giovedì 1 giugno 2017

Teoria psicoanalitica strutturalista di Lacan: l'inconscio come linguaggio. Il sintomo come intersezione tra Reale, Simbolico e Immaginario

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Jacques Lacan (Parigi13 aprile 1901 – Parigi9 settembre 1981) è stato uno psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti.
Studia medicina, si specializza poi in psichiatria alla scuola di G. Clérambault. Si laurea nel 1932 con una tesi su "La psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità". In seguito è anche allievo del filosofo Alexandre Kojève, che lo ha influenzato soprattutto nella prima parte della sua elaborazione.
Nel 1938, terminata un'analisi con Loewenstein, entra nella Société psychanalytique de Paris per abbandonarla nel 1953. Insieme a F. Dolto, D. Lagache e altri fonda la Société française de Paris che attese invano un riconoscimento ufficiale da parte dell'International Psychoanalytical Association (IPA). Dopo dieci anni viene praticamente scomunicato e per tutta risposta fonda una sua scuola, l'École Freudienne de Paris, poi la scioglie e adotta l'École de la Cause Freudienne, di cui fu il primo presidente. Il suo insegnamento è trasmesso soprattutto oralmente nei seminari (pubblicati postumi) che hanno visto una numerosa partecipazione per trent'anni.

Teoria e clinica

Generalità

Il Lacan degli Altri Scritti mette in primo piano il rapporto tra l'inconscio e il godimento. Il godimento vuol dire che gli esseri umani sono attraversati dalla pulsione. Ma la pulsione è muta. Parla tramite i significanti.
Lacan ha tramutato in logica le modalità di funzionamento dell'inconscio. L'inconscio "è strutturato come un linguaggio" significa che l'inconscio è come una rete che funziona secondo una logica, anche se non è quella dell'io cosciente. In questa rete circola il godimento.
Il linguaggio, combinatoria non solo verbale di elementi discreti, manca di un elemento, quello che potrebbe dargli senso, ed è questo il trauma, per ogni essere umano: l'incontro con questo sapere bucato.
Lacan riconosce a Marx di avere intuito meglio di Freud il sintomo analitico. Il plusvalore non si sostiene che sulla base del più di godere (di qualcuno su qualcun altro). Gli oggetti del capitalismo dice Lacan, sono tutti fasulli.
Lacan vuole tornare all'insegnamento originario di Freud e per farlo si serve di molti saperi diversi: l'arte, la letteratura, la topologia, la filosofia e la linguistica. Riprende la nozione di struttura di Jakobson attraverso Lévi-Strauss, le teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure, Kojève, PlatoneSocrateJoyce, Duras.
Il soggetto della psicoanalisi è il soggetto della scienza. Non c'è psicoanalisi senza scienza moderna, ma mentre la scienza non si occupa del soggetto, puro riferimento simbolico, svuotato di ogni rappresentazione, errore soggettivo; la psicoanalisi si occupa proprio di esso.
È solo grazie al metodo scientifico che è possibile una trasmissione della psicoanalisi. Il sapere è reso letterale attraverso la matematizzazione. Il matema riveste un'importanza notevole nella teoria analitica e il suo uso è uno degli aspetti più originali della teoria e della clinica lacaniana.
(Riferimento ad Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore delle opere di Lacan, in Italia).

L'inconscio strutturato come un linguaggio

Il trauma per Lacan non è il sesso, ma il linguaggio. Il linguaggio manca di un significante. Gli esseri umani, tutti, anche quelli che non parlano, sono traumatizzati dall'incontro con il linguaggio. L'inconscio è un linguaggio, senza codice.
La struttura cattura l'uomo, lo divide, prende il corpo e il suo godimento. In questo modo si intende la pulsione freudiana, diversa dall'istinto. E si spiega la perdita costitutiva dell'oggetto come è inteso da Freud.
Abbiamo almeno tre diverse accezioni del celebre aforisma "l'inconscio è strutturato come un linguaggio".
Nella prima l'inconscio è un capitolo censurato del libro della storia del soggetto. Qui centrale è la funzione della parola, in particolare quella parola piena che si svolge in analisi che può permettere la trascrizione dell'inconscio, come capitolo censurato. La psicoanalisi, in questa prima concezione, è una pratica di parola che permette al soggetto di ricomporre il capitolo mancante e ristabilire la continuità del discorso cosciente. Il desiderio che smuove l'analisi è un desiderio di riconoscimento e l'analista è il testimone della verità del soggetto.
Nella seconda accezione l'inconscio è più direttamente correlato con il linguaggio e le leggi del linguaggio. La struttura di linguaggio emerge nelle formazioni dell'inconscio (sognolapsusmotto di spiritosintomo) come vengono descritte da Freud nei saggi e nei suoi casi clinici. Tutte le formazioni dell'inconscio, compreso il blaterare in psicoanalisi, hanno struttura di linguaggio, sono pensieri articolati e rispondono a leggi proprie, anche se il soggetto non ha sempre accesso alla comprensione poiché si tratta di un linguaggio cifrato, da decodificare, che si svolge al di fuori del soggetto, ma che lo interessa perché trasporta la sua questione di soggetto.
L'inconscio è, come il linguaggio, una combinatoria di elementi discreti e non solo il linguaggio verbale.
Particolarmente in questa fase dell'elaborazione teorica, Lacan fa ricorso alla linguistica di De Saussure e di Jakobson.
Il discorso inconscio si svolge lungo due assi: l'asse della sincronia, che è quello della metafora, e l'asse della diacronia, che è quello della metonimia. Il sogno è una metafora e il sintomo stesso è una metafora. Così come il desiderio è metonimia, gli enigmi del desiderio inconscio si spiegano nel movimento in cui sono presi, che è metonimico.
Questa presentazione della metafora e della metonimia si accorda con le moderne analisi linguistiche, nelle quali la tradizionale diversità tra i due meccanismi viene ridotta al semplice gioco di modalità formali di articolazione tra significanti.
La terza accezione dell'inconscio strutturato come un linguaggio ha a che fare con la pulsione di morte di Freud. Nel 1956, ne "Il seminario su La lettera rubata", commento al racconto di Edgar Allan Poe, Lacan elabora la tesi che collega l'elaborazione di Freud sulla pulsione di morte alla presa dell'ordine simbolico, responsabile dell'innegabile innaturalità dell'esistenza umana. L'automatismo di ripetizione trae principio dall'insistenza della catena significante.
Con la pulsione di morte Freud, secondo Lacan, incontra il linguaggio per la seconda volta, dopo il primo periodo delle decifrazioni dell'inconscio. In questo momento gli si svela l'aspetto più terribile del linguaggio: la sua natura mortifera, che Lacan poi concettualizza con la nozione di inerzia del godimento.
A questo punto, l'inconscio è strutturato come un linguaggio, ma non tutto nell'inconscio è significante. Ciò che sfugge al livello del significante è un residuo del godimento. Tale resto della struttura di linguaggio viene chiamato oggetto piccolo (a).
Questa mancanza è effetto della struttura, ma è inclusa nella struttura stessa. Questo specifica la struttura lacaniana e la distingue da quella degli altri strutturalisti. Il significante di una mancanza nell'Altro è la base della logica del significante.
Il soggetto è mancanza a essere, per questo tende a identificarsi. L'oggetto (a) è il resto dell'operazione significante, oggetto causa del desiderio, che ha il suo prototipo nell'oggetto pregenitale; la pratica clinica permette a Lacan di isolare due oggetti, oltre quelli freudiani (orale e anale): lo sguardo e la voce.

