domenica 11 giugno 2017

Om, il Simbolo dell'Induismo e il Mantra più sacro

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Oṃ (ॐ) (romanizzato anche come Oṁ[1]Óm e Aum), è un termine indeclinabile sanscrito che, con il significato di solenne affermazione, è posto all'inizio di buona parte della letteratura religiosa indiana.
  • Come sillaba sacra viene pronunciata all'inizio o al termine di una lettura dei Veda.
  • Come mantra, il più sacro e rappresentativo della religione induista, è oggetto di riflessioni teologiche e filosofiche, nonché strumento di pratica religiosa e meditativa.

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Origine e sviluppo del significato e della funzione della sillaba Oṃ nelle Upaniṣad vediche

Il termine Oṃ compare indubbiamente nelle prime Upaniṣad vediche (IX-V secolo a.C.). Alcuni autori[2] ritengono tuttavia che la sua presenza sia comunque indicata anche in un inno tardo del Ṛgveda (XV-XII secolo a.C.):
(SA)
« ṛco akṣare parame vyoman yasmin devā adhi viśve niṣeduḥ yastan na veda kiṃ ṛcā kariṣyati ya it tad vidusta ime samāsate »
(IT)
« Colui che non conosce la sillaba imperitura del Veda, quel punto supremo presso il quale vivono tutti gli Dei, che cosa egli ha a che fare con il Veda? Solo coloro che la conoscono siedono qui pacificamente riuniti »
(Ṛgveda I,164,39)
Una delle più antiche Upaniṣad vediche che esprimono significati e funzioni del termine Oṃ è la Chāndogya Upaniṣad (Upaniṣad collegata al Sāmaveda e quindi al canto rituale, sāman), la quale al primo verso del primo kaṇḍa del primo prapāṭaka così si esprime:
(SA)
« om ity etad akṣaram udgītham upāsīta om iti hy udgāyati tasyopavyākhyānam »
(IT)
« Occorre venerare il canto liturgico (udgīta) come fosse la sillaba Oṃ con Oṃ infatti si inizia il canto liturgico. Ora spiegheremo »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,1)
Nelle sue spiegazioni la Chāndogya Upaniṣad indica che il canto liturgico (udgītha) è l'essenza di tutti gli esseri (I,1,2). Ma cos'è l'udgītha?
(SA)
« vāg evark prāṇaḥ sāma om ity etad akṣaram udgīthaḥ tad vā etan mithunaṃ yad vāk ca prāṇaś cark ca sāma ca »
(IT)
« La parola è il ṛk (Ṛgveda), il soffio vitale è il sāman (Sāmaveda), l'udgītha è la sillaba Oṃ . Parola e soffio vitale formano una coppia così come il ṛk con il sāman »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,5)
Così come senza la parola non c'è l'inno e senza il respiro non c'è il canto liturgico, questi trovano la loro essenzialità nella sillaba Oṃ.
Ma Oṃ è anche una risposta affermativa e un saluto fausto:
(SA)
« tad vā etad anujñākṣaram yad dhi kiṃcānujānāty om ity eva tad āha eṣo eva samṛddhir yad anujñā samardhayitā ha vai kāmānāṃ bhavati ya etad evaṃ vidvān akṣaram udgītham upāste »
(IT)
« Questa sillaba esprime l'assenso. Quando si vuole dare l'assenso a qualcosa si pronuncia Oṃ. E ciò a cui si dà l'assenso verrà realizzato. Colui che conosce questo venera udgītha come la sillaba Oṃ realizzerà i suoi desideri »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,8)
Da Oṃ procede la conoscenza sacra:
(SA)
« teneyaṃ trayī vidyā vartate om ity āśrāvayati om iti śaṃsati om ity udgāyati etasyaiva akṣarasyāpacityai mahimnā rasena »
(IT)
« Da essa procede la triplice conoscenza (i Veda). Pronunciando Oṃ si recitano (le formule del Yajurveda); pronunciando Oṃ si innalzano le lodi (del Ṛgveda); pronunciando Oṃ si cantano (le melodie del Samāveda), onorando la grandezza e l'essenza di questa sillaba »
(Chāndogya Upaniṣad I,1,9)
Con lo sviluppo delle successive Upaniṣad, le caratteristiche della sillaba Oṃ verranno ulteriormente a delinearsi.
