Non bisogna porre eccessiva attenzione al futuro a discapito del presente, anche perché, come è stato autorevolmente detto: "il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena".
Ci sono variabili che non possono in alcun modo essere previste, e purtroppo si tratta, nella maggior parte dei casi, di variabili negative, i cosiddetti cigni neri.
Un intero stormo di cigni neri stava per funestare il futuro radioso che Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini avevano previsto per sé e la propria discendenza e che, anche se loro se ne accorsero troppo tardi, era destinato a rimanere una specie di castello in aria, anche a causa di altre circostanze, questa volta premeditate, ma comunque difficilmente prevedibili.
Come dice un noto cantante: "a volte il destino ha più fantasia di noi". Ammesso che un destino esista, cosa opinabile, dato che la vita sembra piuttosto in balia di una cieca casualità o di una sfiga che invece ha dieci decimi di capacità visive oculari.
La città in cui i due sposi andarono a vivere, l'antica Forum Livii, mercato di granaglie e prodotti agricoli, che nel medioevo fu fieramente ghibellina, tanto da guadagnarsi l'aquila nera imperiale come stemma, e attualmente conosciuta con il nome non esaltante di Forlì, si rivelò, per loro figlio, una sorta di "natio borgo selvaggio" di leopardiana memoria.
La loro stessa abitazione, per quanto molto confortevole nel suo interno, si trovò ad essere turbata da un vicinato non del tutto amichevole.
Si trattava di un condominio che l'agente immobiliare aveva, con una certa immaginazione, definito "di lusso", situato nella zona residenziale di Forlì e comprendente otto appartamenti di circa duecento metri quadrati ciascuno, con ampi terrazzi, garages al piano terra, cantine nel seminterrato e un cortile esterno di tutto rispetto.
La cosa che i Monterovere non avevano previsto e che li atterrì come un fulmine a ciel sereno fu il fatto che il padre di Silvia, Ettore Ricci, senza aver detto nulla a nessun familiare, avesse comprato altri due appartamenti e ne avesse fatto dono al vecchio Michele Braghiri, il potentissimo amministratore del Feudo Orsini.
Alla fine, quando si trovò costretto a confermare le voci, disse che si trattava di un premio per la fedeltà della famiglia Braghiri e un dono per i figli di Michele e Ida, ma tutti pensarono, con validi fondamenti, che Michele stesse ricattando Ettore su certe vecchie questioni su cui era meglio che si continuasse a tacere.
Gli appartamenti acquistati da Ricci si trovavano tutti e tre al secondo piano.
In quello sulla sinistra andarono a vivere Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, verso la fine del 1974.
Nell'appartamento al centro, sempre al secondo piano, si stabilì Floriana Braghiri con il marito Sergio Pesaresi, gioielliere, e i due figli, Ivan e Igor, tutti e due grandi sportivi e giovani promesse del calcio.
Inutile dire che da quell'appartamento provenivano quasi sempre rumori molesti derivanti dalle partite di calcio viste in televisione con annesso tifo da stadio, ma quello era niente in confronto a ciò che avveniva nel terzo appartamento di quel piano.
Infatti l'appartamento sulla destra, la cui porta fronteggiava in maniera minacciosa quella dei Monterovere, andò a vivere niente meno che il loro principale antagonista Massimo Braghiri, con la moglie Elisabetta De Gubernatis, cugina di Silvia.
La rivalità tra la famiglia Braghiri e quella Monterovere fu degna dell'odio tra i Montecchi e i Capuleti di Verona, anche se in questo caso non ci furono né Giuliette, né Romei a mitigare il tutto.
Alcuni sussurravano che Massimo Braghiri tenessero sotto ricatto anche l'anziano suocero, il giudice De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini e quindi cognato di Ettore Ricci.
E per rendere più credibile la minaccia, la vecchia Ida Braghiri, madre di Massimo, insinuava aneddoti particolari sull'argomento, del tipo: <<Quando Ettore Ricci chiedeva al giudice se una tal cosa era legale, il vecchio De Benedictis era solito rispondere: "io la renderò legale">>-
Bastava questo per ricordare ai Ricci-Orsini e ai De Gubernatis un fatto incontestabile e cioè che il potere non è detenuto dai potenti ufficiali, ma da chi in segreto li ricatta.
Certo la soluzione del tutto sarebbe stata nel comportarsi fin dal principio in maniera integerrima, cosa praticamente impossibile nel ginepraio di leggi e cavilli che l'Italia già allora era diventata.
