Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
mercoledì 30 settembre 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 87. Presagi di tempesta.
"Nessuna creatura sulla terra è tanto spaventosa quanto un uomo integerrimo", così George Martin fa dire a Lord Varys in riferimento all'inflessibile Stannis Baratheon.
Ettore Ricci sarebbe stato assolutamente d'accordo, e del resto, una delle affermazioni che esprimeva più spesso era la seguente: "Se qualcuno volesse rispettare tutte le leggi esistenti in Italia, non riuscirebbe più a muovere un dito".
E in questo non aveva tutti i torti. La Repubblica Italiana, già a metà degli anni '80 del XX secolo, era un paese sommerso da un profluvio immane di leggi, regolamenti, direttive, circolari, codicilli, consuetudini, obblighi e divieti che, in maniera pletorica, farraginosa e con un linguaggio a dir poco incomprensibile, asserivano tutto e il contrario di tutto su qualsiasi cosa, dando vita a un mostro burocratico tale da disincentivare sul nascere ogni iniziativa privata.
Non diciamo questo per giustificare gli errori di Ettore Ricci, alcuni dei quali furono commessi con tale ingenuità da farlo sembrare più che altro uno sprovveduto di un ladro di polli, ma per ricordare che i procedimenti giudiziari in cui si trovò coinvolto, suo malgrado, gli offrirono un palcoscenico dal quale egli, grazie alle sue innate doti istrioniche, diede vita ad una sferzante satira a sfondo socio-politico che non risparmiò nessuno di quelli (e furono tanti) che, pur essendo molto più colpevoli di lui, scagliarono infinite pietre nel tentativo di lapidarlo.
Ma procediamo per gradi.
La prima grana legale, nel 1985, fu una questione relativamente di poco conto e cioè una denuncia per abuso edilizio riguardo alla costruzione delle tre ville di Cervia (una per figlia) su una specie di collinetta artificiale che oscurava la visuale dei vicini, in particolare quella del signor Mario Strambelli, noto alcolista, che si era già vendicato versando, nottetempo, secchi pieni di deiezioni liquide innominabili nel giardino della villa adiacente, quella di Margherita Spreti di Serachieda, provocando olezzi nauseabondi e una moria di ortensie di tale entità da causare dolorose afflizioni alla figlia primogenita di Ettore Ricci, e una rabbia incontenibile in suo padre.
Oltre alla questione della "collina abusiva", c'erano altri elementi "non a norma", passibili al massimo dell'accusa di "pacchianeria da parvenu", come ad esempio alcuni garages adibiti a dependances, una fontana con sirene a seno scoperto dai cui capezzoli si sprigionavano cascatelle di acqua "salsobromoiodica", un gazebo fisso a cupola fatto passare come pergolato grazie a una ricopertura di glicini fronzuti,e infine l'immancabile piscinetta fuori terra in PVC rivestita di legno.
All'epoca tutto questo era la norma, non l'eccezione, ma lo scopo della denuncia di Strambelli quasi sicuramente istigato da Massimo Braghiri, era attirare l'attenzione della Guardia di Finanza su quello che ormai, anche a Cervia, era noto come "il clan Ricci-Orsini".
La cosa più sorprendente fu che la Finanza, mentre perquisiva il famoso garage adibito a dependance, trovò una serie di contratti di locazione di appartamenti situati in alcuni immobili nelle vicinanze, che risultavano di proprietà di Ettore Ricci.
Tali contratti riportavano, oltre alla firma dei locatari, quella di Michele Braghiri in qualità di amministratore e mediatore, ma la cosa più rilevante fu che il reddito di tali locazioni non era stato denunciato al Fisco.
La Procura di Ravenna aprì dunque un secondo fascicolo a carico di Ettore Ricci, il quale cadde dalle nuvole:
<<Io non sono un evasore! Delle questioni fiscali si occupava quella canaglia di Michele Braghiri! Lui aveva le deleghe su tutto, compresa la denuncia dei redditi! Io ho solo firmato delle deleghe, ed è stato in buona fede... insomma, non ci si capiva un accidente in quei documenti. E poi come hanno fatto quelle carte a finire in quel garage? E' ovvio che qualcuno mi vuole screditare! Qui sono io la parte lesa!>>
Ma purtroppo le brutte sorprese non erano finite.
Da quegli stessi contratti rinvenuti nel garage/dependance, risultò che le locatarie erano per lo più ragazze, di professione massaggiatrici in un centro estetico aperto solo d'estate, le quali d'inverno vivevano con un sussidio di disoccupazione insufficiente per pagare l'affitto, che comunque risultava regolarmente versato in un conto riconducibile ad Ettore Ricci.
Anche qui non mancarono malevole illazioni dello stesso Mario Strambelli, riguardo ad "un insolito via vai" di distinti signori di mezza età nel condominio di proprietà del signor Ricci.
Questo fu sufficiente per un terzo procedimento di indagine per presunto "favoreggiamento della prostituzione".
Ettore era fuori di sé dalla rabbia: <<Ma questo è ridicolo! Io sono un imprenditore di alto livello, non ho certo bisogno di fare il magnaccia a tempo perso! E' stato quel bastardo di Michele Braghiri ad architettare tutto per rovinarmi! E quell'altro pendaglio da forca di Strambelli non aspettava altro per incastrarmi con una falsa testimonianza!>>
Lo diceva rivolto alle sorelle, ma con voce sufficientemente alta affinché lo sentisse anche la Governante, sospettata di essere "la talpa" o la "gola profonda" della situazione.