La Taittirīya Upaniṣad (collegata al Kṛṣṇa Yajurveda) afferma esplicitamente che:
« Oṃ è il BrahmanOṃ è tutto l'universo »
(Taittirīya Upaniṣad, I,8)
La Morte (Yama) afferma, nella Kaṭha Upaniṣad (o Kaṭhaka Upaniṣad collegata al Kṛṣṇa Yajurveda) che:
« La parola che tutti i Veda proclamano, verso cui muovono le austerità, per il desiderio per la quale si conducono le discipline, io ti rivelo: è Oṃ. Questa sillaba è davvero il Brahman eterno, questa sillaba è la meta suprema, colui che conosce questa sillaba otterrà quello che vuole »
(Kaṭha Upaniṣad, I,2,16-17)
Con la Māṇḍūkya Upaniṣad (collegata all'Atharvaveda) una delle ultime Upaniṣad vediche[3] la sillaba Oṃ viene per la prima volta analizzata e scomposta foneticamente:
(SA)
« So'yamātmā-adhyaksharam-Omkaro'dhimatram, pādā mātrā, mātrāsca pādā akāra ukāro makāra iti »
(IT)
« Egli è l'Ātman privo di difetto corrispondente ad Oṃ guardandone gli elementi che lo costituiscono. Gli elementi che lo costituiscono corrispondono alle essenze e le essenze corrispondono agli elementi che lo costituiscono, ossia ai suoni A U M. »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 8)
(SA)
« Jāgaritasthāno vaiśvānaro'kārah prathamā mātrā, āpterādimatvādvāpnoti ha vai sarvān kāmānādisca bhavati ya evam veda »
(IT)
« Vaiśvānara, lo stato di veglia è indicato dalla suono A che è il primo elemento in quanto ottiene o in quanto è primo. Ottiene ciò che desidera e risulta primo colui che così conosce. »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 9)
(SA)
« Svapnasthānastaijasa ukāro dvitīya mātrotkarṣhādu- bhayatvādvotkarṣhati ha vai jñana-santatim, samānasca bhavati, nāsyābrahmavit kule bhavati, ya evam veda »
(IT)
« Lo stato di sogno, Taijasa, è indicato dal suono U che è il secondo elemento per il fatto che è più in alto [di quello precedente] o perché partecipa dagli altri due [in cui sta in mezzo]. Chi lo conosce è in armonia col Tutto, nessuno dei suoi discendenti ignorerà il Brahman »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 10)
(SA)
« Pushuptasthānah prājño makārastṛtīya mātrā miterapīter vā, minoti ha vā idam sarvam-apītisca bhavati, ya evam veda »
(IT)
« Lo stato di sonno profondo, prājña è indicato dal suono M che è il terzo elemento, in quanto crea o dissolve. Colui che conosce questo penetra questo universo facendolo suo »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I, 11)
(SA)
« Amātrascaturtho'vyavahāryah prapancopaśamah sivo'dvaita evamomkāra ātmaiva, samviśatyātmanatmanam ya evam veda, ya evam veda »
(IT)
« Il quarto non corrisponde ad un elemento è non misurabile è al di là della manifestazione e non agisce; è calmo e non duale. Tale è la sillaba Oṃ, in verità è l'Ātman colui che così conosce penetrando con l'Ātman [individuale] l'Ātman [universale] »
(Māṇḍūkya Upaniṣad I,12)
La sacra sillaba viene quindi analizzata dividendola nei quattro vissuti che costituiscono lo stato di coscienza: veglia, sogno e sonno senza sogni, nonché, il quarto stato, turīya, al di là di ogni definizione è l'Ultimo, il Brahman.
Nella Maitri Upaniṣad (o Maitrāyaṇīa Upaniṣad collegata al Kṛṣṇa Yajurveda), probabilmente l'ultima delle Upaniṣad vediche, l'Oṃ viene indicato come suono originario (VI,3) e viene infine raccomandata la pratica della meditazione dell'Oṃ come Sé.
« "Ci sono due aspetti del Brahman quello materiale e quello immateriale. Quello materiale è privo di realtà, quello immateriale è reale, è il Brahman è la luce. La luce è il sole, esso è Oṃ. Esso divenne il Sé e divenne tre parti[4]. Da questo tutto l'universo è intessuto." Così disse. Il sole è Oṃ: su questo meditate e su questo concentrate il vostro spirito »
(Maitri Upaniṣad VI,22)