Gli altri condomini erano ancora più singolari.
Conosciamoli partendo dal primo piano, dove c'era una identica disposizione degli appartamenti.
Quello a sinistra era stato comprato da un impiegato della Prefettura, il dottore in legge Cesare Benito Semenzana, un "romano de Roma", così come sua moglie Sara. La coppia aveva due figlie: la grande, Ramona, assomigliava a un cavallo, ma era molto ambiziosa; la piccola, Federica, sembrava una Barbie, ma non brillava per intelletto.
Sia Cesare che Sara Semenzana erano accaniti fumatori, ma il marito fumava solo sigaracci toscani puzzolenti e la moglie solo sigarette nazionali altamente tossiche.
La coppia, che aveva lasciato la capitare per Forlì anche in omaggio al loro idolo, il Duce, era impegnata politicamente nel Movimento Sociale Italiano, e professava con tenacia le proprie convinzioni, che peraltro trapelavano anche da alcune scelte comportamentali.
In primo luogo lui era un grande esperto di armi e un cacciatore che avrebbe fatto impallidire Terminator.
Il suo aspetto cupo era reso ancora più minaccioso da due baffoni spioventi alla Bismarck.
Naturalmente aveva tre cani da caccia che teneva in tre rispettivi terrazzi, senza portarli in giro, di modo che le loro deiezioni corporali colavano direttamente nel cortile sottostante. Le povere bestie abbaiavano ad ogni ora del giorno e della notte.
Ci furono denunce, processi e diatribe giuridiche a non finire, ma all'epoca purtroppo non esisteva una legislazione mirata contro le molestie agli animali, e dunque nemmeno il Giudice De Gubernatis, la Signorina De Toschi con tutti i suoi avvocati e il Senatore Baroni, con tutti i suoi agganci politici, poterono contrastare le più influenti raccomandazioni in alto loco del Semenzana. Si diceva infatti che a Roma conoscesse personaggi importantissimi, tra cui lo stesso Andreotti, e che potesse persino vantare amicizie in Vaticano.
Floriana Braghiri, che una volta era entrata nel loro appartamento con qualche scusa ben architettata, era rimasta sconvolta da ciò che aveva visto e sentito. Corse subito a riferirlo a Silvia Ricci:
<<Hanno armi ovunque, trofei di caccia appesi alle pareti, una testa di cervo sopra il camino, e poi i busti del Duce dappertutto e nel suo studio ho visto perfino un ritratto di Hitler! E la moglie mi ha preso da parte e mi ha detto: "Lo sa di chi è la colpa di tutto?" E io: "Di chi?". E lei: "Degli Ebbbbrei" con venti "b" l'avrà detto. E c'era un puzzo di fumo che non ci si stava>>
Le parole della signora Floriana si rivelarono fondate.
Silvia, che era una donna pragmatica, ne trasse subito una conclusione incontestabile a cui si attenne per tutto il tempo a venire:
<<Be', se le cose stanno così, mi sa che è meglio non farli arrabbiare>>
Diversamente la pensava il vicino dell'appartamento di centro del primo piano e cioè il biologo Gualtiero Casadei, detto anche Casadei di Sotto, per non confonderlo con Casadei di Sopra del terzo piano.
Gualtiero e sua moglie Ornella erano libertari hippie anarco-comunisti con un passato da "figli dei fiori" con tento di camper e vita on the road, per cui si trovavano agli antipodi dei Semenzana, come mentalità, e passarono il resto dei loro giorni in perpetua lite coi vicini.
Del resto la vita di condomino è fatta così: per qualche incomprensibile ragione, il vicino di casa, specie quello che ha una parete di muro in comune, è sempre ai nostri antipodi, e perennemente in lite con noi.
Su un solo punto i Casadei di Sotto si trovavano in accordo con i Semenzana, e cioè il tabagismo: Gualtiero fumava le Marlboro, Ornella le Gitanes, ed entrambi, ovviamente, gli spinelli di cannabis.
Nei momenti in cui erano sotto l'effetto dell'erba, assumevano una preoccupante tendenza a elaborare iniziative progressiste e culturali da sottoporre all'attenzione dei cari amici condomini, attaccando bottone col minimo pretesto e perdendosi in discorsi tanto fumosi quanto ciò che li aveva ispirati.
Il problema maggiore era però il fatto che in quei momenti si spostavano col camper anche per andare alla Conad, e siccome quel pachiderma non entrava nel garage, lo tenevano parcheggiato vicino al cancello, in una posizione che quasi impediva l'ingresso agli altri veicoli.