<<Dobbiamo licenziare Ida Braghiri e denunciare lei e suo figlio per diffamazione!>> esclamò la sorella nubile Adriana, che viveva con lui a Villa Orsini.
Ettore annuì:
<<Sì, è arrivato il momento della resa dei conti>>
Ma l'altra sorella presente, Maria Teresa, non era d'accordo:
<<E credi che i giudici ti daranno ragione? Guarda che non hai più nessun protettore politico. Non avresti dovuto rifiutarti di pagare i debiti di Oreste e Roderico. In quel modo hai perso il sostegno del Senatore Baroni>>
Ettore batté un pugno sulla scrivania del suo studio:
<<Quegli idioti di Oreste e Roderico se la sono cercata, nonostante io li avessi avvertiti mille volte di vendere le loro quote del Banco Ambrosiano. E se anche gli avessi concesso quel prestito, si sarebbero messi nei guai di nuovo, buttando nel cesso i miei soldi e la mia fatica.
Quanto a Baroni, la cosa meno sgradevole che posso dire di lui è che è un gran figlio di puttana>>
Adriana sospirò:
<<Sì, ma era il "nostro" figlio di puttana. La politica funziona così. Me l'hai insegnato tu>>
Ettore le congedò e rimase fisso con lo sguardo nel vuoto, in attesa di un miracolo.
E il miracolo arrivò. Inaspettatamente, infatti, a schierarsi in modo immediato e totale dalla parte di Ettore fu sua moglie Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che pure avrebbe avuto milioni di motivi per dubitare di lui, ma c'era in gioco l'onore, l'unità e la sopravvivenza stessa della dinastia e del Feudo:
<<Vogliono infangare il buon nome dei Ricci-Orsini e distruggere la nostra famiglia. Ma noi dimostreremo a tutti di essere uniti, compatti e soprattutto innocenti.
Avrai tanti difetti Ettore, ma non sei un criminale. Io so chi sei. Non si passa tutta la vita accanto a un uomo senza sapere chi è.
Io so chi sei. E ci difenderemo!>>
Lui si commosse:
<<Oh, Diana... le mie vere e uniche colpe sono verso di te: non sono stato capace di meritarmi il tuo amore, né di difendere la tua famiglia, la nostra famiglia...>>
Diana gli rivolse uno sguardo incredibilmente benevolo:
<<Queste sono anche le mie colpe. Mi sono rintanata nella mia stanza per anni, a leggere, a vivere la vita di altre persone che nemmeno esistevano e ho fatto di tutto per sfuggire alla realtà e alle mie responsabilità.
Tu avevi bisogno di una moglie che ti comprendesse, che ti sostenesse, che ricambiasse i tuoi sentimenti.
Se io fossi stata quel tipo di moglie, forse molto dolore si sarebbe potuto evitare.
Ma siamo ancora in tempo, Ettore...
Non so quanto ci resta da vivere, ma ti prometto che d'ora in avanti sarò per te quello che avrei dovuto essere fin dall'inizio>>
Ettore era confuso e farfugliava:
<<Ma io non sono mai stato alla tua altezza. Tu hai avuto con me fin troppa pazienza. Non merito il tuo perdono...>>
Lei sorrise, ed era una cosa talmente rara da essere meravigliosa a vedersi, come l'apparizione di una dea:
<<Qualunque possano essere state le tue responsabilità, hai già scontato la tua pena in questi lunghi anni di tormento. Io ho visto quanto soffrivi, e non ho fatto niente per alleviare quella sofferenza. Ora è tempo di dimenticare i fantasmi del passato.
Dimentichiamo i morti, le loro tombe sprofondano nella cenere.
Pensiamo ai vivi, alle nostre figlie, ai nostri nipoti... se ci vogliono così bene, vorrà pur dire che qualcosa di buono l'abbiamo fatto, non trovi?>>
Ettore le prese la mano, quella mano ancora così bianca e diafana, come quella di una fata:
<<Sì, senza nemmeno rendercene conto, qualcosa di buono l'abbiamo fatto davvero>>
giovedì 24 settembre 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 86. La fine dell'innocenza
L'estate del 1984 fu l'ultima pienamente felice nella vita di Roberto Monterovere e della sua famiglia.
Roberto aveva nove anni e fino ad allora le stranezze del suo carattere non avevano intaccato il suo buon umore.
A dominare su tutto c'era un'esigenza di libertà quasi selvaggia, tipica di chi è cresciuto in campagna, a diretto contatto con la natura, come una specie di ragazzo della jungla o di Tarzan, che preferiva la compagnia degli animali a quella degli esseri umani (eccettuati i familiari e pochi amici accuratamente selezionati, tra cui quella gatta morta di Vittorio Braghiri e alcuni compagni di classe).
Se fosse dipeso da lui, Roberto sarebbe vissuto tutto l'anno con i nonni materni a Villa Orsini, in campagna, nella Contea di Casemurate.
La sua residenza cittadina di Forlì non aveva ancora assunto il ruolo centrale di "casa" nel senso pieno del termine (la "home" inglese, per intenderci) e la villetta al mare di Cervia era stata fin dall'inizio un luogo ambivalente, teatro di esperienze mai del tutto positive, come avremo modo di vedere in seguito.
Casemurate era dunque il luogo dei piaceri e dei divertimenti, mentre Forlì era il luogo dei doveri e delle costrizioni.