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Lo stadio dello specchio

Tra i sei e i diciotto mesi il bambino, in braccio alla madre, davanti allo specchio reagisce dapprima all'immagine come se appartenesse a un altro reale, ma, nel momento in cui incrocia lo sguardo della madre nello specchio, l'immagine gli si rivela come sua. Se quest'altro sguardo non dicesse al bambino che l'immagine gli appartiene, egli continuerebbe a considerarla un oggetto esterno[1].
L'investimento del bambino si attua prima ancora che sul proprio corpo, percepito come frammentato, sull'immagine completa dello specchio, sull'altro riflesso nello specchio. Questa è la prima identificazione, immaginaria, ed è due volte alienante perché dipende dallo sguardo della madre: se questo sguardo nello specchio non lo vedesse, egli non si riconoscerebbe.
L'immagine del corpo sostituisce la realtà del corpo. Ciò che è investito è l'altro nello specchio e nello stesso tempo il desiderio dell'altro, attraverso lo sguardo della madre. Identificandosi con la madre, il bambino assume il desiderio della madre come proprio.
Già a partire dallo stadio dello specchio, Lacan va in una direzione diversa da quella di LoewensteinKrisHartmann e in generale della psicoanalisi dell'io. Mentre essi interpretavano l'io come istanza centrale e sintesi della personalità, per Lacan l'io è alienato in modo primordiale. Inoltre, per la dialettica hegeliana della lotta a morte, l'io è minacciato da quello stesso altro senza il quale non esisterebbe; il nucleo più profondo dell'io è paranoico.
Per la psicoanalisi dell'io, e anche per le teorie cognitivo-comportamentali, l'io è l'elemento centrale della cura, alleato del terapeuta che ha il compito di rafforzarlo. La cura termina con un io completo e identificato a quello dell'analista. In Lacan, al contrario, e secondo lui anche in Freud, l'io viene decentrato, come in una rivoluzione copernicana e la cura può essere definita anche una "paranoia controllata". Che senso avrebbe che l'io, peraltro mai completo, dal nucleo paranoico, del paziente debba plasmarsi su quello dell'analista? La risposta arriva pian piano, elaborando il simbolico, o linguaggio.

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L'etica della psicoanalisi

Lo psicoanalista francese dedica il VII seminario all'approfondimento di questo aspetto fondamentale. In primo luogo, certamente, per Lacan il problema dell'etica è il problema della posizione che lo psicoanalista deve assumere nella sua pratica, quindi riguarda la posizione e la postura dello psicoanalista. Tuttavia l'etica diviene un compito pratico che va ben oltre e l'esempio della tragedia di Antigone utilizzato nel seminario sull'etica lo preannuncia con forza. L'analista dovrà anche testimoniare della posizione che si "deve" assumere nel reale, in bilico sull'assenza di un fondamento. Ogni atto, non solo quello legato alla pratica clinica, è un atto etico, un'assunzione di responsabilità che non può sostenersi su alcuna garanzia precostituita. Da qui scaturisce una posizione di Lacan indomabile dal "potere temporale della psicoanalisi", che ha reso inevitabile anche la sua cosiddetta scomunica. Per certi versi ricorda il cavaliere della fede di Kierkegaard ma su un piano laico e rigorosamente scientifico.

