state epurate. Il fenomeno è poi molto evidente, per esempio, nelle librerie, ove la gran parte dei testi sul Tantra che si trovano fra gli scaffali sono inequivocabilmente legati al sesso.
Secondo Hugh Urban, la maggior parte degli studiosi occidentali critica il Neotantra: «Almeno dal tempo di Agehananda Bharati, la maggior parte degli studiosi occidentali è stata fortemente critica di queste nuove forme di pop-Tantra o neo-Tantra. Questo "California Tantra" come Georg Feuerstein lo chiama, è "basato su un profondo fraintendimento del cammino tantrico. Il loro errore principale è di confondere la beatitudine tantrica [...] con l'ordinario piacere orgasmico"»[136]. Urban poi chiarisce che personalmente non considera il neo-Tantra "sbagliato" o "falso" ma piuttosto «semplicemente una diversa interpretazione di una specifica situazione storica».[136]
Shambhavi Saraswati, direttrice spirituale dell'organizzazione no profit "Jaya Kula", riporta una descrizione sintetica ma efficace della differenza tra Tantra e Neotantra: «Il neo-Tantra ritualizza il sesso. Il vero Tantra sessualizza il rituale».[138]

Note

  1. ^ Vedi Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary: "loom", "warp": "telaio", "ordito".
  2. ^ Vedi oltre: aspetti definitori del termine.
  3. ^ La datazione dei Tantra non può essere anteriore al 600 CE, e la maggior parte di questi testi fu probabilmente composta a partire dall'VIII secolo. (Flood, 2006, p. 215).
  4. ^ White, 2000, p. 7.
  5. ^ a b c d e f Banerjee, 1988.
  6. ^ Padoux fa notare che, alla luce dei più recenti studi, non risulta affatto dimostrato il culto di divinità femminili a Mohenjodaro o Harappa (Padoux, 2011, p. 30).
  7. ^ Vide Foote, Collection of Indian Pre-historic and Proto-historic Antiquities, Madras, 1916.
  8. ^ Padoux, 2011, pp. 29-32. L'accademico imposta la sua opera (Comprendre le tantrisme, Paris, 2010; Tantra, Torino, 2011) proprio nell'intento di dare dimostrazione di questa ipotesi.
  9. ^ "I testi vedici furono composti e trasmessi oralmente da maestro a discepolo senza l'uso della scrittura, secondo una linea ininterrotta di trasmissione formalizzata. Ciò assicurò una trasmissione testuale impeccabile, superiore ai testi classici appartenenti ad altre culture; questo metodo può essere paragonabile ad una registrazione su nastro effettuata in epoche comprese tra il 1500 ed il 500 a. C. circa. È stato così possibile preservare fino al presente non solo le parole ma anche l'accento tonale da lungo tempo perduto (come nel caso dell'antico greco o giapponese). Da una parte i Veda sono stati trascritti soltanto durante l'inizio del secondo millennio CE, se alcune sezioni come una collezione delle Upaniṣad, furono forse trascritte soltanto nella metà del primo millennio, alcuni tentativi precedenti senza successo (vi erano in certe Smṛti delle regole che vietavano di trascrivere i Veda) furono fatti attorno alla fine del primo millennio BCE.
    Comunque, quasi tutte le edizioni stampate si basano su manoscritti tardi, difficilmente più antichi di 500 anni, piuttosto che sulla superiore tradizione orale ancora esistente. La recitazione corretta di molti testi continua in alcune aree tradizionali come il Kerala, il Tamil-Nadu del sud, nella fascia costiera dell'Andhra, Orissa, Kathiawar, a Poona o a Benares. Nei pochi decenni passati vi è stato il tentativo da parte di studiosi locali e stranieri di conservare, o almeno di registrare, la tradizione orale. Ciononostante non esiste ancora, fino ad oggi, alcuna completa registrazione audio o video di tutte le recensioni vediche (śākhā) e alcuni testi sono andati perduti persino nel corso dei pochi decenni passati." (Traduzione dall'originale in lingua inglese)(Michael Witzel, Vedas and Upaniṣads; citato in The Blackwell Companion to Hinduism, a cura di Gavin Flood, Blackwell Publishing, Oxford, 2003).
  10. ^ David N. Lorenzen, Early Evidence for Tantric Religion in The Roots of Tantra; citato in Harper & Brown, 2002.
  11. ^ Secondo Anna L. Dallapiccola il "Tantrismo" ha invece origine nel Buddhismo e da quell'ambito confluisce nell'Induismo. (Anna L. Dallapiccola, Induismo. Milano, Bruno Mondadori, 2005, pag. 262).
  12. ^ Padoux, 2011, p. 33.
  13. ^ Padoux, 2011, p. 27-28.
  14. ^ Va precisato sin d'ora che lo Yoga tantrico non è quello classico di Patañjali, ma lo Haṭhayoga, che opera sul corpo yogico nel quale si ritiene presente una potenza umana e divina al contempo, la kuṇḍalinī.
  15. ^ a b Padoux, 2011.
  16. ^ L'autore, pur osservando la difficoltà di definire rigorosamente una pratica estremamente variegata, dà la seguente definizione operativa: "Tantra è quel corpus asiatico di credenze e pratiche che, partendo dal principio che l'universo da noi sperimentato non sia altro che la manifestazione concreta dell'energia divina che crea e mantiene quell'universo, tenta di appropriarsi e incanalare quell'energia nel microcosmo umano, con maniere creative ed emancipatorie." (White, 2000, p. 9).
