In un ipotetico mondo perfetto e razionale, governato da un ordine geometrico euclideo, Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere sarebbero stati come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, se non, astrattamente, all'infinito.
Ma il cosmo, a dispetto del suo stesso nome, è talmente complesso e caotico da sfuggire ad ogni modello matematico per mezzo del quale gli scienziati vorrebbero ingabbiarlo, e per quanto ci si sforzi di trovare una formula che riesca a ricondurre le leggi fisiche ad un unico grande disegno, prima o poi si giunge, più o meno apertamente, alla rivelazione secondo cui i principi fondamentali dell'universo restano pur sempre l'errore e il caso.
E' soltanto alla luce di questa considerazione che si può tentare di capire come sia stato possibile che due personalità così distanti da sembrare incompatibili abbiano deciso di unire i loro destini per il resto della vita "nel sacro vincolo del matrimonio", e siano riusciti, nonostante ogni genere di avversità e di probabilità, a mantener fede a questo giuramento per mezzo secolo, fino all'ultimo respiro.
I loro stessi familiari, e più di tutti gli altri il loro figlio ed erede, Roberto Monterovere, avrebbero trascorso la vita intera domandandosi che cosa mai li avesse spinti, in un lontano giorno degli Anni Settanta, a finire l'una delle braccia dell'altro per poi proseguire questa unione contro ogni pronostico, attribuendo all'arbitrarietà del fatto compiuto e poi all'abitudine, il colore rosa pallido di un sentimento indefinibile e quello rosso sangue che lega per sempre i complici in un crimine.
Della natura di questo crimine, se di crimine si può parlare, tratteremo nel prossimo capitolo.
Prima di tutto, infatti, è necessario cercare di ricostruire la sottile dinamica degli eventi che precedettero e favorirono il loro primo incontro e quali meccanismi si misero in moto, all'inizio in maniera quasi impercettibile, poi gradualmente in maniera via via più marcata, verso una direzione che rimase comunque incerta fino all'ultimo e quasi sconosciuta negli esiti non solo ai testimoni, ma persino ai protagonisti.
Non c'è da prestar fede ai racconti celebrativi confezionati col senno di poi, mezzo secolo dopo: si tratta solo di ricostruzioni ex post , che poggiano la loro precaria sicurezza sul fatto che il tempo funge da collante per tutto ciò che si sedimenta, comprese le coppie, e conferisce un'aura di venerabilità a tutto ciò che è longevo.
Le abitudini diventano tradizioni, gli errori si trasformano, nel ricordo, in scelte ponderate e il caso assume le sembianze inconfutabili della necessità.
Gli inizi furono invece alquanto incerti e fumosi, frutto di equivoci e malintesi, tali per cui entrambi svilupparono inizialmente l'uno riguardo all'altra, prima ancora che avessero avuto occasione di parlarsi, un'idea non del tutto corrispondente alla realtà.
Del resto bisogna tener presente che ognuno dei due, quando immaginava chi sarebbe potuto essere un eventuale futuro coniuge, partiva dal presupposto che non si sarebbero dovute in alcun modo riprodurre le dinamiche del rapporto coniugale dei propri genitori, che veniva preso come modello negativo da evitare come la peste.
Non essendo colleghi di sezione, Silvia e Francesco si erano soltanto visti di straforo, senza mai aver avuto l'occasione di parlare o di essere presentati.
Del resto, nessuno dei due era particolarmente portato a socializzare: avevano alcuni amici, ma non tanti, e questo perché una delle poche cose che condividevano era la convinzione che le persone oneste e sincere non hanno tanti amici.
Non si erano nemmeno, per così dire, "notati", e questo perché Francesco, per natura, aveva sempre la testa tra le nuvole, ed era quasi completamente privo di memoria visiva, mentre Silvia, che al contrario aveva lo spirito di osservazione di un detective, non era rimasta particolarmente colpita da quel personaggio allampanato e trasandato.
A svolgere il ruolo di Cupido, seppur in maniera non intenzionale, fu il professor Giovannelli, amico di entrambi, e animatore di un gruppo di colleghi che organizzava gite, pranzi, cene ed altri eventi ricreativi.