In termini psicoanalitici si sarebbe potuto dire che Casemurate rappresentava il Principio del Piacere, mentre Forlì era la sede del Principio di Realtà, e dunque anche delle responsabilità sociali.
Questo, tuttavia, dipendeva solo in minima parte dal fatto che la scuola frequentata da Roberto si trovasse a Forlì, perché con i compagni di classe delle elementari andava d'accordo e negli studi andava bene, per quanto l'impegno diventasse sempre maggiore e richiedesse i primi sacrifici.
Le costrizioni maggiori non riguardavano lo studio, ma le attività sportive che i genitori gli avevano imposto in buona fede, secondo il principio mens sana in corpore sano.
Tali sport erano l'atletica e il nuoto. Entrambe erano per lui una gran seccatura, me mentre il nuoto, tutto sommato, gli piaceva, l'atletica, specie nei suoi aspetti agonistici, come la staffetta, era da lui vissuta in maniera ansiosa e stressante.
Allo stesso modo provava ansia da prestazione nei giochi infantili dell'epoca, tipo rubabandiera, che invece piaceva tanto ai suoi coetanei.
Ma la vera catastrofe, quella che avrebbe avuto conseguenze devastanti nella sua vita, era la sua negazione totale per gli sport di squadra, specie quelli che ruotavano intorno al pallone.
Nella prima infanzia si era limitato a provare disinteresse per quell'attività che gli pareva piuttosto stupida.
Col passare del tempo, quando fu costretto a mettersi in gioco dalle circostanze, si rese conto di essere fisicamente deficitario per quel tipo di sport, a causa di una mancanza di coordinamento motorio ereditata dai geni dei Monterovere.
Quella presa di coscienza fu indubbiamente una ferita narcisistica, resa ancor più dolorosa dal malcelato atteggiamento di sufficienza che Vittorio Braghiri mostrava al riguardo nei suoi confronti, ma all'epoca Roberto non si era ancora reso conto di quanto quell'handicap avrebbe pesato negli anni futuri.
In fondo, a quei tempi, bastava tornare a Villa Orsini di Casemurate per dissipare ogni preoccupazione.
Quello era il suo paradiso e lì era pienamente felice.
Non si accorgeva delle crepe che stavano lentamente, ma inesorabilmente indebolendo quel "piccolo mondo antico".
Il nonno Ettore appariva preoccupato da molte questioni di cui parlava in gran segreto soltanto con i soci che insieme a lui controllavano il Feudo Orsini.
Persino il Salotto Liberty si era fatto più cupo.
La bisnonna Emilia, dietro raccomandazione dei medici, aveva gradualmente smesso di bere i suoi adorati vini, ma questo aveva depresso il suo umore e annientato la sua volontà di vivere.
La nonna Diana, oltre che essere preoccupata per la madre e il marito, era ormai ai ferri corti con la governante Ida Braghiri, e questo gelo tra la Contessa e l' "Arzdora" aveva raffreddato ulteriormente il clima del Salotto e non solo di quello.
Roberto aveva cercato di non dare troppo peso a questi segnali di crisi, ma un giorno, durante una passeggiata sulle rive del Bevano, Diana aveva deciso di rendere partecipe il nipote di alcune questioni che non potevano essere più taciute.
Avevano superato il filare dei gelsi e si erano seduti nel boschetto di querce sorto intorno ad un'antica torretta di guardia degli Orsini, un rudere che la Contessa di Casemurate aveva sempre considerato come un luogo di pace, profonda intimità, adatto alla meditazione, ma anche alle confidenze.
<<Roberto, tu stai crescendo, e credo sia giunto il momento di dirti alcune cose.
Vedi, la nostra famiglia ha una lunga storia, non sempre piacevole.
Tu hai visto finora soltanto il lato buono di questa storia, come era giusto che fosse, ma sarebbe sbagliato far finta che non esista anche un lato, come dire, meno buono>>
Il nipote si ricordava le parole di Ettore riguardo alla famiglia Braghiri e quindi capì subito l'argomento di quella conversazione:
<<Il nonno mi ha detto che Michele Braghiri ha fatto delle cose cattive contro la nostra famiglia e che devo stare in guardia dalla sua famiglia, compreso il mio amico Vittorio>>
Diana sospirò:
<<Be', vedi, la situazione è un po' più complessa.
Quello che intendo dire è che non ci sono innocenti in questa casa e in questo clan composto da tante famiglie legate tra loro da vincoli non sempre basati sull'onestà.
