Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.
Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer la Spagna gli diede,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Rimpianser le proprie invidie, a una a una,
con la sua nazione le straniere.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormorano con lamento il lor dolore.
Commento di Jorge Luis Borges, in Sette Notti (1983)
- 93 La poesia Diedegli Marte in ciel loco migliore, la Mosa, il Reno, il Lago e il Danubio mormorano il loro sconforto con dolore.) Per prima cosa noto che si tratta di una difesa giuridica. Il poeta vuole difendere la memoria del duca di Osuna, che secondo quello che dice in un’altra poesia “morì in prigione e morto rimase carcerato”. Il poeta dice che la Spagna va debitrice al duca di grandi servigi militari e che l’ha ripagato con il carcere. Non ha senso parlare di ragioni, giacché non vi è alcun motivo per il quale un eroe non sia colpevole o non debba esser condannato. Tuttavia, Venir meno poté la patria al grande Osuna, ma non alla sua difesa le sue imprese; morte e carcere la Spagna gli diede, cui egli schiava aveva fatto la Fortuna. è un momento demagogico. Sia chiaro che non sto parlando a favore o contro il sonetto, sto solo cercando di analizzarlo. Piansero le proprie invidie a una a una con la propria nazione le straniere. Questi due versi non hanno risonanza poetica maggiore; sono stati scritti perché erano necessari alla struttura del sonetto; a non dire delle necessità di rima. Quevedo seguiva la difficile forma del sonetto italiano che richiede quattro rime. Shakespeare seguì quella più facile del sonetto isabellino che ne richiede due. Continua Quevedo: sua tomba son di Fiandra le campagne, e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
- 94 Sette notti Qui c’è l’essenziale. I versi traggono la loro pre- gnanza dalla loro ambiguità. Ricordo molte discussioni sull’interpretazione di questi versi. Che significa “sua tomba son di Fiandra le campagne”? Possiamo pen- sare ai campi di Fiandra, alle campagne militari che il duca condusse. “E il suo epitaffio la sanguigna Luna” è uno dei versi più memorabili della lingua spagnola. Che significa? Pensiamo alla sanguinosa luna che figura nell’Apocalisse, pensiamo alla luna debitamente rossa sopra il campo di battaglia, ma vi è un altro sonetto di Quevedo, anch’esso dedicato al duca di Osuna, in cui dice: “le lune della Tracia con sanguigna / eclisse già sigla la tua giornata”. Quevedo avrà pensato, all’inizio, al padiglione ottomano; la sanguinosa luna sarà stata la mezzaluna rossa. Credo che saremo tutti d’accordo nel non scartare nessuno di questi significati; non diremo che Quevedo si riferisca alle giornate militari, all’ordine di servizio del duca o alla campagna in Fiandra, o alla luna sanguinosa sul campo di battaglia o alla bandiera turca. Quevedo non precisò i diversi significati. La feli- cità di questi versi sta nella loro ambiguità. E poi: Nelle sue esequie incendiò il Vesuvio Partenope e Trinacria il Mongibello; il pianto militare crebbe a diluvio. Ovvero, Napoli incendiò il Vesuvio e la Sicilia l’Etna. Che strano che abbia scelto questi nomi antichi che sem- brano mascherare nomi tanto famosi d’allora. E il pianto militare crebbe a diluvio. Qui abbiamo un’altra prova che la poesia è una cosa e altra cosa è il sentire razionale, essendo palesemen-
