L'Istituto di Credito di fiducia del clan Ricci-Orsini, di cui è saggio e pietoso tacere persino il nome, era chiamato, dagli addetti ai lavori, "la Bancaccia", per alcune sue abitudini non proprio consone ai criteri dell'onestà e dell'efficienza amministrativa, tra cui l'assunzione di soli raccomandati, il prestito conferito a fondo perduto agli amici e ai potenti e l'abitudine di ricorrere, già a quei tempi, al salvataggio pubblico tramite provvidenziali interventi politici.
Il Consiglio di Amministrazione era infatti nominato da alcune Fondazioni le quali a loro volta facevano capo ad alcuni partiti politici molto forti in Romagna: il Partito Repubblicano Italiano, in primis e la Democrazia Cristiana in secundis.
C'era poi anche il Partito Socialista, seppure, all'epoca, non fosse ancora entrato nell'era craxiana, e dunque mantenesse una condizione un po' "troppo di sinistra" agli occhi degli azionisti e dei clienti più in vista, tra i quali Ettore Ricci.
Non a caso il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Leandro Baroni, il Senatore democristiano marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore.
L'Amministratore Delegato era il repubblicano Giuseppe Saffi Bargotti, molto amico del giudice De Gubernatis, altro cognato di Ettore, su cui ritorneremo tra poco.
Il direttore generale, Pio Catellani, era un altro notabile democristiano, che poi divenne deputato.
Ma ancor più della politica, contavano le parentele con le famiglie di spicco.
Per questa ragione la triade Baroni, Saffi e Catellani aveva garantito crediti sempre più consistenti alla Società in Accomandita Semplice "Ricci-Orsini, Spreti e Zanetti" che gestiva il Feudo Orsini di Casemurate e le sue dipendenze, che da sole comprendevano più della metà delle terre della Contea di Casemurate e del Comune di Cervia.
C'erano altri possidenti che incominciavano a farsi strada, tra cui un certo Cassio Baglioni, che non era parente cantante, benché millantasse di esserlo e che era anche proprietario di un mulino e di un inceneritore.
C'era anche, tra gli homines novi, altro tizio che rispondeva al nome di Luciano Bastiani, detto "Bastianone", proprietario di un enorme pollaio e di un ancora più enorme porcile. Ma all'epoca questi personaggio erano soltanto dei comprimari.
Il Senatore Baroni e l'Amministratore Saffi avevano fatto assumere come Capo Ufficio Legale della Bancaccia l'avvocato Goffredo De Gubernatis, fratello minore del giudice Gugliemo De Gubernatis, marito fedifrago di Ginevra Orsini e padre di Elisabetta Braghiri e Anna Trombatore, le due terribili gemelle sposate alle lingue biforcute più velenose della città.
Goffredo De Gubernatis, ormai cinquantenne, era noto per le stravaganze del suo carattere.
La sua nomina, per quanto scandalosa, non aveva meravigliato nessuno.
L’Ufficio Legale, infatti, era soprannominato “Ufficio Raccomandati e figli di...”.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un pedegree di una certa importanza, almeno localmente.
Goffredo non era sposato: l’unico grande amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente “Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita dependance delle stalle di Villa Orsini.
In ufficio Goffredo De Gubernatis si comportava in modo ambiguo: da un lato ostentava una melensa e fasulla umiltà, si faceva dare del tu e chiamare per nome dai dipendenti, sembrava, tanto che i più ingenui dicevano di lui che era “un così buon uomo!”.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti segni di lunaticità e nevrosi, e soprattutto repentini sbalzi d'umore, a metà strada tra il disturbo borderline e quello bipolare.
Alcuni giorni, quando si svegliava euforico, arrivava in ufficio con ritardi imbarazzanti, leggeva tranquillamente il giornale tutta la mattina, si prendeva delle pause-caffè che duravano ore oppure rimaneva come inebetito con lo sguardo perso nel vuoto mentre nel reparto regnava la più assoluta anarchia.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre, diventava irascibile, dispotico, puntiglioso e provocatorio. Bastava il minimo errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare drammatiche scenate, crisi isteriche, inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Non era mai arrivato alla rissa soltanto perché sapeva benissimo che, esile com'era, avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato inadempiente», il dott. Papisco gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la correzione.
I componenti dell’Ufficio Legale, però, si erano abituati a queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione.
Erano disposti a passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio.
Ciò sarebbe stato per loro assolutamente inconcepibile.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di “sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane e volenteroso dottor Valentini, fanatico giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto di eccellere nella sua materia, sia per una spontanea e talvolta perniciosa energia organizzativa.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli & Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti, l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di questioni legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro incarichi e le loro mansioni, e del resto non facevano assolutamente niente, se non spettegolare su tutto e su tutti dalla mattina alla sera.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da Gazzetta Ufficiale del Gossip: nulla di ciò che accadeva presso l’alta società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle due onnipresenti signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre “essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi, parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature e persino rivendicazioni femministe.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato, scarmigliato, distratto, volenteroso lavoratore, ma mediocre e pasticcione.
Scribacchiava continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci semiaccartocciati e macchiati, che tentava poi di ricopiare con la macchina da scrivere, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra. Insomma, una specie di Belluca della novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il geometra Cipressi: uomo alto, magro, riservatissimo, taciturno al punto da apparire muto, pareva sempre immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo.
Neppure il Capo ufficio Goffredo Papisco riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi: quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo, quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava in un nulla di fatto.
Questa situazione da Castello kafkiano era tenuta in piedi dal solo ed esclusivo collante dell'alleanza politica, economica e familiare tra i vari partiti politici e i principali esponenti delle famiglie di spicco dell'alta società forlivese, che trovava il suo vertice nel clan Ricci-Orsini.
Eppure c'era un anello debole, ed era proprio Goffredo De Gubernatis, che nascondeva un segreto talmente imbarazzante che non aveva mai confidato a nessuno. Anche questo giocò un ruolo determinante, quando il castello di carta del clan Ricci-Orsini incominciò a traballare, perché a questo mondo esiste una regola aurea: niente è eterno e niente è indistruttibile.
Bisogna solo avere pazienza e fare di tutto per sopravvivere così a lungo da vedere il crepuscolo degli dei.
Per gli invidiosi la pazienza e la sopravvivenza sono sempre le due alleate fondamentali, ma restano comunque aperti alcuni quesiti. Primo: ne vale la pena? Secondo: cos'è la sopravvivenza se si è perduta l'integrità? Terzo: possono davvero bastare queste motivazioni, in mancanza di un nobile scopo?
Da lungo tempo Diana Orsini, che pure non nutriva risentimento per tutto il dolore che Ettore le aveva causato, si era data un'unica risposta: senza un nobile scopo che dia un senso alla nostra sopravvivenza, noi non siamo niente.