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Reale, simbolico, immaginario

Molto tempo dopo l'introduzione dello Stadio dello specchio, nel 1953, Lacan introduce un'altra categoria distinta dall'immaginario: il simbolico[2]. A partire da questo momento lo psichico viene concettualizzato attraverso la tripartizione dei registri: reale, simbolico e immaginario.
Il modo di concepire il simbolico in Lacan non coincide con la concezione junghiana che ha a che vedere con il ritrovare in qualcosa la rappresentazione di qualcos'altro. Il simbolico è in relazione stretta con il significante e riguarda non più l'io (moi) ma il soggetto (je). La realtà umana è intessuta di linguaggio e solo il significante è in grado di renderne conto. Significante e significato non coincidono e il primo domina sul secondo. Inoltre un significante non può essere definito che da un altro significante che lo determina a posteriori. È questa la legge della catena significante.
Il bambino entra nel simbolico attraverso il rapporto con la madre, a causa dell'intermittenza della sua presenza. L'uomo ha l'illusione di averlo creato con la sua coscienza in quanto è a causa di una discrepanza specifica della relazione immaginaria con il suo simile, che egli è potuto entrare in quest'ordine come soggetto. Lacan indica il simbolico con il termine di Altro, tesoro dei significanti, la cui relazione con il soggetto si distingue dalla relazione immaginaria dell'io con l'altro, (a-a').
L'Altro è anche luogo del codice, luogo dove opera l'inconscio. L'inconscio non resiste, semplicemente ripete. Le resistenze si trovano invece a livello immaginario, nella relazione tra io (moi) e altro, relazione che, con la sua inerzia, perturba la relazione simbolica con l'Altro, (S-A).
L'operazione analitica opera a livello dell'asse simbolico; lo psicoanalista non ha che da annullarsi come io (moi) per poter agire a partire dal luogo dell'Altro.
Il terzo registro, invece, si situa sul labile confine tra immaginario e simbolico: il reale si pone al di fuori di una diretta azione del significante e di quell'altalena immaginaria dove il soggetto (moi) è intrappolato tra la fascinazione irresistibile nei confronti della propria immagine (narcisismo) e la pulsione aggressiva nei confronti dell'altro, del simile (desiderio invidioso).

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Il fallo

La peculiarità dell'essere umano è dovuta al suo inserimento nel linguaggio. Il soggetto è effetto di linguaggio. Ma al suo ingresso nella nuova dimensione di 'parlessere', l'uomo perde necessariamente qualcosa. La divisione, costitutiva della condizione umana, è la conseguenza dell'inevitabile immersione nella struttura. Vi è una mancanza strutturale di godimento che è alla base dell'essere uomo e parlante. Al posto di questo godimento perduto, irrecuperabile, c'è un nulla. Il significante di questo vuoto è il fallo, è un significante molto particolare perché il suo significato non c'è, ma è sempre un significante, non è né un fantasma, né un oggetto, né tantomeno un organo. È il significante che permette gli effetti di significato.
La conseguenza immediata di questo significante fallico è la deviazione dei bisogni dell'uomo. Per via dell'assoggettamento dei bisogni alla domanda, la messa in forma significante, qualcosa di questi bisogni si trova alienato: il desiderio.
La domanda, in Lacan, riguarda non tanto le soddisfazioni che chiede, ma un'assenza o una presenza. Al bambino interessa che la madre sia presente. Ciò che lo aggancia all'Altro non è né l'assenza, né la presenza, ma l'oscillazione tra le due. Il soggetto interroga la condizione della presenza. La domanda costituisce l'Altro come colui che può privare il soggetto della propria presenza. La domanda è domanda d'amore. Le soddisfazioni che la domanda d'amore ottiene per il bisogno non fanno che schiacciarla. Tanto peggio se il genitore accudente, di solito la madre, invece che rispondere alla domanda d'amore, dando cioè ciò che non ha, rimpinza il bambino della pappa asfissiante di ciò che ha, cioè confonde le sue cure col dono del suo amore. Ecco perché può accadere che il bambino più accudito rifiuti il nutrimento, orchestrando il suo rifiuto come un desiderio. Questo accade nell'anoressia-bulimia, ma la domanda d'amore si ribella in ogni caso alla sola soddisfazione del bisogno.

Il fantasma

Il soggetto dell'inconscio trova nell'oggetto del fantasma, non nel significante, una certezza soggettiva. "...vuol dire che il linguaggio gli permette di considerarsi come il macchinista cioè come il regista di tutta la cattura immaginaria di cui altrimenti non sarebbe che la marionetta vivente." (J. Lacan "La direzione della cura e i principi del suo potere", 1957, in Écrits, p. 633)
La scelta si gioca nel rapporto con la madre, o con chi ne fa le veci. Lacan distingue tre dimensioni della madre. La madre immaginaria è capace di assecondare o meno il bambino. È il modello per la costruzione degli oggetti immaginari. La madre simbolica è mancante, per cui desidera altrove e si assenta dal bambino. La madre ha una terza dimensione, reale, in quanto potrebbe venire al posto del godimento primordiale.
Lacan, servendosi della scrittura di linguaggio, scrive la metafora dei genitori: Padre/Madre -> Nome del Padre/Desiderio della Madre. Il padre e la madre sono due significanti e indicano due funzioni: la funzione del padre è il nome e la funzione della madre è il desiderio. La legge del padre si sostituisce al desiderio della madre. Quello che interessa al bambino è l'alternanza della presenza-assenza della madre. Nell'assenza, la madre diventa enigmatica per il bambino. Il padre svela ciò che fa assentare la madre, ciò che la fa desiderare: il fallo.
La metafora paterna separa il bambino dalla madre e lo fa passare da una posizione di oggetto a quella di soggetto. Da qui, una separazione ulteriore: dal godimento. Nella psicosi la funzione del padre non ha separato il bambino dalla madre, che è completata dal bambino, trova nel bambino l'oggetto del suo fantasma. Il fantasma è quella storiella che ognuno si racconta per illudersi di ritrovare la parte perduta di godimento, la libido primordiale. È una storiella che ha come chiave di volta un oggetto: anale e orale, sguardo e voce.
Nella psicosi non c'è separazione, il bambino rimane oggetto del godimento dell'Altro, è nel fantasma materno, il cui uso da parte della madre, non è regolato dalla funzione del padre. Il soggetto psicotico, se non ha costruito una metafora alternativa a quella paterna, è ostaggio del godimento, che coincide col linguaggio.