La sillaba Oṃ nella letteratura religiosa post-vedica

Nel Manusmṛti ("Le leggi di Manu", opera databile a cavallo della nostra Era), raccolta di disposizioni darmiche, precetti sociali e norme etiche, viene stabilito che:
« Egli deve sempre pronunciare "Oṃ!" alla fine e all'inizio della recitazione dei Veda, perché se non c'è prima, [la recitazione dei Veda] si perde, se non c'è dopo, questa si dissolve. »
(Manusmṛti, II,74)
Non solo:
« Un sacrificio che consiste nel recitare [la sillaba Oṃ e il verso in onore di Savitṛ[5]] è dieci volte migliore di un sacrificio regolare; se mormorato è cento volte migliore; è se è [recitato] solo con la mente è tradizionalmente considerato mille [volte migliore]. »
(Manusmṛti, II,85)
Quest'ultimo verso del Manusmṛti è esemplificativo del processo di interiorizzazione di mantra e formule sacrificali proprie della letteratura vedica, interiorizzazione che andrà a sostituire, con le annesse esegesi e credenze articolate nella successiva letteratura religiosa, il sacrificio vedico, promuovendo così la nascita della religione induista.

La sillaba Oṃ nell'Induismo


Esso è considerato il suono primordiale che ha dato origine alla creazione, la quale viene interpretata come manifestazione stessa di questo suono.Oṃ è il mantra più sacro e rappresentativo della religione induista, religione nata dal Brahmanesimo a sua volta sviluppo del Vedismo.
Secondo le scritture induiste, il mantra Oṃ rappresenta la sintesi e l'essenza di ogni mantrapreghiera, rituale, testo sacroessere celeste o aspetto del Divino.
In virtù di questo, la sillaba Oṃ viene recitata in apertura delle letture religiose, della pratica della pūjā e del yajña.
Essendo venerata dagli induisti come il 'suono originario', viene appellata come akṣara (eterna) o anche come ekakṣara (la sola cosa eterna) e praṇava (da pra e ṇu, udire un ronzio, per via della sua pronuncia nasalizzata).

"Tre in uno"

Questo mantra viene spesso utilizzato per rappresentare simbolicamente la sintesi di tre aspetti differenti del tre in uno, un tema comune in molti aspetti dell'Induismo. Questo implica che la nostra attuale esistenza definita come mithyā ('realtà apparente'), deve essere trascesa al di là del corpo e della mente intuendo che la vera natura dell'infinito, la natura di Dio, è immanente, trascende la dualità, essendo e non essendo, e che non può essere descritta a parole, ma solo sperimentata.
All'interno di questo simbolismo metafisico, il tre viene rappresentato dalla curva più bassa, mentre la curva più alta e la coda sono rappresentate da , sottomesso all'Unità, rappresentato da un punto e da una piccola ombra luna-crescente, conosciuta come candra-bindū (bindū indica l'anusvāra ovvero il "suono successivo" o "suono nasale" marcato da un punto sopra la linea e che appartiene alla vocale che precede, di grande importanza mistica).
Seguono alcuni esempi di tre aspetti in uno che possono essere simboleggiati dall'Oṃ.
Aspetto divinoTrimūrtiGuṇaMondiStato di coscienzaKośa
ACreazioneBrahmāTamasTerraVegliaCorpo grossolano
UConservazioneViṣṇuRajasAtmosferaSonnoCorpo sottile
MDissoluzioneŚivaSattvaCieloSonno profondoCorpo causale
Totalità indifferenziataBrahmanTurīyaĀtman
Come si può vedere dalla tabella, esiste anche un quarto suono: esso, però, è trascendentale e consiste nel silenzio che segue i tre suoni del mantra. È un "suono silenzioso", un momento di assoluta contemplazione che rappresenta l'immanifesto, la condizione primordiale dell'Essere che precede la manifestazione.