  17. ^ White, 2005.
  18. ^ Tali dottrine e pratiche emergono in India contestualmente al crollo della dinastia Gupta nel VI secolo, dinastia sostituita da un emergere disorganizzato di poteri non legittimati secondo le autorità dottrinali vediche e che quindi si appoggiavano, per la loro legittimazione, a culti marginali che li investivano proprio mediante l'uso di mantra alla dignità regale.
  19. ^ Madeleine Biardeau, L'Hindouisme. Anthropologie d'une civilisation, Paris, 1981.
  20. ^ Shrii Shrii Anandamurti (Ac. Vijayananda Avt. Editor). Discourses on Tantra. Vol. 2. Calcutta: AMPS-Ananda Printers, 1994, (traduzione dall'originale in lingua inglese).
  21. ^ "Una persona che, senza considerazione di casta, credo o religione, aspiri all'espansione spirituale o faccia cose concrete è un tantrico. Il Tantra non è né una religione, né un "ismo". Il Tantra è la scienza spirituale fondamentale. Così, ovunque vi sia una pratica spirituale, è garantito che essa sia imperniata sul culto tantrico. Dove non vi siano pratiche spirituali, quando le persone pregano Dio per la soddisfazione di ristretti desideri mondani, quando l'unico slogan è "dacci questo e poi quest'altro" soltanto qui troviamo che il tantra sia sconsigliato. Così, soltanto coloro che non comprendono il Tantra o che, dopo averlo compreso non vogliano impegnarsi in alcuna pratica spirituale, si oppongono al culto del Tantra. (traduzione propria da Sarkar, Prabhat Ranjan, Tantra and its Effect on Society, Bhagalpur, 1959).
  22. ^ Come del resto anche il termine "induismo".
  23. ^ "La parola Tantrismo fu coniata nel secolo XIX dal sanscrito tantra che significa "trama" o "telaio" quindi una dottrina, e pertanto anche un'opera, un trattato o un manuale che insegna qualche dottrina, sebbene non necessariamente una dottrina tantrica. Ma accadde che gli studiosi occidentali scoprirono per la prima volta in opere conosciute come tantra dottrine e pratiche diverse da quelle del Brahmanesimo e dell'Induismo classico, che allora si credeva costituisse la totalità della letteratura religiosa induista. Questi testi differivano inoltre da ciò che si conosceva del Buddhismo antico e della filosofia Mahāyāna. Così gli esperti occidentali adottarono la parola Tantrismo per quell'aspetto particolare e per loro molto peculiare, persino repellente, della religione indiana. Non c'è alcuna parola in sanscrito che designi il Tantrismo. Ci sono testi chiamati tantra; c'è il tantraśastra cioè l'insegnamento dei tantra; c'è anche l'aggettivo tāntrika (tantrico) che è usato distintamente da vaidika (vedico) per contrapporre un aspetto della tradizione induista religiosa e rituale non al Vedismo propriamente detto, ma all'Induismo non tantrico "ortodosso" che si è tramandato fino ai giorni nostri, prevalentemente nel rituale privato (contrapposto a quello del tempio), e in particolare nei "sacramenti" (saṃskāra) imposti a tutti i maschi induisti due-volti-nati (appartenenti alle classi superiori). La tradizione tantrica si presenta pertanto come una tradizione diversa da quella dei Veda e delle upaniṣad, e in particolare dotata di riti e pratiche differenti. (Tantrismo in Enciclopedia delle Religioni, vol.9 2006, pagg.377 e segg.)
  24. ^ a b c d e f Padoux, 2011, cap. I.
  25. ^ Definito dall'accademico italiano Raffaele Torella «indiscussa autorità in campo internazionale in questo campo» (dall'introduzione a André Padoux, TantraOp. cit.).
  26. ^ Herbert Guenther, Life and Theaching of Naropa, New York, 1971.
  27. ^ Brian K. Smith, Tantrism: Hindu Tantrism, New York, 2005.
  28. ^ In questo la tradizione tantrica si differenzia nettamente da quella vedica: i Veda sono eterni, non rivelati cioè, ma soltanto visti dai veggenti in epoca remota.
  29. ^ Jan Gonda, Veda e antico induismo, Jaca Book, 1981, p. 295.
  30. ^ Padoux, 2011, p. 48.
  31. ^ Vedi Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary.
  32. ^ Padoux, 2011, p. 17.
  33. ^ Lo torico delle religioni britannico Gavin Flood ha definito "perspicace" questa visione di Osho («Rajneesh is insightful here when he claims that 'tantra is pute technique'»: Gavin Flood, The tantric body, nota 37, Tauris & Co., 2006, p. 201).
  34. ^ «To cross over»: Gavin Flood, The tantric body, nota 37, Tauris & Co., 2006, p. 201.
  35. ^ Le date della colonna a sinistra della tabella si riferiscono all'apparizione o all'origine di quella tradizione o corrente, talvolta prima ancora che venisse trascritta, secondo la datazione riconosciuta dalla maggioranza degli studiosi. Sono esclusi dalla tabella i testi tradizionalmente considerati tantrici ad eccezione del Tantrāloka.