La costruzione della realtà

L'oggetto è lo scarto dell'operazione della metafora paterna. Esso è estratto dal campo della realtà, per cui gli fornisce il suo quadro, la sua cornice. Il vuoto lasciato nella realtà dall'oggetto a estratto è il posto del soggetto. La costruzione del campo della realtà funziona solo quando è otturato dallo schema del fantasma.
In questo senso Lacan ribalta la questione della psicosi, così come è posta in Freud. Lo psicotico non ha estratto l'oggetto a, non necessita di decostruire, decodificare, quanto piuttosto di ordinare, inventare un'estrazione tutta sua, che gli dia uno spazio. Il nevrotico ha bisogno invece di fare il giro delle quinte della sua invenzione criptata, di svelare le carte del suo fantasma, del suo oggetto e del suo nome, o significante padrone.
Nell'ultimo periodo, Lacan riformula la clinica differenziale tra psicosi e nevrosi, spostando il centro dell'attenzione sulla posizione del soggetto nei confronti del godimento, creando una clinica continuista tra le due differenti posizioni.

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Opere di Lacan

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Opere di Jacques Lacan.
Le sue complesse tesi, più che essere organizzate in modo organico in libri, vennero esposte nei suoi famosi seminari del mercoledì, tenuti dal 1953 fino al 1980.
Le sue opere principali comunque sono state pubblicate con il titolo Scritti nel 1966.

I seminari

Negli anni settanta cominciò la pubblicazione (in francese) dei seminari, a partire dalle copie stenografate esistenti in circolazione. Il testo per la pubblicazione viene stabilito da Jacques-Alain Miller, allievo, curatore testamentario e genero di Lacan. Alla versione francese seguì la relativa traduzione in italiano. I seminari hanno l'aspetto discorsivo di opere aperte, tese all'esplorazione ed alla ricerca.

Gli scritti

Rispetto ai seminari, gli scritti hanno un aspetto più compatto, tipico di opere di ricapitolazione. La prima sezione degli Scritti è interamente dedicata a "Il Seminario su La lettera rubata" con relativa introduzione, sviluppi e appendici. Questa scelta lascia intuire l'indubbio valore rappresentativo che gli assegnava.
"Dei nostri antecedenti" è il titolo della seconda sezione, comprendente buona parte dei lavori di Lacan anteriori al 1953.

Critiche

Lacan è stato criticato per la mancanza di chiarezza dei suoi scritti (fra gli altri da Martin Heidegger, che li riteneva incomprensibili e che commentò sul suo conto: "questo psichiatra ha bisogno di uno psichiatra")[3] e per l'utilizzo, ritenuto ingiustificato, di concetti provenienti dalle scienze pure (si pensi al frequente uso di simboli e al ricorso alla topologia, come nel caso dello Schema R o del grafo del desiderio).

Note

  1. ^ J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'IoXVI Congresso internazionale di psicoanalisi, Zurigo, luglio 1949.
  2. ^ J. Lacan, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-54, traduzione di Antonello Sciacchitano e Irène Molina sotto la direzione di Giacomo B. Contri, Torino, Einaudi, 1978.
  3. ^ citato in Jacques Bénesteau (2002). Mensonges freudiens: Histoire d'une désinformation séculaire. Sprimont: Pierre Mardaga Editeur. ISBN 2-87009-814-6. P.318.