L'Oṃ e le Mūrti

Approfondimento
La sacra sillaba Oṃ in lingua Tamil.
In lingua Tamil, la sacra sillaba è indicata da un carattere la cui forma ricorda la sagoma della testa d'elefante di Gaṇeśa.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Murti.
I vari aspetti della Divinità sono venerati dagli induisti attraverso il sistema delle Mūrti; molte delle rappresentazioni di tali aspetti sono chiamate con l'appellativo oṃkāra o Omkāreśvara, ossia “avente la forma della Oṃ”. Le varie forme divine vengono paragonate alla sacra sillaba e descritte quindi come illimitate, quali aspetti vibrazionali di tutto il creato.
Ad esempio, l'Oṃ viene attribuito a Gaṇeśa, la cui figura è spesso rappresentata nella forma di questo simbolo. Un altro esempio può essere la danza cosmica di Śiva con la quale egli crea, preserva e distrugge i mondi; questa danza viene vista come il riflesso dell'Oṃ.
Si dice che sia l'approssimazione più aderente dell'esistenza cosmica nel tempo e nello spazio, quindi del suono più vicino alla Verità.

Pronuncia corretta e recitazione

Aum è la somma e sostanza di tutte le parole che possono essere emesse da una gola umana. È il suono primordiale fondamentale, simbolo dell'Assoluto Universale. Il mantra Aum deve essere pronunciato, con concentrazione, in un modo ben preciso e con energia:
  • La A- deve originarsi dalla regione dell'ombelico ed emergere dalla gola;
  • La U- la si pronuncia rovesciando la lingua;
  • La M- termina sulle labbra e la vibrazione termina sulla sommità del capo.
Anche se viene suddiviso in tre, la sua recitazione deve avvenire come un unico suono. Il quarto suono, come si è visto, non viene pronunciato attraverso la voce; tuttavia esso è il momento più importante della recitazione, in quanto è pura contemplazione, e va ricordato e vissuto come tale.
In molti ashram e templi induisti si esegue la pratica dell'Aumkara (o Omkara), ossia la ripetizione di 21 Aum. Dietro a questo numero c'è una precisa simbologia.

La sillaba Oṃ nel Buddhismo

La sillaba Oṃ con i suoi sacri significati è stata propugnata, diffusa e spiegata fin dalle prime Upaniṣad vediche, quindi almeno dal VI secolo a.C. In ambito buddhista la si riscontra nel cosiddetto "Buddhismo esoterico" oggi afferente ai Canoni cinese e tibetano.
Nel primo ambito, la sillaba Oṃ è pronunciata all'inizio delle dhāraṇī riguardanti il garbhadhātu (胎藏界).
Sempre in questo ambito le tre componenti fonetiche dell'Oṃ, ovvero A/U/M, vengono rispettivamente ad indicare le tre parti del Trikāyadharmakāyasaṃbhogakāya, e nirmāṇakāya.
In ambito tibetano è invece posto nell'importante mantra Om Mani Peme Hung (tib., sanscrito Oṃ Maṇi Padme Hūṃ) relazionato al bodhisattva della compassione Avalokiteśvara.
In ambito buddhista, la sillaba sanscrita Oṃ è così resa nelle altre lingue asiatiche:

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Il simbolo dell'Oṃ in devanāgarī e in altre scritture asiatiche

Il simbolo dell'Oṃ (ॐ) deriva dall'unione di due caratteri del devanāgarī: ओ ('o') + ँ ('m' nasale) riportati in corsivo. Risultando il devanāgarī una scrittura non precedente all'VIII secolo d.C. questo simbolo è quindi di gran lunga posteriore alla sillaba Oṃ presente in testi anteriori almeno al VI secolo a.C.

