Silvia Ricci-Orsini era la più irreprensibile e inaccessibile delle figlie dell'imprenditore Ettore Ricci e della sua aristocratica consorte, Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
I successi universitari di Silvia, alla facoltà di Lettere Classiche dell'Università di Bologna, davano fastidio a diverse persone, le quali, per ragioni molto diverse tra loro, non aspettavano altro che quell' "astro nascente" fosse oscurato da una qualche nube e che la sua immacolata reputazione fosse quantomeno lambita da un consistente schizzo di fango.
In particolare ce l'avevano con lei due persone che gravitavano all'interno dello stesso clan Ricci-Orsini.
In primis c'era l'attempata, corpulenta e catarrosa Mariuccia De Toschi, detta, per antonomasia, "la Signorina" o anche, alla francese "La Grande Mademoiselle" (come Anna Maria Luisa d'Orléans, Duchessa di Montpensier, nubile cugina del Re Sole).
La nostra Signorina era invece cugina del nonno materno di Silvia, il defunto conte Achille Orsini, alla cui mangiatoia tutta la famiglia De Toschi aveva copiosamente attinto senza mai ringraziare.
Ma ora la Signorina si sentiva "messa da parte e snobbata da Diana e dalle sue figlie, dopo tutto quello che ho fatto per loro" (e cioè solo disastri).
In secondo luogo, e con maggiore astio e sete di vendetta, c'era il giovane Massimo Braghiri, studente di matematica, figlio prediletto della governante di Villa Orsini, la signora Ida e del suo spregiudicato marito Michele, amministratore delegato del Feudo Orsini e, all'insaputa di tutti (tranne sua moglie e suo figlio), duplice omicida.
Ma a differenza di suo padre, Massimo Braghiri preferiva, più che altro per una questione di finezza, metodi meno brutali per vendicarsi dei torti subiti.
Il torto più importante, come sappiamo, consisteva nel rifiuto, da parte di Ettore Ricci, di concedere una delle sue tre figlie in sposa al figlio del signor Braghiri, suo braccio destro ("Sei il mio miglior servitore, Michele, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore").
Quella frase infelice rimase stampata nella mente di Michele e Massimo per il resto della loro vita, tanto da far sì che dedicassero il meglio (e il peggio) delle loro energie e del loro tempo ad escogitare una strategia di vendetta ampia e articolata, nella sua lucida follia, e destinata a provocare conseguenze gravissime e del tutto impreviste e diverse da ciò che i loro ideatori avevano pensato.
Michele aveva già i suoi piani, che Massimo conosceva, ma che, come si è detto, giudicava troppo rozzi.
Per questa ragione, il giovane Braghiri decise di rivolgersi all'unica persona che avrebbe avuto il movente, i mezzi e l'opportunità per colpire il clan Ricci-Orsini nel suo punto più glorioso e nel contempo più esposto, e cioè Silvia, l'ultima figlia ancora nubile e l'unica a vivere lontano dall'ala protettiva della famiglia.
Occorreva trovare dei punti deboli e l'unica che poteva conoscerli era la Signorina De Toschi, resa ancora più feroce da una incipiente vecchiaia, afflitta da alitosi, flatulenza e meteorismo.
Massimo sapeva agire con astuzia e cautela, dosando sapientemente adulazione, menzogna e crudeltà.
Fu così che in un cupo pomeriggio di gennaio del 1965, presso il Villino De Toschi, la Signorina si ritrovò ad ascoltare, fumando una sigaretta dietro l'altra, le insinuazioni e le falsità che il suo adorato Massimo, ex alunno e costante leccapiedi, le riferiva senza cercare di nascondere un senso di profondo disappunto, che gli tingeva di un certo livore la pelle olivastra.
<<Mi piange il cuore quando vedo che Silvia non mostra nessuna riconoscenza nei suoi confronti, Signorina. E purtroppo non si limita a questo! Non mi faccia dire quello che ho ascoltato... certe imitazioni volgari, certe battute irriferibili, meschine... no, mi si spezza il cuore solo a pensarci. Io devo tutto a Lei, Signorina, sono devoto a Lei oltre ogni limite, Lei lo sa bene...>>
La De Toschi espirava fumo dalle fauci della dentiera come un vecchio drago nel fondo della sua tana.