Bibliografia

Traduzioni italiane di opere di Lacan:
  • Lacan, J. (1995) Scritti, 2 volumi, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-13857-8
  • Lacan, J. (2013) Altri scritti, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-20450-1
  • Lacan, J. (1980) Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-51128-9
  • Lacan, J. (1982) Radiofonia Televisione, Torino, Einaudi, ISBN 88-06-05380-9
  • Lacan, J. (2006) Dei nomi-del-Padre, seguito da Il trionfo della religione, Torino, Einaudi, ISBN 88-06-17844-X
  • Lacan, J. (2005) I complessi familiari nella formazione dell'individuo: saggio di analisi di una funzione in psicologia., Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-17357-9
  • Lacan, J. (1986) Il mito individuale del nevrotico., Roma, Astrolabio, ISBN 88-340-0854-5
  • Lacan, J. (1978) Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-54, Torino, Einaudi, ISBN
  • Lacan, J. (2006) Il seminario. Libro II. L'io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 1954-1955, Torino, Einaudi, ISBN 88-06-18434-2
  • Lacan, J. (2010) Il seminario. Libro III. Le psicosi. 1955-1956, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-20190-6
  • Lacan, J. (2007) Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale. 1956-1957, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-18795-8
  • Lacan, J. (2004) Il seminario. Libro V. Le formazioni dell'inconscio. 1957-1958, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-17074-5
  • Lacan, J. (2016) Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione 1958-1959, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-22427-1
  • Lacan, J. (2008) Il seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi. 1959-1960, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-19277-8
  • Lacan, J. (2008) Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-19383-6
  • Lacan, J. (2007) Il seminario. Libro X. L'angoscia. 1962-1963, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-18029-4
  • Lacan, J. (2003) Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-16658-8
  • Lacan, J. (2001) Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-15010-5
  • Lacan, J. (2010) Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante. 1971, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-20242-2
  • Lacan, J. (2011) Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-20858-5
  • Lacan, J. (2006) Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-76, Roma, Astrolabio, ISBN 88-340-1493-6
Opere su Lacan:
  • Baio, V. (1987) “Bambino, psicosi e istituzione”, in La Psicoanalisi n.1, Astrolabio, Roma, 1987, ISBN 978-88-340-0889-8
  • Benvenuto, B. (2003) Della Villa dei Misteri o dei riti della Psicoanalisi, Napoli, Liguori, ISBN 978-88-207-3483-1
  • Benvenuto, S. (1984) La strategia freudiana. Le teorie freudiane della sessualità rilette attraverso Wittgenstein e Lacan, Napoli, Liguori, ISBN 978-88-207-1328-7
  • Benvenuto, S e Antonio Lucci. (2014) Lacan, oggi (sette conversazioni per capire Lacan,Milano,Mimesis edizioni, 2014
  • Borch-Jacobsen, M. (1999) Lacan, il maestro assoluto, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-15122-5
  • Bottiroli G. (2002) Jacques Lacan. Arte, linguaggio, desiderio, Sestante.
  • Cosenza D. - D'Alessandro P. (curr.), "L'inconscio dopo Lacan. Il Problema del Soggetto Contemporaneo tra Psicoanalisi e Filosofia", Milano, LED Edizioni Universitarie, 2012, ISBN 978-88-7916-500-6
  • Di Ciaccia, A, (2007), "Lacan, Jacques", in Barale, F. et alii (a cura di), Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Torino, Einaudi, ISBN 978-88-06-18675-3
  • Di Ciaccia, A. (a cura di) (1986) Il mito individuale del nevrotico, Roma, Astrolabio, ISBN 978-88-340-0854-6
  • Di Ciaccia, A.; Recalcati, M. (2000) Jacques Lacan, Mondadori, ISBN 88-424-9518-2
  • Di Ciaccia, A; Fasoli D. (2013) Io, la verità, parlo, Alpes,
  • Argentieri S.; Bolognini S.; Di Ciaccia A.; Zoja L. (2013) In difesa della psicoanalisi, Einaudi, Torino,
  • Guido, S. (2009) Jacques Lacan tra psicoanalisi e filosofia, Trento, UNI Service, ISBN 978-88-6178-301-0
  • Macola, E.; Brandalise, A. (2007) Bestiario lacaniano, Milano, Bruno Mondadori, ISBN 978-88-6159-015-1
  • Miller, J.-A. (2008) "Delucidazioni su Lacan", Torino, Antigone edizioni, ISBN 978-88-95283-30-2
  • Miller, J.-A. (2001) "I paradigmi del godimento", Roma, Astrolabio, ISBN 88-340-1377-8
  • Miller, J.-A. (a cura di) (2007) Effetti terapeutici rapidi in psicoanalisi, Borla, ISBN 978-88-263-1643-7
  • Moroncini, B.; (2005), "Sull'amore", Napoli, Cronopio, ISBN 88-89446-02-1
  • Moroncini, B.; Petrillo, R. (2007) L'etica del desiderio, Napoli, Edizioni Cronopio, ISBN 978-88-89446-33-1
  • Nancy, J-L; Lacoue-Labarthe, P. (1981) "Il titolo della lettera: una lettura di Lacan", Roma, Astrolabio, ISBN
  • Pagliardini, A. (2011) Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad Edizioni, ISBN 978-88-95227-59-7
  • Piergallini, A. (2005) "Quando viene il mio papà?", su notes magico, Firenze, Clinamen, ISBN 88-8410-075-5
  • Piergallini, A. (1999) "La scatola e l'ingiuria", sul Giornale storico di psicologia dinamica, Liguori editore, ISBN 978-88-207-1551-9
  • Recalcati, M. (2012) Ritratti del desiderio, Cortina editore, ISBN 978-88-6030-444-5
  • Recalcati, M. (2012) Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina editore.

Voci correlate

Vite quasi parallele. Capitolo 72. Chi va e chi resta

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Nell'estate del 1987, Riccardo Monterovere trascorse una settimana a Rimini, ospite della famiglia del suo migliore amico, Federico Perfetti, nella residenza estiva del nonno materno di lui, il Giudice Giuseppe Papisco.
Il Giudice e sua moglie Ginevra Orsini, sorella di Diana, erano presenti, anche se lui appariva piuttosto malandato.
Eppure l'anziano magistrato aveva uscite imprevedibili e insospettabili per uno della sua età: quando credeva di non essere visto, né sentito, canticchiava brani di Gianna Nannini e Francesco De Gregori.
Una sera Riccardo lo sentì mentre, sotto la doccia, cantava Rimmel, con un'intonazione nel contempo disperata e piena di speranza:
<<...e un futuro invadente, se fossi stato un po' più giovane, l'avrei distrutto con la fantasia, l'avrei stracciato con la fantasia...>>
Quale futuro invadente può avere un vecchio se non la morte?
Un giorno lo trovò con una raccolta di poesie di Cesare Pavese in mano, assorto, mentre recitava, ad occhi chiusi:

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
da mattina a sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla"