Note

  1. ^ Il diacritico inserito nella 'm' di Oṃ e nel meno diffuso Oṁ ha lo scopo di nasalizzare la vocale che precede in questo caso la o che nel sanscrito è fondamentalmente un dittongo risultante foneticamente dalla contrazione delle vocali 'a' e 'u' che pronunciate rapidamente danno il suono di 'o' (Cfr. al riguardo: Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, pag.312).
  2. ^ Cfr. ad esempio:
    « Evidence of its use as an invocation occurs in the Ṛgveda; though it appears in a relatively late section (1.164.39), this note dates the practice to at least 1200 BCE »
    (Anne-Marie EsnoulOṃ in Encyclopedia of Religion vol.10. NY, MacMillan, 2005, pag.6820.)
  3. ^ Occorre precisare che questa Upaniṣad è profondamente radicata nel commento (kārikā) attribuito a Gauḍapāda (VIII secolo d.C.) di cui fa parte integrante. Qui ci riferiamo esclusivamente ai passaggi inerenti alla tarda Upaniṣad vedica e quindi a quella parte del primo capitolo della kārikā. Tale precisazione si rende necessaria quando consideriamo che la kārikā di Gauḍapāda esprime nel suo monismo radicale una dottrina della illusorietà del mondo lontata dalle concezioni dei Veda e delle Upaniṣad vediche, testi per cui, invece, il mondo è assolutamente reale (Cfr. Carlo Della CasaOp.cit pag.415).
  4. ^ Richiama la Māṇḍūkya Upaniṣad I,8-12 con i tre aspetti di veglia, sonno e sonno profondo.
  5. ^ Conosciuto anche come Savitrī o gāyatrī è il Ṛgveda III, 62, 10.

Bibliografia

  • Anne-Marie Esnoul. Oṃ in Encyclopedia of Religion vol.10. NY, MacMillan, 2005
  • Guy L. Beck. Sonic Theology: Hinduism and Sacred Sound. Columbia, S.C., 1993

sabato 10 giugno 2017

Il concetto di Mantra

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Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra" e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.
La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture religiose che vanno sotto il nome di VedismoBrahmanesimoBuddhismoGiainismoInduismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta l'Asia giungendo in Tibet, in Cina e, attraverso quest'ultima, in GiapponeCorea e Vietnam.

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Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue asiatiche[

Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce")[1].
Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione"[2].
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito mantra viene così reso:

Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica

Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita[3]:
(SA)
« śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ »
(IT)
« Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino. »
(Ṛgveda, I,89,9. Traduzione di Saverio Sani, in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag.178)
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda)[4].
mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa)[5]. Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte[5].
Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo[6].
I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa)[6]. In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa[7] ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche

La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera[8]. Ogni mantra va usato nel modo corretto, e a secondo del modo può dare differenti risultati:
« I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli. »
(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'IndiaOp. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.[9].

La pratica dei mantra

Un mantra, rigorosamente in lingua sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo[10] o da generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono dissimili dalla consacrazione delle icone[11].
L'atto di enunciare un mantra è detto uccāra in sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di japa, e di solito è praticata servendosi dell'akṣamālā, un rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono ripetuti fino a un milione di volte:
« Ogni ripetizione indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la condizione delle ulteriori esperienze. »
(Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
Un aspetto importante nell'uccāra è il controllo della resipirazione. Frequente, soprattutto nelle tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è "movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia interiore.[12].

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bīja


bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono[13]:
  • AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono[14] il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
  • AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
  • HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
  • ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
  • KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
  • KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
  • DUṂ: la dea Durga.
  • GAṂ: il dio Ganapati.
  • HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
  • LAṂ: la terra
  • VAṂ: l'acqua
  • RAṂ: il fuoco
  • YAṂ: l'aria
  • HAṂ: l'etere
Nella Yogattatva Upaniṣad i suddetti bīja, corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da quest'ultimo alla sommità del capo: etere. La recitazione consente di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.[15]
  • SAUḤ: il cuore, simbolo dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat ("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza in Dio, la sua immanenza nel mondo[12].
Infine, i cinquanta fonemi dell'alfabeto sanscrito[16] possono essere utilizzati come mantra essi stessi, singolarmente o variamente combinati[17]; ogni fonema può corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei mantra[18].