  36. ^
    (SA)
    « Tanoti vipulan arthan tattvamantra-samanvitan - Trananca kurute yasmat tantram ityabhidhyate. »
    (IT)
    « È chiamato Tantra perché promuove grande conoscenza su tattva e mantra e perché conduce alla salvezza. »
    (Kāmikāgama, I, 29; citato in Mark S. G. Dyczkowski, Canon of the Saivagama and the Kubjika Tantras of the Western Kaula Tradition, State University of New York Press, 1988, p. 140)
    "It is called Tantra because it promulgates great knowledge concerning Tattva and Mantra and because it saves." (Cfr. Canon of the Saivagama and the Kubjika Tantras of the Western Kaula Tradition; traduzione dal sanscrito di Sir John Woodroffe, in Shakti and Shakta: Essays and Addresses on the Shakta Tantrashastra, Luzac & Co., London, 1918, p. 38).
  37. ^ Noto anche con il nome di KautilyaVishnuguptaDramila o Amgula.
  38. ^ a b Bagchi, 1989, p. 6.
  39. ^ Banerjee, 1988, p. 8.
  40. ^ Sures Chandra Banerjee, che fu professore di Sanscrito per trent'anni al Department of Education of West Bengal pubblicando più quaranta opere e trattati sull'argomento guadagnandosi il Rabindra Memorial, il più alto riconoscimento letterario assegnato dal governo del West Bengal, afferma [Banerjee, S.C., 1988]: "Tantra" è un termine utilizzato per denotare governanceKālidāsa nell'Abhijñānaśākuntalam usa l'espressione prajah tantrayitva (cioè "avendo governato o padroneggiato l'argomento") (tradotto dall'originale in lingua inglese).
  41. ^ Considerata fino ad oggi la prima evidenza epigrafica di un culto tantrico.
  42. ^ a b Harper & Brown, 2002, p. 48.
  43. ^ "L'autore sanscrito del VII secolo Banabhatta menziona, nell'Harshacharita la propiziazione delle Mātṛkā da parte di un asceta tantrico". (Banerjee, 2002, p. 34, traduzione propria dall'originale).
  44. ^ Banerjee, 2002, p. 34.
  45. ^ Śankara usa il termine Kapilasya-tantra per denotare il sistema esposto da Kapila (la filosofia Sāṃkhya) e il termine Vaināśikā-tantra per denotare la filosofia buddista dell'esistenza momentanea. (Ciò è in parte riferito anche in Arthur Avalon, Shakti and Shakta, Essays and Adresses on the Tantra Shastra, Ganesh & Co, Madras, 1917, p. 47).
  46. ^ Appartenente alla scuola dualista dello Śaiva Siddhānta.
  47. ^ Christopher D. Wallis, Tantra Illuminated, Anusara Press, 2012, p. 27.
  48. ^ Bhāskararāya usa il termine "tantra" per definire il Mīmāṃsā Śāstra.
  49. ^ "Il Tantra venne prima a significare «la scrittura dalla quale viene diffusa la conoscenza»". Nagendra Singh, Buddhist Tantricism, Global Vision P.H., Delhi, 2004, p. 5. (traduzione dall'originale in lingua inglese).
  50. ^ Per questo, come osserva lo stesso Arthur Avalon, Shankara definisce il Sāṃkhya un "Tantra" (Arthur Avalon, Shakti and Shakta, Essays and Adresses on the Tantra Shastra, Ganesh & Co, Madras, 1917).
  51. ^ Flood, 2006, p. 236.
  52. ^ Eliade, 2010, p. 329.
  53. ^ Flood, 2006, p. 244.
  54. ^ Eliade, 2010, pp. 323-325.
  55. ^ Lo stesso Eliade fa notare che l'uso del turbante, sconosciuto nei testi vedici, era invece popolare ad Harappa (Eliade, 2010, p. 331).
  56. ^ Padoux, 2011, pp. 88-89.
  57. ^ Flood, 2006, p. 261.
  58. ^ Padoux, 2011, p. 73.
  59. ^ Flood, 2006, p. 222.
  60. ^ Padoux, 2011, pp. 74-75.
  61. ^ Flood, 2006, p. 223.
  62. ^ Flood, 2006, p. 133.
  63. ^ Padoux, 2011, pp. 87-88.
  64. ^ I rapporti reciproci fra queste sette, e la cronologia sono questioni ancora aperte. Secondo Gavin Flood i Pāśupata risalirebbero appunto al II secolo e sarebbero essi la setta śaiva più antica di cui si ha notizia; da questa sarebbero derivati i Lākula, dediti a pratiche ascetiche estreme, che andavano in giro ricoperti di cenere e con una collana fatta di teschi e i capelli scarmigliati a imitazione dell'iconografia corrente del dio Rudra (Flood, 2006, p. 211-214 e p. 207).
  65. ^ Padoux, 2011, p. 76.
  66. ^ Più che un'evoluzione si tratta di una classificazione tradizionale della quale non è chiaro il rapporto con il contesto storico e sociale (Flood, 2006, p. 226).
  67. ^ Un detto hindu così recita: "Tutte le madri sono una" (ek hi mātā hain) (Padoux, 2011, p. 81).
  68. ^ Padoux, 2011, p. 76 e p. 80.
  69. ^ Padoux, 2011, p. 76 e segg.
  70. ^ John Hughes, Kashmir Shaivism: The Secret Supreme, p. xvii. Vedi inoltre il sito Kashmir Trika Foundation.
  71. ^ È proprio in un testo di questa tradizione, il Kubjikāmata Tantra che per la prima volta vengono menzionati i cakra, i centri del corpo yogico coinvolti nel percorso spirituale dell'adepto; in questo testo i cakra sono in numero di sei. (Flood, 2006, p. 254).
  72. ^ Padoux, 2011, p. 77.
  73. ^ Flood, 2006, p. 234.