- 95 La poesia te assurda l’immagine dei soldati che piangono fino a produrre un diluvio. Ma non lo è il verso, che ha la sua logica. Il “pianto militare”, soprattutto militare, è sorprendente. Militare, come attributo del pianto, è un aggettivo stupendo. Poi: Diedegli Marte in ciel loco migliore, Nemmeno questo verso è giustificabile sul piano della logica; non ha alcun senso pensare che Marte faccia posto al duca di Osuna vicino a Cesare. La proposizione si regge in virtù dell’iperbato. È la pietra di paragone della poesia: il verso esiste al di là del significato. la Mosa, il Reno, il Tago e il Danubio mormorano il loro sconforto con dolore. Io direi che questi versi, che mi hanno impressionato per anni, sono in verità sostanzialmente falsi. Quevedo si lasciò attrarre dall’idea di un eroe pianto dalla geografia delle sue campagne militari e da fiumi famosi. Sentiamo che continua in modo falso; sarebbe stato più veritiero dire la verità, dire quello che disse Wordsworth, per esempio, all’inizio di quel sonetto dove attacca Douglas per aver fatto tagliare un bosco. Dice, infatti, che fu sì orribile quello che Douglas fece al bosco, l’aver abbattuto una nobile tribù, “una fraternità di alberi venerabili”, ma, aggiunge, noi tuttavia ci doliamo di mali che alla natura come tale non interessano, giacché il fiume Tweed e le verdi praterie e le colline e le montagne permangono. Sentiva di poter raggiungere un effetto migliore con la verità. Dicendo la verità, dispiace a noi che siano stati tagliati
- 96 Sette notti questi begli alberi, ma alla natura non importa niente. La natura sa (se esiste un’entità che si chiama natura) che può rigenerarli e il fiume continua il suo corso. È vero che per Quevedo si trattava delle divinità dei fiumi. Forse sarebbe stata più poetica l’idea che la morte di Osuna ai fiumi delle guerre del duca non interessava. Ma Quevedo voleva fare una elegia, una poesia sulla morte di un uomo. Che cosa è la morte di un uomo? Con lui muore un volto che non si ripeterà, come osservò Plinio. Ogni uomo ha il suo viso, unico, e con lui muoiono migliaia di circostanze, migliaia di ricordi. Ricordi di inanzia, volti umani, troppo umani. Quevedo sembra non sentire niente di tutto questo. In carcere è morto il suo amico, il duca di Osuna, e Quevedo scrive questo sonetto con freddezza; sentiamo la sua sostanziale indifferenza. Scrive questi versi come se scrivesse un’arringa contro lo Stato che condannò il duca alla prigione. Sembrerebbe che non ami Osuna; e comunque non fa sì che lo amiamo noi. Nonostante ciò, questo è uno dei grandi sonetti nella nostra lingua. Passiamo all’altro sonetto, di Enrico Banchs. Sarebbe assurdo dire che Banchs è un poeta migliore di Quevedo. E poi che significato hanno questi paragoni? Esaminiamo questo sonetto di Banchs e vediamo in che consiste il suo gusto: Hospitalario y fiel en su reflejo donde a ser apariencia se acostumbra el material vivir, està el espejo corno un claro de luna en la penumbra. Pompa le da en las noches la flotante claridad de la lámpara, y tristeza la rosa que en el vaso agonizante también en él inclina la cabeza.
- 97 La poesia Si hace doble al dolor, también repite las cosas que me son jardìn del alma. Y acaso espera que algún dia habite en la ilusión de su azulada calma el Huésped que le deje reflejadas frentes juntas y manos enlazadas. (Ospitale e fedel nel suo riflesso ove ad esser apparenza si costuma il viver materiale, ecco lo specchio come nella penombra un chiar di luna. Vasto gli dà nelle notti il fluttuante chiarore della lanterna, e tristezza la rosa che nel vaso, agonizzante, anche reclina la sua testa. Si fa doppio il dolor, anche ripete cose che dell’alma mi son giardino. E forse spera che qualche giorno abiti nell’illusione dell’azzurrata