Certo, Michele Braghiri ha fatto cose orribili, molto peggiori di tutti gli altri, ma ha potuto farle perché nessuno di noi aveva il coraggio di denunciarlo. E questo perché ognuno di noi aveva qualcosa da nascondere. Non potevamo permetterci uno scandalo, non dopo tutti i sacrifici che avevamo fatto per salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
Ora Michele è morto, e in circostanze disonorevoli, che hanno reso ancora più vendicativa la sua vedova. La nostra Governante, che ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo a Villa Orsini, ora è più potente che mai, e questo perché da qualche parte ha un archivio in cui conserva documenti che potrebbero causarci dei problemi>>
Roberto aveva sempre rifiutato di credere alle malelingue che sputavano veleni di ogni genere contro il clan Ricci-Orsini, ma ora si rendeva conto che dietro a quelle insinuazioni c'era qualche verità:
<<La signora Ida sta ricattando il nonno?>>
Diana sorrise, ma i suoi occhi erano tristi:
<<Magari lo stesse solo ricattando. No, lei vuole rovinarlo. E' istigata da Massimo, lo sappiamo tutti. Fintanto che Michele era vivo, la famiglia Braghiri si era limitata al ricatto, ma adesso che sono ricchi non hanno più bisogno di ricattarci. Non so esattamente cos'abbiano in mano, ma credo che si tratti di documenti riguardanti la gestione economica del Feudo Orsini e delle altre proprietà di Ettore. Ogni singolo atto è stato firmato sia da Michele Braghiri che da Ettore Ricci, ma adesso che Michele è morto, e la sua reputazione già screditata, a rischiare è soltanto tuo nonno. Io non credo che lui fosse del tutto consapevole di cosa stava firmando. Si è fidato troppo di Michele, allo stesso modo in cui tu ti fidi troppo di Vittorio>>
Fino a quel momento Diana non aveva mai preso apertamente posizione contro Vittorio, e questo fu particolarmente doloroso per Roberto:
<<Anche tu ti metti contro l'amicizia tra me e Vittorio!>>
Diana era molto dispiaciuta:
<<A lungo ho osservato quel ragazzo. E' ambiguo, come lo era suo nonno e ha un'immensa adorazione per suo padre Massimo, il quale non ha mai fatto mistero del rancore che nutre nei confronti di tutti noi. Io non so quando scoppierà apertamente la guerra tra la sua famiglia e la nostra, ma so per certo che, quando questo momento arriverà, lui non avrà remore a usare contro di noi tutte le confidenze che gli hai fatto in questi anni>>
Roberto inarcò le sopracciglia:
<<Ma io gli ho detto solo cose di poca importanza... cose da ridere... episodi buffi, niente di più>>
Diana annuì:
<<E lui, quante "cose da ridere", quanti "episodi buffi" ti ha raccontato sulla sua famiglia?>>
Roberto cercò di ricordare, ma non gli venne in mente niente.
Alla fine dovette ammettere che sua nonna aveva ragione:
<<Nessuno... non mi ha raccontato mai niente che potesse mettere in ridicolo i suoi parenti. Se ne parla, è solo per elogiarli>>
Diana sospirò:
<<Come vedi, non c'è reciprocità nella vostra amicizia. Tu ti confidi, ma lui non lo fa. Tu sei autoironico, il che è un segno di intelligenza e di umiltà, lui invece si prende tremendamente sul serio. E potrei continuare così per ore>>
Roberto incominciò a vedere l'amico con occhi diversi, e questo gli provocò un immenso dolore:
<<Cosa mi consigli di fare? Non posso e non voglio essere io a rompere l'amicizia con Vittorio>>
La Contessa di Casemurate sorrise, e questa volta c'era tenerezza nei suoi occhi:
<<Tu sei un'anima candida, così come lo ero io alla tua età. Ma il candore da solo non basta. E' necessaria anche la prudenza.
Il mio consiglio è di essere molto prudente, e di ricordare un famoso passo del Vangelo dove sta scritto: "Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque candidi come colombe e prudenti come serpenti. E guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe".>>
martedì 15 settembre 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 85. L'illusione di un'amicizia
Nessuno esce indenne da ciò che legge, e questo vale a maggior ragione per chi mostra fin da bambino una propensione per la lettura, come accadde a Roberto Monterovere.
E' chiaro che nell'infanzia si leggono per lo più testi di fiabe o di romanzi d'avventure ambientate in universi fantastici.
In questi romanzi i grandi temi della vita sono spesso idealizzati: il Bene, il Male, la lealtà, l'altruismo, l'amore e l'amicizia.
"Illusioni! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore", scriveva giustamente Ugo Foscolo, e molto tempo dopo la psicanalisi gli avrebbe dato ragione.
Senza illusioni l'Io non può vivere, poiché esse sono i suoi meccanismi di difesa dalla spaventosa cognizione della propria inadeguatezza di fronte al duplice assalto delle pulsioni interiori e dell'assurda ingiustizia della vita reale.
Schiacciato tra l'impetuoso Principio del Piacere e l'opprimente Principio di Realtà, l'Io si costruisce una rappresentazione del mondo che è nel contempo salvagente, scialuppa di salvataggio e ancora di salvezza.
Ci aggrappiamo alle illusioni perché in fondo, nonostante la rappresentazione della realtà sia sconfortante, c'è in noi una forza cieca, sorda e ostinata, che Schopenauer chiamava Wille zum Leben, la "volontà di vita", che ci spinge a credere a qualunque cosa pur di legarci a questa esistenza, come fossimo ostriche che si attaccano pervicacemente ad uno scoglio in un mare in tempesta.
E' per questo che abbiamo un disperato bisogno di credere in un'idea o in una persona idealizzata.
L'amicizia spesso nasce da un'iniziale idealizzazione, destinata col tempo a ridimensionarsi, pur conservando un'illusione di fondo, e cioè l'idea che noi ci facciamo delle persone per giustificare ai nostri occhi il fatto di provare emozioni di vario genere nei loro confronti.
Questo è vero in modo particolare nel periodo che va dalla tarda infanzia alla fine dell'adolescenza, in cui spesso si sceglie una persona come "migliore amico o amica", che naturalmente si pensa rimarrà tale "per sempre", almeno fino a quando non si trova un "nuovo migliore amico/a".
Qualcosa di simile accadde all'amicizia tra Roberto Monterovere e Vittorio Braghiri, che per tutto il tempo delle scuole elementari si professarono reciprocamente, e con la massima convinzione e partecipazione, "migliori amici per sempre" (oggi i nativi digitali direbbero best friends forever abbreviandolo in b.f.f.).