  74. ^ O anche Aghori, secondo altri autori.
  75. ^ Flood, 2006, pp. 225-226.
  76. ^ Eliade, 2010, p. 278.
  77. ^ Dio, l'essere supremo, è nominato con nomi differenti a seconda della tradizione tantrica: Śiva, Viṣṇu e Kālī sono le divinità delle tradizioni maggiori. Variano ovviamente, a seconda della tradizione, le caratteristiche della divinità e il suo rapporto col mondo e l'uomo.
  78. ^ Padoux, 2011, p. 65-67.
  79. ^ Sull'importanza del corpo, così lo storico delle religioni Mircea Eliade:
    « Il corpo umano acquista nel tantrismo un'importanza mai raggiunta nella storia spirituale dell'India. Certo, la salute e la forza, l'interesse per una fisiologia paragonabile al Cosmo ed implicitamente santificata, sono valori vedici, se non prevedici. Ma il tantrismo porta alle estreme conseguenze la concezione secondo la quale la santità non è realizzabile che in un "corpo divino". »
    (Mircea Eliade, Lo YogaOp. cit., p. 217)
  80. ^ Padoux, 2011, p. 95-96.
  81. ^ Harper & Brown, 2002, p. 2.
  82. ^ Harper & Brown, 2002, p. 3.
  83. ^ a b Satyananda, 2000.
  84. ^ Harper & Brown, 2002, pp. 3-5.
  85. ^ a b Eliade, 2010, p. 196-197.
  86. ^ Varenne, 2008, pp. 97-101.
  87. ^ Padoux, 2011, p. 182.
  88. ^ Varenne, 2008, pp. 109-111.
  89. ^ In letteratura "corpo yogico" è anche reso con "corpo sottile"; termine improprio, fa notare André Padoux, perché si presta a essere confuso con il corpo trasmigrante, il sukṣmaśarīra, che letteralmente sta proprio per "corpo sottile".
  90. ^ Il numero dei cakra, così come altri particolari del corpo yogico, variano da tradizione a tradizione.
  91. ^ Padoux, 2011, p. 97.
  92. ^ Così Raffaele Torella in Vasugupta, 1999, p. 33.
  93. ^ Così Raffaele Torella, in Vasugupta, 1999, p. 90, nota 134.
  94. ^ Padoux, 2011, pp. 96-100.
  95. ^ Eliade, 2010, p. 218 e pp. 230-231.
  96. ^ Alain Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 250.
  97. ^ La suṣumnā è detta anche śaktimarga: via della śakti.
  98. ^ Il Vijñānabhairava Tantra è estratto da un testo ben più ampio, lo Rūdrayāmala Tantra (in gran parte perduto), e usualmente lo si considera composto di 112 insegnamenti per un numero complessivo di stanze pari a 136 (o numero a questo molto vicino a seconda dell'edizione). Nell'edizione citata più oltre (a cura di A. Sironi), vengono riportate ulteriori stanze successive alla 136ª.
  99. ^ Nella scuola del Trika Bhairava ("tremendo") è Śiva nel suo aspetto terrificante, inteso come principio immanente, vivificante dell'universo.
  100. ^ Termine composto da sat ("esistenza"), cit ("coscienza"), ānanda ("beatitudine"): tre qualità che per la filosofia dell'Advaita Vedānta rappresentano insieme l'assoluto, il Brahman.
  101. ^ a b c Nikhilananda, 1982, pp. 145-149.
  102. ^ Padoux, 2011, pp. 150-151.
  103. ^ Padoux, 2011, p. 152 e segg.
  104. ^ Padoux, 2011, pp. 157-162.
  105. ^ Vedi anche Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary.
  106. ^ Eliade, 2010, p. 210.
  107. ^ Vedi anche Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary.
  108. ^ Eliade, 2010, pp. 213-216.
  109. ^ Eliade, 2010, p. 211.
  110. ^ Padoux, 2011, p. 193 e segg..
  111. ^ Padoux, 2011, p. 137.
  112. ^ Padoux, 2011, p. 140.
  113. ^ Bhairava (letteralmente "Il Tremendo") è epiteto di Śiva, e come divinità ricorre spesso nel tantrismo: è in questa forma che furono, secondo la tradizione, comunicati i 64 Tantra non dualisti. Nelle scuole moniste Bhairava è inteso sia come il distruttore dell'ignoranza metafisica, e quindi come colui che apre le porte della conoscenza; sia come principio immanente, vivificante del cosmo.
  114. ^ Padoux, 2011, pp. 145-146.
  115. ^ Padoux, 2011, p. 144-145.
  116. ^ Padoux, 2011, p. 143.
  117. ^ a b White, 2000, pp. 15-18.
  118. ^ a b Padoux, 2011, p. 115.
  119. ^ Padoux, 2011, p. 113.
  120. ^ a b Padoux, 2011, p. 116.
  121. ^ Etimologicamente, śakti vuol dire "energia".
  122. ^ Flood, 2006, pp. 260-261.
  123. ^ Padoux, 2011, p. 118.
  124. ^ L'opera è il Tantrālokaviveka.
  125. ^ Flood, 2006, p. 252.
  126. ^ Varenne, 2008, pp. 153-154.
  127. ^ Padoux, 2011, pp. 119-121.
  128. ^ Flood, 2006, p. 258.
  129. ^ Urban, 2002, Vol.6, No.1.
  130. ^ Urban, 2003, p. 22.
  131. ^ Urban, 2003, p. 135.
  132. ^ Urban, 2003, pp. 165-166.
  133. ^ a b Padoux, 2010, cap. XII.
  134. ^ Flood, 2006, p. 372.
  135. ^ Urban, 2003, pp. 166-167.
  136. ^ a b c d Urban, 2003, pp. 204-205.
  137. ^ Padoux, 2010, p. 230 e segg.
  138. ^ "Before I end this installment, I want to say a word about neo-Tantra. My teacher made the best distinction between neo-Tantra and authentic Tantra I've ever heard: Neo-Tantra ritualizes sex. Authentic Tantra sexualizes ritual." (Shambhavi Saraswati, da Beginning Tantra, 27 agosto 2005).