Da quel gruppo, va subito precisato, era escluso Massimo Braghiri, non solo per la sua presunzione e il suo livore verso chiunque potesse metterlo in ombra, ma anche per la ben nota legge secondo cui non ci possono essere due galli nel pollaio.
E infatti non era un caso se la cerchia, per lo più femminile, animata da Piero Giovannelli, era chiamata da tutti "il club di Piero".
A questa elite erano ammesse solo persone selezionate con cura.
I requisiti essenziali consistevano principalmente nell'essere persone "di cultura e di spirito", con raffinato senso dell'umorismo, ma senza la pretesa di stare al centro dell'attenzione, ruolo che spettava indiscutibilmente, quasi per diritto divino, al professor Giovannelli.
Silvia era stata tra le prime ad essere cooptata tra i "soci fondatori" di quel gruppo, mentre per molto tempo Francesco Monterovere non aveva ricevuto alcun invito.
E tuttavia fu proprio il suo modo di fare distratto e maldestro che attirò la curiosità di Piero Giovannelli, che lo trovava particolarmente buffo e nel contempo innocuo, due elementi che ispiravano una certa simpatia.
Fu così che un giorno, mentre si trovavano alla macchinetta del caffé, Giovannelli attaccò bottone con Francesco, e scoprì, con una certa meraviglia, che il collega Monterovere aveva tutti i requisiti per entrare nel suo club.
Prima di presentarlo ufficialmente agli altri membri, però, gliene volle dare, in anticipo, una descrizione informale.
Quando fu il momento di parlare di Silvia Ricci-Orsini, il prof. Giovanelli sondò il terreno:
<<Tu non hai mai sentito parlare di lei o della sua famiglia?>>
Francesco, come al solito, cadde dalle nuvole:
<<No... io vengo da Faenza>>
Lo disse come se Faenza distasse da Forlì quanto il Polo Nord dall'Equatore.
Piero Giovannelli sorrise con l'indulgente bonomia che si riserverebbe a un bambino o a un simpatico animaletto da compagnia:
<<Il clan Ricci-Orsini è un insieme di famiglie che controllano praticamente tutto dalle nostre parti, e al vertice di questa potenza ci sono proprio i genitori di Silvia, e cioè Ettore Ricci, un uomo d'affari spregiudicato e la nobildonna Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che ai suoi tempi è stata una bellezza leggendaria, e ancora oggi è una specie di icona, un mito vivente>>
Chiunque altro sarebbe rimasto colpito da quel tipo di discorso, ma la reazione di Francesco Monterovere fu del tutto diversa:
<<Casemurate... ho già sentito quel nome... cosa c'è una specie di casello autostradale da quelle parti?>>
Giovannelli, che non aveva nemmeno la patente, trovò quella risposta particolarmente buffa:
<<Ah, ah, che soggetto che sei... comunque penso di sì, dev'esserci la stazione del Bevano, che è il torrente che passa di fianco a Villa Orsini>>
A quel punto Francesco ebbe una specie di illuminazione:
<<Bevano, sì... ne ho sentito parlare da mio padre, che lavora in un'azienda escavatrice e idraulica. Hanno vinto un appalto per far passare un canale di irrigazione da quelle parti>>
Gli occhi di Piero Giovannelli si illuminarono, nell'intravedere, in questa informazione, un preavviso di eventi interessanti:
<<Un canale nel bel mezzo del Feudo Orsini? Non credo proprio che Ettore Ricci lo permetterà!>>
Francesco non capiva:
<<E perché non dovrebbe? Conviene anche a lui. E' poi è un'opera pubblica, la pagheranno gli enti locali, penso. E per la terra requisita credo che ci sarà un qualche indennizzo...>>
Giovanelli rise:
<<Terra requisita? Ah ah ah! Ettore scatenerà l'inferno>>
Francesco era sempre più confuso:
<<Non capisco...>>
<<Tu non hai la minima idea...>>
<<Di cosa?>>
<<Di tutto>>
E a quel punto suonò la fine della ricreazione, lasciando Francesco Monterovere con un palmo di naso.