Eppure sia Roberto che Vittorio avrebbero dovuto accorgersi che l'illusione che teneva in piedi la loro amicizia si stava sgretolando sotto i loro occhi.
Entrambi erano molto orgogliosi e molto legati alle proprie famiglie, tra le quali ormai c'era una rivalità crescente, per quanto tenuta a freno proprio dal legame tra i due rampolli.
Roberto però pensava, sbagliando, che Vittorio non desse troppa importanza a quel clima competitivo generato dai rispettivi genitori.
Il giovane Braghiri, infatti, nonostante avesse seppellito nel giro di pochi mesi il nonno materno (il giudice De Gubernatis) e quello paterno (l'amministratore delegato Michele Braghiri), manteneva un atteggiamento apparentemente distaccato e imperturbabile.
E tuttavia, a ben vedere, qualche segnale di allontanamento, da parte di Vittorio, c'era stato.
Per esempio, quando suo padre, Massimo Braghiri, aveva comprato la macchina nuova, una Ford Escort metallizzata, Vittorio aveva interrotto la tradizione secondo cui, ad ogni gita organizzata dalle due famiglie dietro insistenza dei ragazzi, questi ultimi salivano nella stessa automobile, a turni rigorosamente alterni.
Quando per la prima volta Vittorio, pur dovendo, nel rispetto dei turni, salire con Roberto sulla Citroen azzurra dei Monterovere, preferì correre, all'ultimo minuto, nella nuova Ford paterna, il giovane Monterovere rimase talmente scosso da non riuscire a proferir parola per il resto della giornata, che si concluse infatti in un fallimento clamoroso, per la gioia di Massimo Braghiri.
Va detto però che il giorno dopo, Vittorio, per scrupolo di coscienza, invitò Roberto al cinema a vedere Indiana Jones e il tempio maledetto, e tutto sembrò tornare come prima.
Ma non era affatto così.
Persino il cinema era destinato a diventare un terreno "divisivo" (come oggi si usa dire), in quanto i loro padri divergevano anche riguardo ai gusti relativi al grande schermo, come già era emerso anni prima nella vexata quaestio su Fellini, difeso dai Monterovere e stroncato dai Braghiri.
Ma i figli avrebbero anche potuto sorvolare sulle divergenze paterne circa il cinema d'autore, se non ci fossero state altre divergenze tra i loro stessi gusti.
Vittorio Braghiri amava i film d'azione in stile Indiana Jones, che non dispiacevano del tutto nemmeno a Roberto Monterovere, il quale tuttavia preferiva il genere fantasy, ed era infatti entusiasta del film tratto dall'omonimo romanzo "La storia infinita".
Amavano entrambi la fantascienza, ed erano fan accaniti di Guerre Stellari, ma si trovarono divisi sulla resa cinematografica, da parte di David Linch, del capolavoro di Frank Herbert, Dune, uno dei pilastri della formazione narrativa di Roberto Monterovere.
Il paradosso era che Dune, come romanzo, era piaciuto anche a Massimo Braghiri, padre di Vittorio, che però, pur di contrastare i Monterovere, decise di stroncarne la resa cinematografica, soprattutto quando venne a sapere che lo stile visionario e impegnativo del film era stato definito "quasi felliniano" da Francesco Monterovere.
Da quel momento ogni occasione divenne buona per trasformare le serate al cinema e i successivi "cineforum" alla presenza dei rispettivi padri, in una specie di rissa da osteria.
Francesco e Roberto Monterovere esaltarono il brillante film Amadeus, divertente e immaginaria ricostruzione della presunta rivalità tra Mozart e Antonio Salieri, magistralmente interpretato dal grandissimo F. Murray Abraham.
A questo gioiello, i due Braghiri, Massimo e Vittorio, contrapponevano Terminator con Arnold Schwarzenegger, e a quel punto l'abisso che si scavò tra i due amici anche su questo tema divenne irreparabile.
Il velo di Maya dell'illusione si stava lacerando, e i rispettivi genitori riuscivano molto bene a mettere in risalto le differenze tra i loro figli.
Massimo Braghiri era fermamente convinto, e da tempo, che Roberto Monterovere fosse un inetto, un incapace, a cui tutto era piovuto dal cielo, senza alcun merito, e dunque destinato a scialacquare ogni cosa, fallendo in maniera completa e devastante.
Ora, ad essere onesti, Massimo non aveva tutti i torti, ma la sua colpa fu nell'aver attivamente e pesantemente contribuito all'avveramento di quella profezia.
Roberto aveva ereditato dal padre Francesco una certa "imbranatura" di fondo che in effetti lo danneggiava nelle questioni pratiche e negli sport, tranne il nuoto, dove comunque Vittorio eccelleva.
Al contrario, Vittorio era un po' meno brillante dal punto di vista intellettuale e i suoi rendimenti scolastici, pur buoni, erano inferiori a quelli, notevoli, del giovane Monterovere.
In una normale amicizia questo non sarebbe stato certo un problema, ma quella tra Roberto e Vittorio era tutto tranne che normale.
Vittorio, quasi a voler confermare il suo nome, voleva essere primo in tutto, e dunque non tollerava che Roberto fosse più bravo di lui a scuola.
E men che meno lo tollerava Massimo, il quale insinuava che in fondo Roberto fosse solo un detestabile "secchione" che studiava troppo perché non sapeva fare altro.