<<Che ingrata! Proprio come sua madre! Ma dietro a quell'aria da santarellina, scommetto che dev'essere una svergognata>>
Qui Massimo si mostrò abile nel guidare il discorso verso ciò che gli premeva:
<<Difficile scoprirlo... Ufficialmente ha rifiutato le attenzioni di tutti i corteggiatori, me compreso, con la scusa del fatto che deve studiare, ma è ovvio che il vero motivo è che non li ritiene alla sua altezza>>
La Signorina sbuffò, facendo tremolare il triplo mento, e sgranando gli enormi occhi da batrace:
<<Chissà poi chi si crede di essere!>> sbottò colei che avrebbe accettato persino un caprone come corteggiatore <<In fondo suo padre è un pidocchio rifatto! Me lo ricordo io com'era, prima di sposare mia cugina Diana! Un contadino con le unghie sporche, che si metteva le dita nel naso. E gli Orsini poi, erano sul lastrico... anzi, per dirla schietta, erano proprio con le pezze al culo!
Ricordo come se fosse ieri quando quell'ubriacona della Contessa Madre Emilia venne da me a supplicarmi di convincere Diana a sposare Ettore... e alla fine lo sposò, e lo fece per i soldi, come una comune avventuriera o arrampicatrice sociale! Che vergogna! La mia povera mamma, che era una Orsini per bene, si rivolta nella tomba, ogni volta che si sentono in giro le voci sugli scandali di quel matrimonio dove entrambi si sono fatti le corna e si sono impegolati in ogni sorta di meschinità.
Se non ci fosse stato il mi' babbo a togliergli le castagne dal fuoco, ogni volta che si sono ritrovati la polizia per casa...
Ah, tu non puoi nemmeno immaginare di cosa sono stati capaci!
Ecco cos'è stato il matrimonio di Ettore Ricci e Diana Orsini: uno scandalo dietro l'altro!
E adesso le loro figlie si atteggiano a Principesse del Sangue Reale!>>
Massimo capì che quello era il momento di presentare la sua strategia:
<<Certo, se si scoprissero gli altarini di Silvia, magari lei e sua madre abbasserebbero un po' la cresta, e alla fine tornerebbero qui col capo cosparso di cenere>>
La Signorina ascoltò con interesse e per un attimo vide se stessa come una novella Matilde di Canossa, con Silvia nel ruolo di Enrico IV e Massimo Braghiri, si parva licet, in quello, assai improbabile, di Gregorio VII.
<<So che lei, a Bologna, è in stanza con le cugine Anna ed Elisabetta De Gubernatis, le figlie di quell'oca giuliva di Ginevra Orsini, la sorella minore di Diana...>>
Massimo annuì:
<<Sì, le conosco... e devo dire che le suore del collegio sono molto, come dire, tolleranti, nei confronti di queste tre rampolle di buona famiglia, non so se mi spiego...>>
La Signorina capì al volo, e per l'entusiasmo rispolverò il suo finto accento toscano:
<<Cèeeeeeeeerto, cèeeeeeerto... lo conosco bene quel collegio. Ci sono stata anch'io, ai miei tempi. Naturalmente la mia virtù era superiore a tutte le tentazioni, ma la disciplina delle suore era pressoché nulla e non credo sia migliorata nel tempo... figuriamoci adesso, in questi Sessanta, con questa musica demoniaca che viene dai paesi anglosassoni... ah, se il mio povero babbo lo sapesse! O tempora o mores!>>
Massimo decise di calare il suo asso:
<<Lei conosce tutti gli studenti che ora frequentano Lettere Classiche. Nessuno potrebbe superare gli esami di greco e latino senza essere stato suo allievo, pubblico o privato.
Mi chiedevo pertanto se, tra questi giovani letterati, non ci fosse qualcuno con una certa... come dire... intraprendenza... unita a un irresistibile fascino... insomma qualcuno a cui persino Silvia Ricci-Orsini non saprebbe resistere... perché in fondo è di questo che abbiamo bisogno: di uno scandalo... uno che faccia impallidire tutti i precedenti...>>
La Signorina sogghignò, e dalle narici emise fumo azzurro.