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Presagi...
Forse aveva già intravisto gli occhi dell'angelo della morte?
Un mese dopo il Giudice si sentì male e fu ricoverato d'urgenza con una diagnosi di sclerodermia in fase acuta e blocco intestinale.
Si decise di operarlo, anche se il fisico era molto debole.
Prima di andare sotto i ferri, dichiarò:
<<In fondo, si potrebbe anche morire felici... se si morisse davvero>>
Cosa voleva dire?
Temeva forse le fiamme dell'Inferno o l'implacabile legge del Karma?
La sua opera di magistrato era stata soprattutto quella di fare in modo che suo cognato Ettore Ricci fosse sempre scagionato da ogni accusa che gli veniva rivolta.
Per tutte le altre cause che aveva affrontato come Giudice, era sempre stato clemente, perché riteneva che, nella scelta tra giudicare e capire, il secondo punto fosse più importante.
Non sapremo mai se fu castigo o fu misericordia la sorte che gli toccò, dal momento che tutto ciò che accadde ad Ettore Ricci, da vivo, fu qualcosa di ben peggiore della morte.
Giuseppe Papisco morì sotto i ferri all'età di 81 anni, lasciando la famiglia nella costernazione più totale.
Le figlie Anna Trombatore e Benedetta Perfetti erano sconvolte, ma mai quanto la loro madre.
Ginevra Orsini, che era ancora una bella donna dall'aspetto aristocratico e dai capelli ben curati, si mise in lutto strettissimo.
I Monterovere l'andarono a trovare nella sua villa dei quartieri buoni.
Per tutto il tempo parlò del marito, tracciando di lui un ritratto agiografico, ben lontano dalla realtà.
<<Giuseppe era un marito fedele e un giudice integerrimo>>
Purtroppo, in verità, non era stato né l'uno né l'altro.
Forse gli altri potevano anche crederci, ma non la figlia di Ettore Ricci.
E tuttavia Silvia Monterovere mantenne con la zia un atteggiamento di sincera commozione, perché il Giudice Papisco, pur non essendo stato affatto un marito fedele e un giudice integerrimo, era stato sempre e comunque un vero amico per Ettore e la sua famiglia.
Forse era stato persino un buon padre per i suoi figli e questo era bastato a Ginevra per assolverlo da tutte le altre colpe.O forse Ginevra aveva deliberatamente scelto di non vedere e di non sapere, perché a questo mondo ci sono cose che è meglio non vedere e non sapere
In fondo, chi non vuol far sapere una cosa, non deve confessarla neanche a se stesso, perché non bisogna lasciare tracce. 
Poi raccontò di aver fatto un incubo terribile:
<<Ho sognato che Giuseppe era ancora vivo. E' stata una cosa spaventosa!>>
La frase parve piuttosto incoerente con tutto quanto aveva detto prima, ma ormai tutti erano abituati alle sue stranezze.
Forse Papisco era stato infedele perché Ginevra aveva tutte le tare degli Orsini, comprese le nevrosi e i disturbi dell'umore e della personalità.
Forse lui si era pentito di quelle avventure.
E forse si era anche pentito di aver insabbiato tante indagini, negando giustizia a Isabella Orsini, ad Augusto Orsini e forse anche ad altri membri della famiglia.
Troppo tardi.
Ai funerali il vescovo tenne una strana omelia
<<Mi rivolgo allo Stato, mi rivolgo alla Magistratura! 
Io vi chiedo di identificare e di castigare esemplarmente tutti i pubblici ufficiali che abusano del loro potere, affinché essi non rimangano sempre impuniti. E ancor di più i loro mandanti, i loro corruttori, coloro che li hanno traviati dalla retta via. 
L'opinione pubblica attende sempre che giustizia sia fatta e che non si possa nutrire il minimo dubbio sulla volontà efficace di giungere alla scoperta e alla dimostrazione della verità dei fatti. 
Guarda, Signore, e fissa lo sguardo perché sto diventando spregevole agli occhi di chi mi contempla! 
Guarda, Signore, e fissa lo sguardo perché sto diventando spregevole agli occhi di chi mi contempla!>>
Quel discorso lasciò tutti molto imbarazzati.
Le allusioni del vescovo sconvolsero Ettore Ricci, perché capì di esserne il destinatario.
Questo aumentò le sue già forti inquietudini.
Le morti di Giuseppe Papisco e della Signorina De Toschi lo avevano molto rattristato, non tanto perché fossero parenti acquisiti, quanto piuttosto perché loro gli avevano sempre coperto le spalle ed ora che non c'erano più, Ettore sapeva che le sue spalle erano pericolosamente indifese.
Persino Riccardo era rattristato.
Il Valzer degli Addii, incominciato con la morte di sua nonna paterna Giulia e continuato con la dipartita delle sue tre bisnonne, ora si prendeva anche quel prozio colto ed elegante, che con lui era stato sempre gentile.
I suoi sentimenti furono compresi da sua nonna materna Diana, che gli disse:
<<La morte non è quel che di giorno in giorno va perduto, ma quello che resta nella tua memoria, per poter essere raccontato. 
E così è anche la vita, che non è tanto quella che viviamo, quanto quella che ci ricordiamo, e ce la ricordiamo per raccontarla>>
Anna Papisco, figlia del Giudice e professoressa di lettere, lesse il finale de "La casa dei doganieri di Montale", una delle poesie preferite del suo defunto padre:
<<...Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. 
Ed io non so più chi va e chi resta>>

mercoledì 31 maggio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 71. La Grande Cospirazione contro Ettore Ricci