Questo disprezzo, però, avrebbe potuto giustificare il proverbio secondo cui "chi disprezza compra", dal momento che in segreto i genitori di Vittorio tenevano moltissimo ai suoi risultati scolatici e curavano di persona i suoi studi pomeridiani, essendo entrambi insegnanti.
C'era però un'altra questione, mai espressa a parole, eppure evidente nei fatti e cioè che Vittorio faceva sempre più fatica ad accettare il fatto che Roberto fosse destinato, almeno in teoria, ad ereditare un patrimonio molto più consistente del suo.
L'ingenuità di Roberto, su questo versante, era dovuta al fatto che i suoi genitori e i suoi nonni avevano cercato, proprio per evitare le invidie degli altri, di mantenere un profilo basso, per quanto possibile, per cui il giovane Monterovere non percepiva una gran differenza con Vittorio, su questo punto, anche perché le loro nonne materne erano sorelle, e la nonna paterna del giovane Braghiri esercitava, a Villa Orsini, un potere maggiore della stessa Contessa.
Alla fine però, ad aprire gli occhi a Roberto fu il nonno materno, il vulcanico Ettore Ricci.
Lo convocò per la prima volta nel suo "ufficio" a Villa Orsini, come se fosse una sorta di "iniziazione" ai sacri misteri.
<<Tua madre mi ha detto che tra te e Vittorio Braghiri c'è un po' di maretta>>
Roberto minimizzò:
<<Ma no... è solo che a volte non ci capiamo... e si litiga, ma è normale... poi alla fine torna tutto come prima>>
Ettore scosse il capo:
<<Sei un ingenuo, proprio come tuo padre. Ma per fortuna hai un nonno materno molto sveglio che ti aiuterà a farti strada nella vita. E la prima lezione è proprio questa. Bisogna imparare a non riporre troppa fiducia nelle persone, persino quelle che ci sembrano più amiche>>
Roberto aveva la risposta pronta:
<<Tu lo hai fatto proprio con Michele, il nonno di Vittorio!>>
Ettore sospirò:
<<Ed è stato il mio più grande errore. Ne ho pagato le conseguenze per tutta la vita.
Per questo voglio metterti in guardia dalla famiglia Braghiri! Sono invidiosi e sadici. Godono quando gli altri soffrono. Hai visto, l'anno scorso, com'erano felici quando hanno arrestato il povero Enzo Tortora? Verrà fuori che è innocente, ma intanto il danno è fatto, e la gente come i Braghiri si diverte un mondo a vedere gli innocenti in manette. Io credevo che mi sarebbero stati riconoscenti per il fatto di averli resi ricchi e di averli fatti entrare nel clan Ricci-Orsini, ma a loro questo non bastava.
Loro vogliono essere al vertice di tutto , alla sommità, e non sopportano l'idea che noi li superiamo in molte cose>>
Roberto non poteva negare questo riguardo ai genitori di Vittorio:
<<Questo vale per Massimo ed Elisabetta, ma non per loro figlio. Io credo di conoscere molto bene Vittorio e sento che le cose a cui lui dà importanza sono altre>>
<<Per esempio?>>
<<Be', l'autocontrollo, le abilità pratiche e sportive, la realizzazione di grandi obiettivi con le proprie forze, senza l'aiuto della famiglia>>
Ettore Ricci sorrise:
<<In poche parole, dà importanza a tutto quello in cui ritiene di esserti superiore. Non ti dà da pensare, questa cosa?>>
Roberto sapeva che c'era un fondo di verità in tutto questo, ma non voleva credere che tali considerazioni fossero sufficienti per mettere in crisi un'amicizia:
<<A me non interessa la competizione>>
<<A te no, ma a lui sì. Ce l'ha nel sangue. Ricordo che suo padre, alla tua età, aveva così tanta rabbia dentro che si divertiva a spaventare i bambini più piccoli e a torturare gli insetti. Staccava le ali alle mosche o faceva annegare in acqua le formiche. Scommetto che lo fa anche Vittorio, non è così?>>
Era proprio così, ma Roberto non voleva fare la spia:
<<No, Vittorio è diverso, non è come suo padre>>
Ettore scosse il capo:
<<Forse è anche peggio. E' più furbo e più ipocrita. E' il classico tipo capace di pugnalare alle spalle qualcuno che gli è amico. Spero di sbagliarmi, ma temo che ti farà soffrire>>
Roberto non poté fare a meno di sentire un brivido di paura.
Dal più profondo della sua mente, l'orda degli spiriti animali dei suoi antenati lo metteva in guardia, allo stesso modo delle parole di suo nonno.
E il messaggio era quello istintivo e salvifico che aveva permesso ad una linea ininterrotta di generazioni di arrivare fino a lui; quel messaggio diceva: "Fuggi, prima che sia troppo tardi!".
mercoledì 9 settembre 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 84. Questo corpo mortale
"Chi mi salverà da questo corpo mortale?" o, più alla lettera, "Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" si chiedeva San Paolo nella Lettera ai Romani, dopo una lunga e severa ammonizione contro il rischio dei piaceri della carne.
Di certo il vecchio Michele Braghiri, uomo dai forti appetiti materiali, votato a Bacco, Tabacco e Venere, non si era mai posto domande simili.
Andava fiero della propria fama di donnaiolo, anche se poi, in fin dei conti, più che un Don Giovanni o un Casanova, era un mero frequentatore di bordelli, lupanari e, dopo essersi arricchito, di centri benessere con massaggiatrici irresistibili e studi dentistici con igieniste procaci e premurose.