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Alcuni mantra

  • Rudra mantra
ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम् ।उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi, profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci dai legami della morte."
Il mantra è rivolto a Śiva nel suo aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211); Uddīsha Tantra (94)[19].
ॐ भूर्भुवस्व: | तत् सवितूर्वरेण्यम् | भर्गो देवस्य धीमहि | धियो यो न: प्रचोदयात्
Oṃ bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi della vita]."
Composto di dodici più dodici sillabe, è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10); Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (5, 15)[20].
ॐ मणि पद्मे हूँ
Om Mani Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello, simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù contemplata dal Buddhismo.[21].
  • Mantra rāja
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna, Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."
Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino[19].
  • Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā
Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei: Karpūradi Stotra (5); Karpura-stava (5)[22].
  • Śiva panchākśara mantra
ॐ नम: शिवाय
Oṃ namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."
È il mantra principale nelle correnti devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa[23].
  • Netra mantra
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra dell'occhio di Śiva", ed è citato nel Netra Tantra, cap. VII[24].
  • Viṣṇu astākśara mantra
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."
Il mantra è rivolto a Viṣṇu, essendo Nārāyaṇa appellativo del dio[25].
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare
Noto anche come Mahā mantra ("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a partire dagli anni sessanta per opera della International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come "gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York[26]Hare è uno degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa medesimo, completa manifestazione di Īśvara[27][28].

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Note

  1. ^ Tra gli altri, Agenanda BharatiThe Tantric Tradition. Londra, Rider, 1966, pag. 103. Su questa definizione etimologica di mantra anche Frederick M. Smith e Sanjukta Gupta rispettivamente nelle edizioni 2005 e 1988 della Encyclopedia of Religion edita dalla Macmillan di New York.
  2. ^ Su questa definizione tradizionale, cfr., ad esempio, Philippe CornuDizionario del Buddhismo. Milano, Bruno Mondadori, 2003, pag.372.
  3. ^ Cfr. a tal proposito, Margaret Sutley e James Sutley in Dizionario dell'Induismo, Roma, Ubaldini, 1980, pag.263. Ma anche Frederick M. Smith:
    « In the earliest Indian text, the Ṛgveda, it often had the sense of “invocation,” while in later literature it is closer to “incantation,” “word(s) of power,” “(magic) formula,” “sacred hymn,” “name of God,” or sometimes simply “thought.” »
    (Frederick M. SmithEncyclopedia of Religion, vol.8. NY, Macmillan, 2005, pag.5676)
  4. ^ Klaus K. Klostermaier
  5. ^ a b Margaret Sutley e James Sutley. Op.cit..
  6. ^ a b Frederick M. SmithOp.cit..
  7. ^ Śatapatha Brāhmaṇa V,4,4,13.
  8. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 381
  9. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 137 e 140.
  10. ^ Alcuni mantra sono riservati e i testi li riportano in maniera criptata per salvaguardarne la segretezza.
  11. ^ G. Flood, L'induismoOp. cit., p. 303 e segg.
  12. ^ a b A. Padoux, TantraOp. cit., p. 142 e segg.
  13. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 380 e segg.
  14. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 144.
  15. ^ Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 129. Eliade riporta la seguente grafia per i bījalavarayaka.
  16. ^ I fonemi sono in realtà quarantanove, da A ad H, a questi le tradizioni tantriche aggiungono il suono composto KṢ.
  17. ^ L'alfabeto in questo caso diviene una deaMātṛkā.
  18. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 139.
  19. ^ a b A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 391
  20. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 390
  21. ^ Le seigneur du Lotus blanc, Le Dalaï-Lama, par Claude B. LEVENSON, Paris, Édition lieu commun, collection le livre de poche, 1987, pp. 239 à 241.
  22. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 389
  23. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 393
  24. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 138 e 144.
  25. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 394
  26. ^ Vedi Gli Hare Krishna e gli altri gruppi Gaudiya
  27. ^ Vedi What is Hare Krishna?
  28. ^ Vedi anche Hare Krishna Maha-Mantra

Bibliografia

  • Alain DaniélouMiti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008.
  • Gavin FloodL'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
  • André PadouxTantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011.

Voci correlate