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Per cinquant'anni Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, era stato il braccio destro di Ettore Ricci, che lo aveva ampiamente ricompensato per i servizi resi e la discrezione nel conservare i segreti della "ditta".
Ma la fiducia di Ettore in Michele era mal riposta.
Dietro all'immagine bonaria e rassicurante dell'amico e del "compagno di merende", si nascondeva infatti quella del traditore.
La verità era un'altra, insospettabile, nascosta, destinata ad emergere soltanto alla fine di un disegno estremamente complesso e protratto nel tempo, al prezzo di molta pazienza profusa nel sopportare il carattere eccentrico e focoso di Ettore, la sua insaziabilità, le situazioni di quasi-disastro in cui si cacciava regolarmente, gli scandali del clan Ricci-Orsini, le pratiche di usura e di riciclaggio dei Ricci che avevano riportato gli Orsini alla ricchezza di un tempo, almeno apparentemente.
Tutto questo era stato sopportato e tenuto segreto in nome di uno scopo più elevato, quello che Michele chiamava "il nobile scopo".
Per mezzo secolo Michele Braghiri, in segreto, aveva tramato alle spalle di Ettore Ricci,  approfittando della libertà d'azione che lo stesso Ettore gli concedeva, per inseguire un ambizioso sogno di gloria e di grandezza. 
Aveva saputo nascondere bene sia i suoi reali sentimenti che le sue trame. Per tutti quei decenni, dietro alla maschera dell'apparente cordialità, Michele Braghiri si era mantenuto freddo, livido, divorato dall'invidia, chiuso nel suo cupo disegno di rivalsa, valutando, ponderando, prendendo la mira, aggiustando il tiro come un cacciatore esperto.
Michele ammetteva a se stesso che Ettore era stato generoso con lui e con la sua famiglia, ma questo non bastava. Aveva ringraziato per tutti i doni e benefici ricevuti, ma non era il tipo d'uomo che amasse dover dire grazie a qualcuno.
Mentre fingeva di accettare di buon grado i premi per la sua presunta fedeltà, Michele era rimasto, nel suo intimo, un regista freddo, impenetrabile, assente, indifferente ai valori dell'amicizia, senza dubbi, senza palpiti , senza un momento di pietà umana.  
Aveva agito nell'ombra, come certi ragni velenosi di cui non ci si accorge se non quando sono diventati troppo pericolosi per poterli sfidare.
Per decenni aveva consumato il suo tradimento diffondendo documenti riservati, mettendo in giro voci allarmanti, ma soprattutto tessendo una ragnatela di alleanze in grado di infliggere allo stesso Ettore un colpo decisivo, permettendo così a Michele di prendere il suo posto.
Aveva operato con meticolosa astuzia e implacabile determinazione,
Per lui l'intero clan Ricci-Orsini rimaneva, anche dopo una vita di convivenza sotto lo stesso tetto, un nemico da invidiare e da distruggere, non appena il vecchio Ettore avesse mostrato segni di cedimento.
Agli altri non pensava nemmeno. Per lui esisteva solo quello che chiamava "il grande disegno".
Che significava, in presenza di tutto questo odio per Ettore, la rovina della sua anziana sposa, lo sfascio di una famiglia già danneggiata, l'ostracismo della sedicente "buona società", una volta che fossero stati resi noti gli scandali degli Orsini? 
Che significava tutto questo per Michele Braghiri, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre aveva fatto il male nella sua vita?
Tutto questo non significava niente.
Non è nostra intenzione rievocare la sua grigia personalità. Non è questa una colpa.
 Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. 
Ebbene, a Michele Braghiri era proprio questo fervore che mancava, ed era ciò che aveva reso grandi, nel bene e nel male, gli imprenditori più noti della Romagna come Ettore Ricci, Serafino Ferruzzi o Francesco Amadori.
Non sarebbe mai diventato come loro.
Gli mancava quell’insieme di lealtà, schiettezza e sangue caldo che fanno, senza riserve, i pochi imprenditori di successo romagnoli che ci sono al mondo. Michele Braghiri non era di questi. 
Il suo dominio come leader sarebbe durato un po' più, un po' meno, ma sarebbe passato senza lasciare traccia.
La lunga durata del successo di Ettore Ricci aveva lasciato una traccia indelebile, e Michele non lo tollerava e intendeva porre fine a tutto questo.
Era tempo di agire.
Ogni cospiratore serio deve scegliere con attenzione i propri congiurati e così fece Michele Braghiri.
La prima ad essere cooptata nella congiura fu la moglie Ida:
<<Hai mai sentito i suoi discorsi sul Mandato Celeste? Sul fatto che lui è quello che è per grazia di Dio? Ecco noi dobbiamo fargli credere di essere caduto fuori da questa grazia divina. 
Deve convincersi che Dio ha revocato il suo mandato>>
Ida parve spaventata da quel tipo di discorsi.
E lui, guardandola negli occhi, pensò.
"Ida, gli occhi tuoi pieni e lucenti mi hanno folgorato un pomeriggio andato più di cinquant'anni fa. 
Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che un uomo di potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo della sua azienda e della sua famiglia.

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 Per troppi anni, nel Feudo Orsini, il Potere sono stato io. 
Io, con la mia mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te.
 Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità...
 La responsabilità diretta o indiretta per tutte le malefatte che sono state commesse sotto questo tetto dal 1935 in avanti.
Isabella, Augusto, il Conte Achille,  il povero Aristide, tutti per vocazione o per bisogno, irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. 
Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato celeste. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene?"

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Alla fine Ida parlò:
<<E come pensi di riuscirci?>>
Michele accennò un ghigno:
<<D'ora in avanti utilizzerò tutti i mezzi a mia disposizione, e non sono pochi.
Ho documenti e testimonianze sufficienti per procurargli molti guai e per accentuare gli altri che capiteranno.
Prova a pensare a cosa potrebbe succedere se si insinuasse in lui la paura. Paura di rischiare. Paura di cadere. Paura di farsi male. 
Cosa potrebbe diventare tutto questo in un uomo che ha costruito la sua carriera sul rischio stesso, sulla velocità, sul disprezzo del pericolo? 
La risposta è una sola. 
Tutto questo potrebbe diventare, per lui, paura di vincere>>
Ida parve compiaciuta dall'arguzia del marito:
<<Non sarà facile. Chi altri è con noi, in quest'impresa?>>
Una luce quasi diabolica si insinuò negli occhi chiari del marito:
<<Uno dei suoi fratelli, Alberico, e tutti i figli di lui, in particolare Lea di Montescudo. Poi la figlia di Aristide, Caterina, e suo marito il senatore Leandri. Sono convinti che sia colpa di Ettore se Aristide si è suicidato. Il Senatore ha garantito l'appoggio della Democrazia Cristiana e delle banche cattoliche, in particolare le Casse Rurali e le Cooperative Bianche.
Poi il preside Conti, che ritiene di essere stato truffato riguardo all'acquisto del terreno di Cervia, il che è assolutamente vero. Ha promesso di fornirci l'appoggio del Rotary Club di cui è Presidente. e della Massoneria, di cui è membro.
Poi c'è il vicino di casa di Cervia, quel tale Mario Strambelli, che è pronto a denunciare Ettore per abuso edilizio.
Inoltre ci sono i soci della Società in Accomandita per Azioni Casemurate SAPA. che gestisce il Feudo Orsini, il Feudo Spreti di Serachieda e il Feudo Zanetti dell'Erbosa: ritengono di non ricevere dividendi sufficientemente congrui rispetto alla crescita degli utili.
Ma il vero tradimento sarà quello che lui meno si aspetta, perché verrà da persone che lui ritiene parte del suo stesso nucleo familiare.
Sto parlando di alcuni esponenti della famiglia Monterovere, in particolare il deputato Tommaso Monterovere, che ci ha garantito l'appoggio del Partito Comunista e delle Cooperative Rosse, nonché quello di molti giovani magistrati di sinistra>>
Anche gli occhi di Ida brillarono:
<<Ci saranno molte pugnalate alla schiena, ma basteranno per toglierlo di mezzo?>>
Michele la tranquillizzò:
<<Ora che la Signorina De Toschi è morta e il Giudice Papisco è un vecchio decrepito che non conta più niente, le antiche protezioni su cui Ettore contava sono venute meno>>
Qualcosa che forse molto tempo prima si sarebbe potuta ancora definire coscienza, dettò a Ida Braghiri l'ultima domanda:
<<E a lui cosa succederà, dopo?>>
Michele si massaggiò le tempie, e rispose con voce bassa, ma ferma:
<<Imparerà che l'unica qualità utile, per chi ha perduto tutto, è la pazienza>>