Bibliografia

Testi di approfondimento

  • (ENAvalon, ArthurShakti and Shakta. Essays and Adresses on the Tantra Shastra. Madras: Ganesh & Co, 1917 (1951, 4 ed.) 750 p.p. ISBN 81-85988-03-X.
  • (EN) Banerjee, Sures Chandra. Tantra in Bengal: a study in its origin, development, and influence. (Second Revised and Enlarged ed.), Delhi: Manohar, (1992 first ed) - 352 p. ISBN 81-85425-63-9
  • (EN) Davidson, Ronald M. Indian Esoteric Buddhism: A Social History of the Tantric Movement. New York, 2002.
  • (EN) Faure, Bernard. The Red Thread: Buddhist Approaches to Sexuality. Princeton, N.J., 1998.
  • (EN) Goudriaan, Teun, and Sanjukta Gupta. Hindu Tantric and Sākta Literature. Wiesbaden, Germany, 1981.
  • (EN) Gupta, Sanjukta, Dirk Jan Hoens, and Teun Goudriaan. Hindu Tantrism. Leiden, Netherlands, 1979.
  • (EN) Kværne, Per. On the Concept of Sahaja in Indian Buddhist Tantric Literature. Temenos 11 (1975): 88–135.
  • (EN) Nandi, Ramendra Nath. Religious Institutions and Cults in the Deccan. Delhi, 1973.
  • (EN) Robinson, James, trans. Buddha's Lions: The Lives of the Eighty-Four Siddhas. Berkeley, Calif., 1979.
  • (EN) Samuel, Geoffrey. Civilized Shamans: Buddhism in Tibetan Societies. Washington, D.C., 1993.
  • (EN) Smith, Brian K. Tantrism: Hindu Tantrism. New York: 2005.
  • (EN) Snellgrove, David. Indo-Tibetan Buddhism: Indian Buddhists and Their Tibetan Successors. 2 vols. Boston, 1987, 1995.
  • (EN) Strickmann, Michel. Mantras et mandarins: Le bouddhisme tantrique en Chine. Paris, 1996. (English translation forthcoming.)
  • (EN) White, David Gordon. Kiss of the Yoginī: "Tantric Sex" in Its South Asian Contexts. Chicago, 2003.
  • (EN) Bagchi, tradotto da Michael Magee, Kaulajnana-nirnaya of the School of Matsyendranath, Varanasi, Prachya Prakashan, 1986
  • (EN) Ronald M. Davidson, Indian Esoteric Buddhism: A Social History of the Tantric Movement, Columbia University Press, 2003, ISBN 81-208-1991-8
  • (EN) Ronald M. Davidson, Tibetan Renaissance: Tantric Buddhism in the Rebirth of Tibetan Culture, Columbia University Press, 2005, ISBN 0-231-13471-1
  • Elmar e Michaela Zadra, Tantra e meditazione, Rizzoli, 2006 ISBN 88-17-01185-1
  • (ENGeorg FeuersteinTantra: The Path of Ecstasy, Shambhala, Boston, 1998, ISBN 1-57062-304-X
  • (FRRené GuénonÉtudes sur l'Hindouisme, 1966
  • (EN) Geshe Kelsang Gyatso, Tantric Grounds and Paths, Glen Spey, Tharpa Publications, 2003
  • (EN) Pandurang Vaman Kane, History of Dharmashastra (Ancient and Mediaeval Religious and Civil Law), 5 Volumi, Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1930–1962
  • (EN) Michael Magee, traduzione, Yoni Tantra, 1984
  • (ENShri Gurudev MahendranathThe Scrolls of Mahendranath, International Nath Order, Seattle, 1990
  • (EN) Ajit Mookerji, The Tantric Way: art, science, ritual, Thames and Hudson, Londra, 1997
  • (EN) T. A. Gopinatha Rao, Elements in Hindu Iconography, Vol 1, Madras, Law Printing House, 1914, ristampa New York, Garland Publishing, 1981
  • (EN) Swami Sivananda, Kundalini Yoga
  • (EN) Hugh Urban, The Conservative Character of Tantra: Secrecy, Sacrifice and This-Worldly Power in Bengali Śākta Tantra, International Journal of Tantric Studies, Vol 6, No. 1, 2002
  • (EN) Hugh Urban, Tantra: Sex, Secrecy, Politics, and Power in the Study of Religions, University of California Press, 2003
  • (ENBenjamin WalkerTantrism: Its Secret Principles and Practices, Acquarian Press, London, 1982; Borgo Press, 1983, ISBN 0-85030-272-2
  • (EN) David Gordon White, Kiss of the Yogini: "Tantric Sex" in its South Asian Contexts, University Of Chicago Press, 2003
  • (EN) David Gordon White, The Alchemical Body: Siddha Traditions in Medieval India, University Of Chicago Press, 1998
  • Franca Sacchi, Tantra, spiritualità e armonia sessuale, De Vecchi Editore, ISBN 88-412-2783-4
  • (EN) Mahadevan T.M.P., foreword to; Arthur Avalon, Garland of Letters, Ganesh and Company Madras, 6th ed. 1974.
  • (EN) Taylor, Kathleen (2001). Sir John Woodroffe, Tantra and Bengal: 'an Indian soul in a European body?'. SOAS London studies on south Asia. Illustrated edition. Routledge. ISBN 0-7007-1345-X, 9780700713455. Source: [1] (accessed: Monday May 3, 2010).

Voci correlate



    L'Advaita Vedanta

    Risultati immagini per advaita non dual

    Risultati immagini per advaita vedanta

    Risultati immagini per advaita non dual

    Risultati immagini per advaita vedanta

    L'Advaita Vedanta è probabilmente la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta della religione Induista. Letteralmente il termine Advaita significa "non duale", ma viene anche utilizzato per indicare il sistema monistico su cui si fonda il principio dell'indivisibilità del Se o Ātman dall'Unità (Brahman). I testi fondamentali da cui derivano i Vedānta sono le Upaniṣad, o commenti ai Veda, e i Brahma Sutra, anche conosciuti come Vedānta Sutra, nei quali si concentra la discussione sulla natura intima delle Upanişad.