<<Sì... uno scandalo... è proprio quel che ci vuole. Le suore dovrebbero sorprendere lei e un amante in flagrante delicto ...
Fammi pensare: bisogna scegliere un personaggio che sia in qualche modo compromesso, uno con una fama di tombeur des femmes.
Massì, uno ce ne sarebbe. E' una specie di poeta maledetto, il classico tipo per cui le ragazzine perdono la testa. E poi ha un nome che è tutto un programma>>
Massimo Braghiri sorrise a sua volta:
<<Come si chiama?>>
La De Toschi pronunciò quel nome scandendo con voluttuoso piacere ogni singola sillaba:
<<Adriano Trombatore, detto ironicamente "il Sommo Poeta">>.
Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
martedì 28 gennaio 2020
mercoledì 22 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 47. Al mutare della marea
Guardandosi allo specchio, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, Diana Orsini, Contessa di Casemurate, constatò che il suo aspetto esteriore conservava ancora, nonostante tutto, una buona dose di fascino e carisma, ma a chi con galanteria spergiurava che che la sua immagine era ancora quella di una donna giovane, lei scuoteva il capo : <<Sono una donna di mezza età. Può anche darsi che non lo sembri del tutto, ma incomincio a sentirlo nel cuore>>
Si sentiva invecchiare dentro, ma senza essere nel contempo altrettanto maturata.
Invecchio senza crescere? E' una mia particolarità, oppure riguarda anche gli altri?
Sapeva che per poter vivere bisognava crescere, ma non era sicura di volere né l'una né l'altra cosa.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma non si fidava di nessuno.
Ogni volta che aveva aperto il suo cuore ad un'altra persona, quest'ultima si era servita delle confidenze come di un'arma di ricatto, anche con le migliori intenzioni.
Per tutta la vita gli altri hanno cercato di manovrarmi, di ammansirmi, di zittirmi, di privarmi della libertà e della dignità. Alcuni l'hanno fatto persino credendo che fosse per il mio bene.
Fino a quel momento Diana aveva reagito a questi tentativi di addomesticamento in un unico modo: ritirandosi in camera sua a leggere, e delegando agli altri tutto il resto.
Per quanto tempo riuscirò a sopportare che siano altri a decidere al mio posto? Dovrò vivere per sempre in questa clausura che mi sono auto-imposta pur di non affrontare i mille nodi irrisolti della mia vita?
Il giro di boa dei cinquant'anni era più che simbolico.
Correva l'anno 1963 ed era da poco diventata nonna.
L'arrivo del primo nipote è sempre un evento che segna uno spartiacque nella vita di una persona.
Nel caso di Diana Orsini si trattò di uno spartiacque completamente positivo, perché il rapporto che la legò ai suoi numerosi nipoti e pronipoti fu così speciale che continuò a vivere nella memoria e nell'immaginario di ognuno di loro per molto tempo, assumendo a lungo andare quei contorni mitici che erano presenti in embrione nella storia romanzesca di una famiglia a cui ci si sentiva fieri di appartenere.
Il primo nipote di Diana ed Ettore Ricci si chiamava Fabrizio Spreti, nato dal matrimonio di Margherita Ricci-Orsini con Amilcare Spreti, proprietario terriero e fratello minore del marchese Vittorio Spreti di Serachieda.
I due si erano sposati nel giugno del 1961 e la festa si era tenuta a Villa Spreti, molto più sfarzosa e imponente di Villa Orsini, per sancire l'alleanza tra le due nobili casate che per secoli si erano contese il controllo di Casemurate.
E così, nello stesso anno in cui cadeva il confine tra la Marca di Casemurate Est (in provincia di Ravenna) e la Contea di Casemurate Ovest (in provincia di Forlì), separate per tanti secoli dal torrentello chiamato Serachieda, veniva eretto il Muro di Berlino, di cui i casemuratensi non sapevano nulla (a parte pochi politicizzati con un minino di alfabetizzazione) e a cui, sostanzialmente, non sarebbe comunque importato nulla.
Margherita ed Amilcare andarono a vivere in una tenuta che era parte del Feudo Spreti, convalidando così, anche dal punto di vista residenziale ed economico, l'alleanza degli Spreti con i Ricci-Orsini, che si concretizzò poi con la creazione della Società in Accomandita Semplice Feudi Uniti, la cui presidenza e amministrazione fu affidata ad Ettore Ricci.