Se qualcuno osava protestare, loro minacciavano di comprare un altro camper, e ne sarebbero stati di certo capaci, per questo si ritenne meglio evitare polemiche.
Il terzo condomino del primo piano, sulla destra, era ancora più bizzarro degli altri.
Si trattava di un certo Luciano Bonetti, ingenere meccanico, soprannominato il Potatore Folle per la sua mania ossessivo-compulsiva di trascorrere ogni fine settimana tagliando il prato (fiori compresi), potando le siepi in modo da farle sembrare dei cubi di plastica e riducendo gli alberi a tronchi smozzicati con pochi sparuti germogli.
Alla fine di questo scempio, naturalmente, lavava la macchina, la lucidava e poi rimaneva a fissarla con due occhi sbarrati, come se avesse in mente di "potare" anche gli specchietti e i tergicristalli, e non solo del suo veicolo.
La moglie di Bonetti, Manuela, era completamente sottomessa al marito e ai figli.
Ne avevano due: il maschio, Loris, era fissato col motociclismo fin dalla primissima infanzia; la femmina, Marina, era l'unica sana di mente in famiglia e forse nell'intero condominio.
Concludiamo questa rassegna passando "al piani alto", il terzo.
Lassù in cima c'erano solo due appartamenti molto grandi.
In quello sulla sinistra si alternarono numerosi condomini, tutti ritenuti vittime del maleficio lasciato dalla prima proprietaria, la famigerata vedova Schiavina (il suo nome proprio era ignoto, così come il suo cognome da ragazza), che aveva ereditato l'azienda del defunto marito e aveva fama di essere, oltre che una ninfomane insaziabile (la sfilata dei suoi amanti era interminabile su e giù per le scale), anche un'esperta in stregoneria.
Tale convinzione fu suffragata dal fatto che, dopo la dipartita della vedova, i successivi proprietari non rimasero in quell'appartamento per più di due o tre anni, nei quali la malasorte li colpiva con ogni avversità.
Dall'altro lato, a tenere testa al maleficio, c'erano i Casadei di Sopra.
Il capofamiglia era l'integerrimo cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, detto il Censore, per la sua severità e parsimonia, ma soprannominato anche "il Rospo" per la sua inarrivabile bruttezza.
Sua moglie Leni era una tedesca bavarese conosciuta durante uno degli innumerevoli viaggi di lavoro del Rospo, in un momento di disinibizione dovuta agli effetti di una birra scura sottocosto all'Oktoberfest.
In molti si chiedevano come mai Helena Gruber, detta Leni, avesse sposato Casadei di Sopra, anche se circolava una leggenda metropolitana secondo cui la bionda tedesca avesse sperato, purtroppo invano, che baciando il Rospo, lui si trasformasse in un principe. Ma la vita non è una favola, e dunque, inevitabilmente, anche dopo il bacio, il Rospo era rimasto tale.
Inoltre, la sua espressione eternamente accigliata, così come l'esposizione al sole del deserto del Qatar, negli anni gloriosi in cui andava in cerca di petrolio, avevano prodotto nel volto di Arnaldo Casadei delle rughe enormi, spropositate, come dei fossi, dei solchi che si diramavano dal naso in tutte le direzioni.
Una volta Silvia lo descrisse in questo modo: "Le sue rughe sembrano i raggi di un sole, ma un sole brutto" e da allora il Sole Brutto divenne il terzo appellativo di Casadei di Sopra.
Ma lui non sembrava particolarmente preoccupato per la propria bruttezza, come del resto accade agli uomini ricchi e in carriera, che più che altro sono interessanti a diventare sempre più ricchi.
Come diceva la buon'anima di Tsa Tsa Gabor, "un uomo ricco è sempre bello" e il cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, era decisamente un uomo ricco.
Ebbero una figlia, Adele, che per sua fortuna assomigliava alla madre nel fisico e al padre nel carattere.
Il Censore seppe comunque guidare il condominio dal punto di vista decisionale, mettendo in riga persino l'amministratore, o deponendolo qualora gli fosse parso inefficiente o inaffidabile, cioè quasi sempre.
Da questa prima rassegna si può capire come quel luogo non fosse proprio il massimo per ospitare il "nido d'amore" da cui i coniugi Monterovere avrebbero dovuto dar vita ad una numerosa famiglia, che non fu affatto numerosa, dal momento che il primo figlio si rivelò talmente impegnativo da farli desistere da ogni altra velleità genitoriale.