    Adi Shankaracharya: i fondamenti dell'Advaita

    Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Adi Shankara.
    Il primo grande codificatore dell'Advaita Vedānta fu Adi Shankara (788-820). La filosofia che propose fu potente e capitalizzò negli anni il monismo dormiente, e la conoscenza mistica dell'esistenza: proseguendo la linea di pensiero di alcuni rishi espressa nelle Upaniṣad e in particolare la testimonianza di Gaudapada, esposta nell'opera principale (la karika di commento alla Mandukya Upaniṣad), Shankara espose la dottrina dell'Advaita, che afferma la Realtà assoluta come unica realtà e la realtà fenomenica come continuo divenire. Quindi l'unica realtà possibile è quella non duale, mentre il mondo, soggetto al continuo divenire, ha una natura illusoria, in quanto impermanente. Egli definì meglio quanto già espresso nelle Upaniṣad: la Realtà assoluta o Brahman e la pura Realtà Ātman dell'essere individuato jivatman o anima individuale, sono la stessa e unica. Questa realtà è non duale, pertanto realizzabile solo rinunciando ai vincoli del contingente.
    I tre principali stati di consapevolezza (veglia, sogno e sonno profondo), infatti, sono espressione di un quarto stato trascendentale, conosciuto nelle Upaniṣad come turīya, coincidente con la Realtà assoluta o Brahman. La molteplice natura dei fenomeni e la loro ultima essenza è simboleggiata dal suono Aum, il più sacro fra i mantra induisti. Brahman è al tempo stesso immanente e trascendente, e non solo un concetto panteistico. Inoltre, oltre ad essere la causa materiale ed efficiente dell'intero universo, Brahman stesso non è limitato dalla sua auto-proiezione ed effettivamente trascende tutti gli opposti, tutte le dualità, soprattutto aspetti, quali la forma e l'essere; da sempre è incomprensibile alla mente umana.
    Molte testimonianze di queste esperienze sono state esaurientemente descritte in parecchie Upaniṣad. Tra il 1000 e il 1600 d.C., nella Brihadaranyaka, troviamo un dialogo tra Prajapati e Indra in cui si discute del Sé e dei diversi stati di consapevolezza; fu tuttavia Adi Shankaracharya che diffuse e sistematizzò il concetto di non dualismo come pratica religiosa in un lavoro coerente chiamato Vivekacūḍāmaṇi, o Il gran gioiello della discriminazione.
    L'influsso di Adi Shankaracharya si fece non solo sentire nella meditazione Advaita, ma anche nella pratica e nella conoscenza Induista. I suoi lavori principali sono le Brahma Bhashyas, che rappresentano dei commentari alle Vedānta Sutra e alla Bhagavad Gita realizzate nello sforzo continuo di ricerca dello stato non-duale, ed infine il trattato sull'Advaita, il Vivekacūḍāmaṇi. Inoltre questo maestro è più conosciuto come l'iniziatore della Bhakti o devozione altruistica, che nel sistema filosofico Advaita si può realizzare soprattutto mediante i bhajan, o canti devozionali, i più famosi dei quali sono il Bhaja Govindam, il Soundaryalahari e Sivanandalhari.

    Maestro di meditazione

    I trattati sulle Upaniṣad, la Bhagavad Gita e i Vedānta Sutra, sono i testamenti di una mente acuta e intuitiva che non ammetteva dogmi; Adi Shankara affermava che un devoto, solo attraverso l'altruismo disinteressato e l'amore, governati dalla discriminazione (viveka) sia in grado di andare verso la liberazione (moksha) e di realizzare il Sé interiore, mentre il solo discernimento e l'astratto filosofeggiare non avrebbero portato a nessun risultato.
    L'accusa secondo la quale questa filosofia sia stata influenzata dal Buddhismo era infondata, dato che Shankara si oppose con veemenza alla negazione dell'essere Īśvara, affermando che il non-manifesto Brahman manifestava sé stesso come Īśvara, l'amante, l'essere perfetto, il divino, identificato poi come Vishnu o Shiva o qualunque cosa dettasse il cuore. Shankara inoltre sosteneva di aver viaggiato attraverso l'India, da sud a nord fino al Kashmir, pregando per la popolazione locale, dibattendo di filosofia con monaci e scolari, apparentemente con successo, anche se non esiste documentazione in proposito.
    La filosofia che proponeva Shankara era potente, in grado di risvegliare il monismo mistico dormiente dell'allievo, attraverso la conoscenza e la consapevolezza intima dell'esistenza. Inoltre affermava che, sia l'universo fenomenico, sia la nostra coscienza, sia il corpo, che le nostre esperienze, sono realtà illusoria anche se questo non significava negarle. In realtà la Verità Ultima era rappresentata da Brahman, situato al di là del tempo, dello spazio, al di là della causa e dell'effetto. Brahman è immanente e trascendente, non solo come concetto panteistico e pur essendo Brahman la causa materiale del cosmo, esso non è limitato dalla sua proiezione, ma trascende la dualità e gli opposti, soprattutto nella forma e nell'essere, essendo la sua natura intima incomprensibile dalla mente umana.
    Il compito supremo dell'essere umano è quello di penetrare il velo illusorio della realtà (Maya) per rivelare la vera natura, che non è perenne cambiamento tra vita e morte, ma perfezione assoluta e gioia eterna. Se noi conoscessimo i veri motivi che stanno dietro le nostre azioni e i nostri pensieri, diverremmo consapevoli della fondamentale unità dell'essere. Ma come può una mente limitata comprendere l'illimitatezza del Sé? In realtà non può, ma tuttavia è in grado di trascendere la mente e unirsi all'Assoluto.

    Macrocosmo e Microcosmo

    La filosofia Advaita considera la natura e tutto il fenomeno dell'universo come una sovrapposizione che vela il suo immutevole, trascendente e intelligente Substrato.
    L'universo è in continuo divenire, è incostante ed impermanente, mentre l'Assoluto che è il substrato che lo sottende, non diviene, è costante e permanente. Secondo la sapienza upaniṣadica, l'errore di considerare reale ciò che è solo una sovrapposizione al Reale è simile allo scambiare la corda per il serpente, è l'illusione (Maya) determinata dall'ignoranza metafisica (avidya) da cui deriva il dolore dell'essere umano.
    Nella Tradizione Vedānta, questa illusoria percezione del divenire è attribuita all'identificazione con le forme manifeste che rende inconsapevoli e separati dal Reale e dalla sua serena immutabile stabilità.
    Tale identificazione, producendo l'illusione del mondo relativo, rende l'essere umano come il prigioniero della caverna del mito platonico, lontano dalla luce e immerso nelle ombre mutevoli ed ottenebranti di una pseudo realtà, separato dal suo Principio. Obiettivo dell'Advaita Vedānta è la disidentificazione dal relativo e la realizzazione dell'Assoluto. Questa Realtà sottesa ad ogni aspetto del mondo delle forme è, a livello microcosmico, l'Ātman o Sé individuale.
    Da un punto di vista macrocosmico, invece, abbiamo una triade:
    • Virat rappresenta la totalità degli esseri animati oggettivi, compreso il corpo umano.
    • Hiranyagarbha, la totalità delle anime manifestate, comprende il mentale cosmico.
    • Īśvara è il Dio personale universale e comprende la manifestazione intera, l'aspetto grossolano come quello causale, l'individuale e l'universale. Da questo punto di vista il jīva è un momento coscienziale di Īśvara che è il Jiva universale.
    Di là da queste triplicità esiste il sostrato di tutto chiamato Brahman.