martedì 30 maggio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 70. La Madre di tutte le Abbuffate e la dipartita della Signorina De Toschi

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L'anno 1987 si aprì con un evento ragguardevole, ossia il passaggio a miglior vita della temutissima Signorina Mariuccia De Toschi, figlia del compianto Generale Ardito De Toschi e della rispettabile dama Violetta Orsini, zia di Diana Orsini.
Le circostanze della dipartita furono del tutto singolari e meritano di essere raccontate.
Mariuccia De Toschi, la Signorina per antonomasia, aveva 89 anni e una salute apparentemente solidissima, tanto che ogni giorno era a pranzo e a cena da amici e mangiava a quattro palmenti.
Una sera di gennaio, però, a quanto pare, mangiò un po' troppo.
Si trovava all'ennesimo raduno di ex alunni, organizzato dall'allora Sottosegretario alla Difesa, l'Onorevole Stefano De Angelis, il quale, alla vista della pachidermica Signorina, le fece il baciamano e disse:
<<Signorina...>> e poi si inginocchiò: << ... io devo tutto a Lei>>
La De Toschi assunse un'espressione vezzosa e finse di schermirsi:
<<Suvvia, Onorevole, Lei così mi lusinga...>>

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<<Mi permetta di insistere, Signorina. Se non ci fosse stata Lei a insegnarmi l'aoristo, io non avrei mai potuto fare tanta strada nella vita. Lo ripeto, io devo tutto a Lei!>>

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La Signorina divenne rosa in volto, e il colorito riuscì a superare le centinaia di strati di fondotinta con cui si era asfaltata il faccione.
Sorrise soavemente, sbatté le ciglia, scosse lievemente la testa facendo tintinnare i pesanti orecchini d'oro massiccio, e si riaggiustò i capelli freschi di tinta e pettinati a cofana in stile Alessandra di Danimarca, Principessa di Galles ai tempi della regina Vittoria.
Poi si fiondò a tavola e divorò tutti gli antipasti.
Quella sera la sua voracità pareva ancora più implacabile del solito.
Fece fuori nell'ordine: tagliatelle alla cacciatora, tortellini panna e speck. pasta al forno paglia e fieno, cinghiale arrosto, salsicce e cotechino, piadina al prosciutto, patate fritte, insalata di rucola con aceto balsamico di Modena, macedonia di frutti di bosco, due grappoli d'uva da tavola, torta romantica, viennetta, gelato al mascarpone, sorbetto al limone, caffè doppio, due bicchieri di Fernet, il tutto innaffiato da una bottiglia di Sangiovese di Romagna.
Per tutto il periodo, non aveva proferito parola se non per dire frasi "toscane" del tipo "bona la salciccia!"
Al termine di quella che si può ben definire la Madre di tutte le Abbuffate, la Signorina De Toschi divenne paonazza, gli occhi sembravano uscirle dalle orbite, e la pappagorgia era gonfia come quella di un grosso rospo violaceo.
Ma c'era qualcosa di ancor più terribile nel suo sguardo.
Aveva un'espressione feroce e infuocata, come un predatore che ha appena abbattuto un esercito di prede indifese.

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Fu a quel punto che avvenne l'irreparabile.
Il Sottosegretario De Angelis tornò alla carica con le sue sviolinate e offrì alla De Toschi una mentina digestiva al rabarbaro.
La Signorina fu dubbiosa:
<<Ho veramente mangiato troppo stasera. Temo che non ci stia più niente nel mio stomaco>>
Ma il Sottosegretario non si arrese:
<<E' solo una mentina digestiva, vedrà che dopo averla sciolta in bocca, si sentirà subito meglio>>
La De Toschi rimase per qualche secondo a contemplare, perplessa, la mentina:
<<E va bene, tanto se ho fatto 30 posso anche fare 31!>>
Mai proverbio fu meno appropriato alla situazione.
Dopo aver fagocitato la mentina in tutta fretta, la Signorina parve sul punto di esplodere.
Per un istante rimase incerta.
Poi strabuzzò gli occhi, sollevò leggermente la mano destra con l'indice alzato e cercò di pronunciare una parola che non venne.

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Un secondo dopo gli occhi le rotearono verso l'alto, la bocca si riempì di bava e la pachidermica Signorina collassò a terra in tutta la tua tonnellata di peso, facendo rimbombare i pavimenti, tanto che i vicini temettero si trattasse di un terremoto.
Non era un evento sismico, eppure fu qualcosa di ancor più terribile a vedersi, perché la De Toschi schiattò per congestione gastrica sotto gli occhi esterrefatti di tutti i suoi ex alunni.
Mentre la Signorina lasciava questo mondo in maniera così incresciosa, il Sottosegretario De Angelis guardò le sue mentine e le buttò nel cestino dei rifiuti, come se volesse liberarsi dell'arma di un delitto.