Per Ettore fu il coronamento di una scalata sociale che durava da una vita.
Diana aveva assistito al matrimonio della primogenita con un senso di liberazione.
Si chiudeva infatti un ciclo, iniziato trent'anni prima con le sue stesse nozze.
Allora si era trattato di sacrificarsi per salvare la famiglia dalla rovina economica.
Ora, dopo decenni di sofferenze, i sopravvissuti e i nuovi nati raccoglievano i frutti di quel sacrifico.
Certo, Diana era un caso a sé, dal momento che il suo primato formale in quanto Contessa di Casemurate, non aveva alleviato minimamente le sue sofferenze private, ma non poteva certo ignorare il fatto che i Ricci-Orsini fossero al centro di una rete di alleanze che estendeva la loro influenza ben oltre i confini angusti della Villa, del Feudo e della Contea.
Forse non c'era più bisogno di ricorrere alla decrepita Signorina De Toschi per ottenere una raccomandazione.
Forse...
In ogni caso, le tre figlie di Diana ed Ettore erano ormai adulte e con una loro vita.
Margherita aveva una sua propria famiglia, Silvia si era laureata e Isabella si era fidanzata con un altro rampollo aristocratico, Silvio Zanetti Protonotari Campi, proprietario di ampi vigneti di Trebbiano.
Ettore era completamente assorbito dal lavoro e non si prendeva nemmeno più la briga di nascondere le sue avventure extraconiugali.
La vecchia Contessa Madre Emilia aveva trovato un suo equilibrio, passando il tempo nel Salotto Liberty ad assaporare i suoi vini pregiati e i suoi pasticcini, leggendo romanzi rosa e riviste di gossip.
Il suo rapporto con Diana era cambiato.
Ora non era più lei a rimproverare la figlia, anzi.
L'attempata Emilia aveva un certo timore di sua figlia Diana, del suo carattere imprevedibile, delle sue reazioni, di quella durezza di fondo che si era fatta strada in lei insieme al risentimento per tutte le cose che i genitori l'avevano costretta a fare.
Diana a volte provava tenerezza per quella madre resa fragile e vulnerabile dall'età, dai tanti lutti e da decenni di alcolismo.
Un giorno, in salotto, provò a riprendere un dialogo interrotto da ormai troppo tempo:
<<Mamma, tu pensi che dovrei far sentire di più la mia autorità, ad Ettore. Chiedergli di essere un po' meno tirchio con me e le ragazze, di lasciarci più libertà, di ascoltarci di più almeno sulle questioni fondamentali, come l'eccessiva fiducia che dà alla famiglia Braghiri... tu che ne pensi?>>
<<Quando tu sposasti Ettore, ti dissi, ricordo bene la frase: "ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione". Ecco, ora credo che la fase della prigione debba avere termine>>
Diana annuì:
<<Lo credo anch'io, eppure continuo ad avere paura di lui e soprattutto della gente che gli sta attorno>>
Emilia sapeva bene che i sospetti di Diana erano fondati:
<<E' proprio per questo che, con la dovuta prudenza, devi prendere le distanze da quella gente. E se Ettore non ascolterà i tuoi consigli, forse dovrai prendere più apertamente le distanze anche da lui>>
Diana era incerta:
<<Ettore non mi ascolterà, ma non è lui il nostro nemico. E' per questo che voglio evitare una guerra. Non per il rischio di perdere, ma per quel quello di pentirmi>>
Emilia la fissò dai suoi occhi celesti pieni di fragili capillari:
<<Pentirti di cosa?>>
Diana contemplò il proprio ritratto appeso alla parete tra due quadri di Alphonse Mucha in stile Art Nuveau.
<<Di tutto...>>
Emilia fissò invece il calice di vino che soppesava tra le mani, cercando di trarne ispirazione:
<<Come sei complicata, figlia mia. Cerchi la libertà, però in fondo mi sembra che in questi anni tu ti sia un po' innamorata del tuo carceriere>>
Diana scosse il capo:
<<Non è amore, mamma, è una questione di lealtà.