Suo "compagno di merende", in queste "sollazzevoli istorie", era il suo datore di lavoro, il commendator Ettore Ricci, proprietario del Feudo Orsini e di tutte le aziende da esso controllate.
I due compari, messi insieme, sembravano il Gatto e la Volpe del Collodi, dove la volpe era certamente Michele, l'astuto amministratore di tutti i beni della famiglia Ricci-Orsini e in generale della Contea di Casemurate.
Erano due forze della natura e nulla a questo mondo poteva piegarli, ma come sappiamo c'erano altre forze in gioco, potenze oscure evocate nell'ombra e pronte a colpire.
Va detto che entrambi, pur facendosi beffe della credulità popolare, specie riguardo alla stregoneria, erano tuttavia superstiziosissimi, come chiunque fosse nato e cresciuto, ai loro tempi, nella Contea di Casemurate.
Nessuno, per esempio, confessava mai di essere malato, perché era implicito che la malattia rappresentasse o la conseguenza di una fattura, o, peggio ancora, una punizione divina.
Sia Ettore che Michele, in ogni caso, sembrava godessero di ottima salute, il secondo in particolare.
Il signor Braghiri si comportava come se avesse vent'anni, alludendo anche, in maniera nemmeno troppo velata, al suo vigore nella sfera sessuale.
E naturalmente nessuno si sognava nemmeno di pensare che un tale vigore potesse essere suscitato da una donna come sua moglie Ida, che anche negli anni migliori della gioventù, aveva sempre avuto tratti duri, volgari e grossolani.
Del resto la stessa Ida, pur idolatrando il marito, conosceva benissimo i suoi gusti per le ragazze giovani, e arrivava persino ad assecondare tali gusti.
In qualità di Governante (nel senso più imperioso del termine) di Villa Orsini, la signora Ida Braghiri assumeva e licenziava a suo piacimento le cameriere e quelle che lei chiamava sprezzantemente "le sguattere".
Era proprio in quest'ultima categoria che Michele Braghiri trovava prede da cacciare come fossero quaglie in un cortile recintato.
La brutalità dei suoi approcci era ben nota, ma nessuno aveva mai avuto il coraggio di denunciarlo o anche solo di richiamarlo a un comportamento più rispettoso, perché Michele Braghiri ricattava tutti quanti, a partire da Ettore Ricci, il padrone di Villa Orsini e del Feudo annesso.
Ma alla fine fu proprio durante una di queste molestie sessuali verso una giovane domestica che il patriarca della famiglia Braghiri tirò le cuoia.
Un infarto lo stroncò mentre stava palpeggiando la povera ragazza, la quale si difendeva con tutte le sue forze.
La morte non lo colse subito: gli lasciò trenta interminabili secondi, nei quali ebbe modo di rendersi conto del disonore che sarebbe piovuto addosso a lui, alla sua famiglia e non solo.
Questa dipartita si rivelò, infatti, doppiamente scandalosa, primo per il modo in cui avvenne e secondo per il luogo, ossia la Villa Orsini, il cuore della Contea di Casemurate.
La Governante e neo-vedova pagò una somma notevole alla ragazza in questione perché tenesse la bocca chiusa, ma la voce si sparse lo stesso, e si ingigantì, nell'immaginario popolare.
Mentre ancora si allestiva la camera ardente del defunto, i casemuratensi stavano già dipingendo un ritratto a tinte fosche di presunte orge con fanciulle minorenni, il tutto sotto la supervisione della Governante e con la tacita approvazione dei padroni di casa.
Ettore Ricci era furibondo e mentre fingeva cordoglio di fronte al feretro e al "corpo mortale" del suo amministratore delegato, lo malediceva in cuor suo per aver provocato un ennesimo scandalo, che si aggiungeva a tutti gli altri, accumulati in un quarantennio di vite spericolate delle varie persone e famiglie che avevano abitato sotto il nobile tetto degli Orsini di Casemurate.
La settantenne contessa Diana e la novantaseienne contessa-madre Emilia, si rifiutarono di comparire in pubblico, evitando persino il funerale, per prendere apertamente le distanze dal defunto, di cui conoscevano malefatte ben peggiori.
Ma quando Diana chiese al marito di licenziare Ida Braghiri, Ettore si rifiutò, facendo capire che tutte le prove su cui si basavano i ricatti del non compianto Michele erano passati nelle mani della sua vedova e dell'odioso figlio Massimo, di cui era meglio non suscitare le ire.
La Contessa però non si faceva illusioni: ormai Ettore era accerchiato, e con lui anche l'onore della famiglia Ricci-Orsini.
Correva l'anno 1984.
mercoledì 2 settembre 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 83. L'ora è fuggita
"Si potrebbe anche morire felici, se si morisse davvero"
Questo era diventato uno dei pensieri e delle battute più frequenti dell'anziano giudice De Gubernatis, dopo che gli era stata diagnosticata una forma grave di sclerodermia sistemica progressiva.
Non temeva la morte.
A questo mondo ci sono innumerevoli cose estremamente peggiori della morte.
E allora cosa temeva?
Temeva forse le fiamme dell'Inferno o l'implacabile legge del Karma?
Difficile rispondere, dal momento che in lui lo scetticismo rimaneva prevalente.
Eppure, sentendo avvicinarsi la fine, se ne usciva con citazioni bibliche del tipo:
<<Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore!>>
Questi presagi inquietanti però non lo schiacciavano del tutto, poiché, se si escludevano alcuni episodi legati alla propria famiglia, riteneva di non avere colpe troppo gravi.