Per la prima volta, quel giorno, alla fine delle lezioni, osservò Silvia con attenzione.
Ciò che prima gli era parso come il frutto di un'eccessiva cura di sé, di ore trascorse dal parrucchiere e dall'estetista, o dal sarto e dal calzolaio, per rendersi più bella e più alta, gli si rivelò essere in realtà una naturale e spontanea tendenza al buon gusto, appresa tra le mura domestiche, assunta e assimilata insieme al latte materno.
Ed era naturale che fosse così, ora lo sapeva per certo, se sua madre era davvero, come il Giovannelli asseriva, "una bellezza leggendaria, una specie di icona, un mito vivente", nonché la "diciottesima Contessa Orsini di Casemurate".
Come per incanto, tutte le diciotto generazioni di nobildonne che avevano preceduto Silvia, apparvero improvvisamente disegnate nei suoi tratti, che Francesco trovò simili a quelli dell'attrice francese Anouk Aimée, per la quale aveva provato qualcosa di simile ad un innamoramento, quando l'aveva vista recitare ne La dolce vita e in Fellini 8 e 1/2.
Quella somiglianza, che gli era parsa tale soltanto dopo le informazioni ricevute dal Giovannelli, fu decisiva nel trasformare, agli occhi di Francesco, la collega Silvia Ricci-Orsini in una sorta di creatura mitologica, sicuramente dotata delle massime doti del corpo e dello spirito, che fino a quel giorno gli erano rimaste celate, come il Noumeno kantiano dietro a quello che Schopenauer, memore della sapienza induista, chiamava "Il velo di Maya".
Quando tornò a casa, Francesco chiese a suo padre se conosceva qualcosa riguardo a Ettore Ricci e Diana Orsini.
Romano Monterovere sgranò i suoi famosi occhi di ghiaccio e guardò il figlio con una nuova considerazione:
<<Vedo che finalmente hai deciso di interessarti agli affari di famiglia! Ettore Ricci possiede o controlla per mezzo di alleanze strategiche, quasi tutte le terre che vanno da Forlì a Ravenna. Suo padre era un contadino, ma aveva il bernoccolo degli affari, ed è riuscito a farlo sposare con...>>
<<Con la mitica Diana Orsini di Casemurate, una leggenda vivente>> concluse Francesco.
Romano lo fissò:
<<Come fai a saperlo, tu che hai sempre la testa per aria e non ti sei mai degnato di chiedermi chi è che ci sta creando tanti problemi per il tracciato del Canale Emiliano Romagnolo?>>
Francesco, contento di essere riuscito, forse per la prima volta in vita sua, ad impressionare il padre, dichiarò:
<<Silvia Ricci-Orsini, la figlia di Ettore e Diana, è mia collega, a scuola>>
Romano era scettico;
<<Con tutti i soldi che hanno i suoi, non capisco perché debba abbassarsi a insegnare in un istituto tecnico>>
Francesco sorrise:
<<Forse perché non vuole dipendere dai soldi del padre, e in questo avrebbe tutta la mia comprensione. E comunque l'insegnamento è una nobile arte>>
Romano scosse il capo in segno di generica e universale disapprovazione:
<<Dev'essere una testa calda come te. O come sua madre... perché circolano molte voci su tutti gli scandali che hanno avuto come protagonista donna Diana e la sua cerchia più intima: fratelli, sorelle, amanti, tutti coinvolti in vicende oscure, compresi tradimenti, incidenti mortali e presunti suicidi>>
E qui si mise a raccontare ciò che noi già conosciamo più approfonditamente e in maniera più corretta.
La versione data da Romano a suo figlio, riguardo a tutte le leggende che si narravano con grande immaginazione riguardo alla contessa Diana e al clan Ricci-Orsini, manco fosse la Famiglia Reale Inglese, non fece altro che proiettare intorno all'immagine di Silvia un'aura di luce semi-divina, che abbagliò Francesco in modo irreparabile, folgorandolo come Paolo sulla via di Damasco.