calma l’Ospite che le lasci rispecchiate fronti unite e mani intrecciate.) Il sonetto è molto strano, perché lo specchio non è il protagonista: c’è un protagonista segreto che ci viene ri- velato alla fine. Prima di tutto abbiamo il tema, molto po- etico: lo specchio che raddoppia l’apparenza delle cose: ove ad esser apparenza si costuma il viver materiale… Possiamo ricordare Plotino. Volevano fargli un ritrat- to e si rifiutò: “Io stesso sono un’ombra, un’ombra dell’ar- chetipo che sta in cielo. A che scopo dunque fare un’om- bra di quell’ombra?” Che cosa è l’arte, pensava Plotino, se non un’apparenza di secondo grado? Se l’uomo è effi-
- 98 Sette notti mero, come può essere adorabile l’immagine dell’uomo? Appunto questo sentì Banchs; egli sentì la fantomaticità dello specchio. È davvero terribile che vi siano specchi: sempre ho avuto il terrore degli specchi. Credo che anche Poe lo provasse. C’è un suo lavoro, uno dei meno noti, sulla de- corazione delle abitazioni. Una delle condizioni che pone è che gli specchi siano situati in modo che una persona seduta non sia riflessa. Questo ci dice della sua paura di vedersi nello specchio. Lo troviamo nel suo racconto Wil- liam Wilson sul doppio e in Arthur Gordon Pym. Vi è una tribù antartica, un uomo di questa tribù vede per la prima volta uno specchio e inorridisce. Noi agli specchi siamo abituati, ma c’è qualcosa di te- mibile in questa duplicazione visiva della realtà. Passiamo al sonetto di Banchs. “Ospitale”: già così gli conferisce un carattere umano, che è un luogo comune. Peraltro, mai abbiamo pensato che gli specchi siano ospitali. Gli spec- chi accolgono tutto in silenzio con amabile rassegnazione. Ospitale e fedel nel suo riflesso ove ad esser apparenza si costuma il viver materiale, ecco lo specchio come nella penombra un chiar di luna. Vediamo lo specchio perfino luminoso, e Banchs lo paragona inoltre a qualcosa di intangibile come la luna. Continua a sentire la magia e la stranezza dello specchio: “come nella penombra un chiar di luna”. Poi: Vasto gli dà nelle notti il fluttuante chiarore della lanterna… Il “fluttuante chiarore” esige che le cose non siano definite; tutto deve essere impreciso come lo specchio,
- 99 La poesia lo specchio della penombra. Deve succedere di sera o di notte. E così: … il fluttuante chiarore della lanterna, e tristezza la rosa che nel vaso, agonizzante, anche reclina la sua testa. Perché tutto questo non sia vago, abbiamo ora una rosa, una rosa definita. Si fa doppio il dolor, anche ripete cose che dell’alma mi son giardino. E forse spera che qualche giorno abiti nell’illusione dell’azzurrata calma l’Ospite che le lasci rispecchiate fronti unite e mani intrecciate. E arriviamo all’argomento del sonetto, che non è lo specchio, ma l’amore, il pudico amore. Lo specchio non spera di vedere riflesse fronti unite e mani intrecciate, è il poeta che spera di vederle. Ma una sorta di pudore lo porta a dire tutto questo in maniera indiretta e questo è preparato in modo ammirevole, giacché, dal principio, abbiamo “ospitale e fedele”, giacché lo specchio sin dal principio non è lo specchio di cristallo o di metallo. Lo specchio è un essere umano, è ospitale e fedele e poi ci abitua a vedere, a vedere il mondo delle apparenze, che alla fine si identifica con il poeta. Il poeta è colui che vuole vedere l’Ospite, l’amore. Vi è una differenza essenziale con il sonetto di Que- vedo, ed è che immediatamente sentiamo la vivida pre- senza della poesia in quei due versi sua tomba son di Fiandra le campagne e suo epitaffio la sanguigna Luna.