    Saguna Brahman e Nirguna Brahman

    Un altro argomento di discussione nei Veda è se la realtà di Brahman sia "saguna" (con attributi) o "nirguna" (senza attributi). La fede nel concetto di Saguna Brahman portava ad una sviluppo delle facoltà devozionali e a una diffusa devozione per Vishnu e Shiva. Tuttavia dobbiamo ricordare che l'Advaita Vedānta non nega Saguna Brahman. In realtà, Shankara consigliava l'adorazione di Dio nella sua forma più pura e autentica, e lo affermava in diversi lavori nei quali disapprovava l'utilizzo dell'intelletto e della ragione, affermando che solo attraverso l'apertura del cuore si sarebbe trovato l'amore del Signore.
    Advaita Vedānta è comunemente scambiata come una filosofia intellettuale, data la sua funzionale praticità, nel quale un insegnamento è in grado di "forgiare" il corpo e la mente in puro stato dell'essere.
    Sia Saguna Brahman che Nirguna Brahman sono comunque forme valide; dalla Coscienza Assoluta deriva sia il principio divino che la creazione. Nirguna Brahman (senza attributi) è la radice metafisica del Saguna Brahman (con attributi), così come lo Zero lo è dell'Uno. Quel Supremo Principio è inclusivo di tutti gli attributi degli esseri, e persino di quelli di Dio.
    Dal nucleo della vita indifferenziata originano l'Uno ed il molteplice, il creatore e l'esistenza differenziata. In altre parole, il Principio Divino, i mondi celesti ed umani che comprendono l'universo, esistono sulla base di tale Assoluto onnipervadente che li contiene. Nella gerarchia dell'Esistenza, l'Assoluto precede l'universalità del Divino. Nello Spirito Supremo, Uno ed indivisibile, sono impliciti come propri riflessi il Padre e la Madre dell'Universo, l'energia vitale che alimenta le forme e le forme stesse. Questa è la spiegazione filosofica e metafisica del mistero dell'esistenza e dà misura della non-dualità della vita e dell'inscindibilità di tutte le sue dimensioni. In questa cosmogonia sacra, lo Spirito Assoluto, Dio, l'universo, il Sé dell'essere umano appaiono come un continuum, come parti di un sistema unitario dove ogni aspetto non può essere scisso o compreso senza l'altro.
    Può darsi che l'Advaita sia stato insegnato meglio a partire dal XIX secolo da Shri Ramakrishna. Questo maestro ha paragonato l'infinito senza forma Nirguna Brahman ad un vasto oceano che, attraverso la fresca brezza dell'amore devoto, condensa la forma nella manifestazione. Ma poi, attraverso il calore della conoscenza del sole, il ghiaccio si dovrebbe sciogliere e il devoto realizzare sé stesso in una indifferenziata e perfetta beatitudine.
    La scuola Vishistadvaita e Dvaita credono nel Saguna Brahman, ossia in un Dio con attributi. Entrambe come l'Advaita sono scuole monistiche e panteistiche, ma differiscono nella definizione dell'ultima forma di Dio.
    È bene tenere a mente che quando si parla del Brahman si allude al Nirguna Brahman altrimenti noto come ParabrahmanSat-Cit-AnandaUno senza secondoZero senza attributi, etc.
    Quando invece si parla di Brahma si intende il Saguna Brahman, ovvero Īśvara: l'Uno qualificato, con attributi.

    Alcuni insegnamenti dell'Advaita Vedānta

    Vi sono altri testi, molto conosciuti, che hanno influenzato la scuola Vedānta l'Ashtavakra Gita e l'Avadhuta Gita, scritti inizialmente da Ashtavakra e più tardi da Dattatreya.
    Il venticinquesimo verso dell'Avadhuta Gita dice:
    Da tale sentenza "ciò che tu sei", il nostro Sé si afferma. Di ciò che è falso e composto di cinque elementi – le Sruti, le scritture dicono, "non questo, non quello, ( Neti, Neti )".
    Questo è un potente e coerente riassunto del sentiero dello Jñāna Yoga, di viveka o discriminazione. Eliminando la prospettiva di maya o dell'illusione, del mondo finito, discriminando tra ciò che è Brahman e ciò che non lo è, si giunge alla Verità. Brahman non è il corpo, non è la mente. Attraverso questo processo, l'aspirante o yogi, "presto" si rende conto che Brahman è il tutto, infinito Satcitananda (Assoluta Verità-Consapevolezza-Perfetta Beatitudine), e ottiene la moksha, la liberazione.

    L'impatto dell'Advaita

    La filosofia dell'Advaita Vedānta ha avuto uno straordinario impatto sulla dottrina tantrica e ha fornito un valido appoggio alle considerazione del Sé ultimo sviluppate dagli Yogi, come BrahmanĀtman, l'essere Uno.
    L'Advaita ha rinnovato il pensiero Indù stimolando il dibattito sul Vishista Advaita, o non dualismo qualificato, e del Dvaita, o dualismo. Grazie all'Advaita la filosofia indù/Vedica ha avuto un forte impulso, il cui seme può essere riconosciuto nell'espressione: La Verità è Una, tuttavia il saggio la osserva come una moltitudine.

    L'Advaita e la scienza

    Diversi seguaci dell'Advaita ritengono che questa filosofia potrebbe rappresentare un punto di incontro tra la scienza e il mondo spirituale. Per giustificare questa ipotesi, essi fanno riferimento alle relazioni tra la massa, la frequenza e l'energia stabilite dalla fisica del XX secolo. Credono che queste relazioni, formalizzate in equazioni da Planck e Einstein, suggeriscano che tutta la struttura di questo Universo appaia come un'Unità che esibisca sé stessa come una moltitudine (energia, massa, onde eccetera) e che questo sia coerente con la visione Advaita in cui ogni cosa esiste ma è il risultato della manifestazione dell'"Unità", che è onnipresente, onnisciente e onnipotente. Inoltre correlano le onde materiali di De Broglie della meccanica ondulatoria al mantra Aum della dottrina indù.