Certo, aveva fatto di tutto perché suo cognato Ettore Ricci fosse sempre scagionato non solo da ogni accusa, ma persino da ogni sospetto.
Per tutte le altre cause che aveva affrontato come Giudice, era sempre stato clemente, perché riteneva che, nella scelta tra giudicare e capire, il secondo punto fosse più importante.
Non sapremo mai se fu castigo o fu misericordia la sorte che gli toccò, dal momento che tutto ciò che accadde all'altra vittima della maledizione della strega Elvira, commissionata da Massimo Braghiri, fu molto peggio.
Ma di questo parleremo a suo tempo.
Guglielmo De Gubernatis si sentì male e fu ricoverato d'urgenza con una diagnosi di aderenze e blocco intestinale.
Si decise di operarlo, anche se il fisico era molto debole.
Prima di andare sotto i ferri, volle ribadire la sua frase più famosa, destinata a diventare proverbiale:
<<In fondo, si potrebbe anche morire felici... se si morisse davvero>>
La moglie Ginevra non capì e le figlie fecero finta di non capire.
I due generi, Massimo Braghiri e il poeta Adriano Trombatore, capirono benissimo, ma tacquero.
Guglielmo De Gubernatis morì sotto i ferri all'età di 81 anni, lasciando la famiglia nella costernazione più totale.
Le figlie Anna Trombatore ed Elisabetta Braghiri erano sconvolte, ma mai quanto la loro madre.
Ginevra Orsini, che si mise in lutto strettissimo.
I Monterovere l'andarono a trovare nella sua villa dei quartieri "bene" di Forlì.
Per tutto il tempo parlò del marito, tracciando di lui un ritratto agiografico, ben lontano dalla realtà.
<<Guglielmo era un marito fedele e un giudice integerrimo>>
Purtroppo, in verità, non era stato né l'uno né l'altro.
Forse gli altri potevano anche crederci, ma non la figlia di Ettore Ricci.
E tuttavia Silvia Monterovere mantenne con la zia Ginevra un atteggiamento di sincera commozione, perché il Giudice era stato sempre e comunque un vero amico per Ettore e la sua famiglia.
Forse era stato persino un buon padre per i suoi figli e questo era bastato a Ginevra per assolverlo da tutte le altre colpe.
O forse Ginevra aveva deliberatamente scelto di non vedere e di non sapere, anche perché chi non vuol lasciare tracce, non deve confessare neanche a se stesso eventuali scomode verità.
In compenso, Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, si diede ancor di più alle sue passioni: il pettegolezzo e i giochi a carte, specie a canasta, con le amiche attempate, vedove e arzille.
Una volta, durante una scala quaranta, raccontò alle comari di aver fatto un incubo terribile:
<<Ho sognato che Guglielmo era ancora vivo. E' stata una cosa spaventosa!>>
Da allora in poi la sua fama di vedova allegra si sparse ovunque, facendo scuotere il capo persino alla sua veneranda madre, Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini e Contessa Madre di Casemurate.
La stessa sorella maggiore, Diana, confidò al nipote preferito, Roberto, che Ginevra era sempre stata "una testa vuota" e forse De Gubernatis era stato infedele anche per questo.
Eppure, nell'avvicinarsi del trapasso, giunto ormai all'ultimo atto, quello de "l'ora è fuggita", si era pentito di quelle avventure.
E sicuramente si era anche pentito di aver insabbiato tante indagini, negando giustizia a Isabella Orsini, ad Arturo Orsini e a Federico Traversari.
Troppo tardi.
Ai funerali il vescovo tenne un'omelia terrificante;
<<Guglielmo De Gubernatis era un servitore dello Stato e un illustre esponente della Magistratura.
Ed ora io mi rivolgo allo Stato, mi rivolgo alla Magistratura!
Io vi chiedo di identificare e di castigare esemplarmente tutti i pubblici ufficiali che abusano del loro potere, affinché essi non rimangano sempre impuniti. E ancor di più i loro mandanti, i loro corruttori, coloro che li hanno traviati dalla retta via>>
L'uditorio era sconvolto: il vescovo era considerato un uomo prudente, e nessuno avrebbe mai immaginato una simile invettiva.
<<L'opinione pubblica attende sempre che giustizia sia fatta e che non si possa nutrire il minimo dubbio sulla volontà efficace di giungere alla scoperta e alla dimostrazione della verità dei fatti>>
Ma il passaggio più drammaticamente efficace fu la perorazione finale, con tanto di apostrofe, invocazione e anafora:
<<Guarda, Signore, e fissa lo sguardo perché sto diventando spregevole agli occhi di Chi mi contempla!
Guarda, Signore, e fissa lo sguardo perché sto diventando spregevole agli occhi di Chi mi contempla!>>
Seguì un silenzio anomalo persino per un funerale.
Se De Gubernatis si fosse alzato dalla bara avrebbe suscitato meno scalpore.
Le allusioni del vescovo sconvolsero più di tutti Ettore Ricci, perché capì di esserne il destinatario.
Questo aumentò le sue già forti inquietudini.
Le morti di Guglielmo De Gubernatis e della Signorina De Toschi, così come la caduta politica del Senatore Leandri, lo avevano colpito profondamente, non tanto perché erano suoi parenti acquisiti, quanto piuttosto perché loro gli avevano sempre coperto le spalle ed adesso che non c'erano più, Ettore sapeva che le suddette spalle erano ormai pericolosamente indifese.