- 100 Sette notti Ho parlato delle lingue e di quanto sia ingiusto pa- ragonare una lingua a un’altra; basta pensare a un verso, una strofa spagnola, per esempio: quién hubiera tal ventura sobre las aguas del mar corno hubo el conde Arnaldos la mañana de San Juan, (chi ebbe tal ventura sulle acque del mare come l’ebbe il conte Arnaldo la mattina di San Giovanni), non importa che questa ventura fosse una barca, non im- porta il conte Arnaldo, per sentire che questi versi si è potuto dirli solo in spagnolo. Il suono del francese non mi piace, credo che gli manchi la sonorità di altre lingue latine, ma come potremmo pensare male di una lingua che ha consentito versi ammirevoli come quelli di Hugo, L’hydre-Univers tordant son corps écaillé d’astres, come censurare una lingua senza la quale sarebbero im- possibili versi simili? Quanto all’inglese, credo che abbia il difetto di aver perso le vocali aperte dell’inglese antico. Tuttavia è la lin- gua che permette a Shakespeare versi come And shake the yoke of inauspicious stars From this worldweary flesh, che a malapena si riesce a tradurre con un “y sacudir de nuestra carne harta del mundo el yugo de las infaustas estrellas” (e scrollarsi il giogo di stelle infauste da questa carne stanca del mondo). In spagnolo non è niente; in
- 101 La poesia inglese tutto. Se dovessi scegliere una lingua (ma non c’è motivo di non sceglierle tutte), sceglierei il tedesco, che ha la possibilità di formare parole composte (come l’inglese e ancor più) e che ha vocali aperte e una musi- calità così ammirevole. Quanto all’italiano, è sufficiente la Commedia. Non vi è nulla di strano che la bellezza sia spar- sa nelle varie lingue. Il mio maestro, il grande poeta ebreo-spagnolo Rafael Cansinos-Asséns, ha lasciato una preghiera al Signore nella quale dice: “Oh, Signo- re, che non abbia tanta bellezza”; e Browning: “Quan- do più ci sentiamo sicuri avviene qualcosa, un tramon- to, il finale di un coro di Euripide, e siamo un’altra volta perduti”. La bellezza ci osserva. Se ci fosse in noi della sensibi- lità, la sentiremmo nella poesia di tutte le lingue. Avrei dovuto studiare di più le letterature orientali; le ho avvicinate solo attraverso traduzioni. Ma sono riu- scito a sentire l’urto, l’impatto della bellezza. Per esem- pio, questa frase del persiano Jafez: “Volo, la mia polve- re sarà quello che sono”. Vi è qui tutta la dottrina della trasmigrazione: “la mia polvere sarà quello che sono”, rinascerò un’altra volta, in un altro secolo, sarò Jafez, il poeta. Tutto questo espresso in poche parole che ho let- to in inglese, ma che non possono essere molto diverse dal persiano. La mia polvere sarà quello che sono: è troppo semplice per poter essere cambiato. Credo che sia un errore studiare la letteratura dal punto di vista storico, anche se è probabile che, me compreso, non si possa fare altrimenti. C’è un libro di Marcelino Menéndez y Pelayo, che a mio giudizio è sta- to un eccellente poeta e un cattivo critico, intitolato Le cento migliori poesie castigliane. E vi troviamo: Ande yo
- 102 Sette notti caliente, y ríase la gente” (Ch’io stia caldo, e la gente rida). Se questa è una delle migliori poesie castigliane, c’è da domandarsi come saranno quelle meno buone. Nello stesso libro troviamo i versi di Quevedo che ho citato e l’“Epistola” dell’Anonimo Sivigliano e tante al- tre poesie stupende. Disgraziatamente non ce n’è alcu- na di Menéndez y Pelayo, che non ha incluso opere sue nell’antologia. La bellezza è in ogni luogo, forse in ogni istante della nostra vita. Il mio amico Roy Bartholomew, che ha vissuto alcuni anni in Persia e ha tradotto dal parsi Omar Khayyàm, mi disse una volta ciò che io già so- spettavo: che in Oriente, in generale, non si studiano la letteratura e la filosofia dal punto di vista storico. Di qui lo stupore di Deussen e di Max Müller, che non riusci- rono a stabilire la cronologia degli autori. È come se si studiasse la storia della filosofia, mettendo insieme Ari- stotele e Bergson, Platone e Hume, come fossero tutti contemporanei. Concluderò con la citazione di tre preghiere di marinai fenici. Quando la nave stava per affondare — siamo nel primo secolo della nostra era —, quei navi- gatori recitavano una di queste tre preghiere. La quale dice: Madre di Cartagine, restituisco il remo. La Madre di Cartagine è la città di Tiro, la patria ori- ginaria di Didone. E poi, “restituisco il remo”. C’è qui qualcosa di straordinario: che il fenicio concepisse la vita solo come rematore. Ha concluso la sua vita e restituisce il remo perché altri seguitino a remare. L’altra delle preghiere è ancor più commovente: Dormo, poi ritorno a remare.
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