    Fondatori e testi chiave

    I maestri più recenti

    Voci correlate

    Le Sacre Scritture dell'Induismo: i Veda, i Vedanta e le varie scuole di interpretazione

    Immagine correlata

    Vedānta (devanāgarī: वेदान्त) è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda (anta, "fine", del Veda).
    Il termine intende indicare quindi sia le Upaniṣad, per l'appunto parte finale del corpus vedico, sia il fatto che esse rappresentino il culmine dello stesso corpus nel senso che indirizzano al fine ultimo dello stesso, il mokṣa ("liberazione"), sia nel senso che tale letteratura viene studiata per ultimo, dopo gli altri testi.
    Il termine indica anche una tradizione dottrinale, detta altrimenti Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), che si fonda sul Brahmasūtra (conosciuto anche come VedāntasūtraUttaramīmāṃsāsūtra o Śārīrakamīmāṃsāsūtra), testo teologico generalmente attribuito a Bādarāyaṇa (primi secoli della nostra èra[1]; altra datazione III-II sec. a.C.[2]) e composto di 555 aforismi suddivisi in 4 adhyāya, questi a loro volta divisi in 4 pāda.
    In tal senso questo alveo dottrinale fa particolare riferimento a un "triplice canone" (prasthanātrayatraya, tre; prasthanā, "punto di avvio" ) che corrisponde alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā, al Brahmasūtra di Bādarāyaṇa, quindi ai testi dei loro rispettivi epitomatori e commentatori.

    Le correnti del Vedānta

    Tradizionalmente sono sei le principali correnti (sampradāya) indicate come Vedānta[3] le quali, pur radicandosi nel prasthanātraya, offrono dottrine e teologie assolutamente diverse tra loro:
    Segnatamente ai differenti commentari (bhāṣya) al basilare testo del Brahmasūtra di Bādarāyaṇa, commentari che sono a fondamento di queste differenti scuole vedāntiche, la critica moderna ha cercato di individuare quale fosse il più coerente con l'insegnamento originario.
    Paul Deussen[5] (1845-1919) ha ritenuto che la dottrina monista del kevalādvaita di Śaṅkara, tra l'altro all'origine della scuola vedāntica più antica, fosse la più coerente.
    Diversamente altri importanti autori quali George Thibaut [6] (1848-1914), Vinayak Sakharam Ghate [7] e Louis Renou[8] ritengono che la dottrina detta del bhedābheda ("differenza e non differenza"), propugnata da Rāmānuja a fondamento del suo viśiṣtādvaita, rifletta maggiormente le intenzioni dottrinarie del Brahmasūtra di Bādarāyaṇa.

    Darśana (devanāgarī दर्शन, dalla radice sanscrita drś, cioè "vedere" ) è un aggettivo e un sostantivo neutro sanscrito dai molteplici significati.
    In qualità di aggettivo darśana indica "che espone", "che mostra", "che sa", "che insegna", "che rivela".
    In qualità di sostantivo neutro darśana possiede numerosi significati che vanno dalla "vista", all'"indagine", al "discernimento", all'"opinione", alla "dottrina".
    Nell'ambito delle cosiddette "teologie" o filosofie religiose induiste il termine darśana indica un sistema teorico o interpretativo frutto di un "punto di vista".
    Tali sistemi interpretativi prendono avvio dal pieno periodo del Brahmanesimo fino agli inizi dell'Induismo (dal IV secolo a.C. al IV secolo d.C.).
    La necessità di pronunciare un astika ("è così")[1] rispetto alla interpretazione dei Veda rientra tra i "quattro obiettivi dell'uomo" (quattro puruṣārtha) stabiliti dai Dharmasūtra (VI secolo a.C.-V secolo d.C.). L'ultimo di questi obiettivi denominato mokṣa inerisce al saṃnyāsin (il rinunciante) il quale deve necessariamente mettere in atto quelle vie di liberazione collegate ai Veda che lo emancipino dalla schiavitù del karman. Da qui la necessità di elaborare delle darśana sulla comprensione della realtà e sulle vie di emancipazione.
    Secondo Gianluca Magi, la nascita e lo sviluppo delle darśana corrisponde alla nascita e allo sviluppo delle correnti religiose, come il Buddhismo e il Jainismo, considerate eterodosse dai brahmani:
    « Questa minaccia delle scuole eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l'adozione di un metodo logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei metodi, chiamati appunto "punti di vista" (darśana), considerati sei aspetti di una singola tradizione ortodossa sono ... »
    (Gianluca MagiDarśana, in "Enciclopedia filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.)

    Note

    1. ^ Pelissero, p. 282
    2. ^ Dandekar, p.9545
    3. ^ Pelissero, p. 298;
    4. ^ Nella sua accezione ristretta quello di Caitanya non rappresenta un vero e proprio sampradāya, in quanto a differenza dei primi cinque questa corrente non ha prodotto un proprio commentario al Brahmasūtra ma, come spiega uno dei loro più importanti teologi, Jīva Gosvāmī (1511—1596), l'unico vero commentario è, secondo questa corrente viṣṇuita, il Bhāgavatapurāṇa (cfr. in tal senso l'opera di Jīva Gosvāmī, Tattva-sandarbha).
    5. ^ Cfr. il suo Das System des Vedānta (Lipsia, 1883)
    6. ^ Cfr. il suo The Vedānta Sūtra of Bādarāyaṇa in "Sacred Books of the East" voll. 34, 38, e 48 (Oxford, 1890–1904)
    7. ^ Cfr. il suo Le Vedānta : Études sur les Brahma-Sūtras et leurs cinq commentaires, Paris, 1918.
    8. ^ Cfr. il suo L’Inde classique, vol. 2, Hanoi, 1953.

    Bibliografia

    • Un'accurata disamina del Vedānta qui inteso come quell'insieme di scuole e delle relative dottrine, è in Alberto PelisseroFilosofie classiche dell'India, Brescia, Morcelliana, 2014, pp. 298-382.
    • R. N. DandekarVedānta, in "Encyclopedia of Religion", vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9543 e sgg.

    Voci correlate