Io e lui siamo a capo della stessa famiglia, e se vogliamo salvarla dagli sciacalli, dobbiamo trovare il modo di unire le nostre forze.
Ancora non so quale sia, concretamente, questo modo, ma sento che devo dimostrargli che sono in grado di analizzare le situazioni in modo più sottile di quanto lui faccia.
Se voglio il suo rispetto devo guadagnarmelo, e per guadagnarmelo devo modificare alcune cose della mia vita>>
<<Ne sei davvero in grado?>>
<<Non lo so, ma devo provare. Per troppo tempo sono stata "Diana la pazza" ed occorre che, per età e necessità, io diventi "Diana la saggia" e torni a rivolgermi a lui da pari a pari, ora, al mutare della marea>>
Si sentiva invecchiare dentro, ma senza essere nel contempo altrettanto maturata.
Invecchio senza crescere? E' una mia particolarità, oppure riguarda anche gli altri?
Sapeva che per poter vivere bisognava crescere, ma non era sicura di volere né l'una né l'altra cosa.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma non si fidava di nessuno.
Ogni volta che aveva aperto il suo cuore ad un'altra persona, quest'ultima si era servita delle confidenze come di un'arma di ricatto, anche con le migliori intenzioni.
Per tutta la vita gli altri hanno cercato di manovrarmi, di ammansirmi, di zittirmi, di privarmi della libertà e della dignità. Alcuni l'hanno fatto persino credendo che fosse per il mio bene.
Fino a quel momento Diana aveva reagito a questi tentativi di addomesticamento in un unico modo: ritirandosi in camera sua a leggere, e delegando agli altri tutto il resto.
Per quanto tempo riuscirò a sopportare che siano altri a decidere al mio posto? Dovrò vivere per sempre in questa clausura che mi sono auto-imposta pur di non affrontare i mille nodi irrisolti della mia vita?
Il giro di boa dei cinquant'anni era più che simbolico.
Correva l'anno 1963 ed era da poco diventata nonna.
L'arrivo del primo nipote è sempre un evento che segna uno spartiacque nella vita di una persona.
Nel caso di Diana Orsini si trattò di uno spartiacque completamente positivo, perché il rapporto che la legò ai suoi numerosi nipoti e pronipoti fu così speciale che continuò a vivere nella memoria e nell'immaginario di ognuno di loro per molto tempo, assumendo a lungo andare quei contorni mitici che erano presenti in embrione nella storia romanzesca di una famiglia a cui ci si sentiva fieri di appartenere.
Il primo nipote di Diana ed Ettore Ricci si chiamava Fabrizio Spreti, nato dal matrimonio di Margherita Ricci-Orsini con Amilcare Spreti, proprietario terriero e fratello minore del marchese Vittorio Spreti di Serachieda.
I due si erano sposati nel giugno del 1961 e la festa si era tenuta a Villa Spreti, molto più sfarzosa e imponente di Villa Orsini, per sancire l'alleanza tra le due nobili casate che per secoli si erano contese il controllo di Casemurate.
E così, nello stesso anno in cui cadeva il confine tra la Marca di Casemurate Est (in provincia di Ravenna) e la Contea di Casemurate Ovest (in provincia di Forlì), separate per tanti secoli dal torrentello chiamato Serachieda, veniva eretto il Muro di Berlino, di cui i casemuratensi non sapevano nulla (a parte pochi politicizzati con un minino di alfabetizzazione) e a cui, sostanzialmente, non sarebbe comunque importato nulla.
Margherita ed Amilcare andarono a vivere in una tenuta che era parte del Feudo Spreti, convalidando così, anche dal punto di vista residenziale ed economico, l'alleanza degli Spreti con i Ricci-Orsini, che si concretizzò poi con la creazione della Società in Accomandita Semplice Feudi Uniti, la cui presidenza e amministrazione fu affidata ad Ettore Ricci.
Per Ettore fu il coronamento di una scalata sociale che durava da una vita.
Diana aveva assistito al matrimonio della primogenita con un senso di liberazione.
Si chiudeva infatti un ciclo, iniziato trent'anni prima con le sue stesse nozze.
Allora si era trattato di sacrificarsi per salvare la famiglia dalla rovina economica.
Ora, dopo decenni di sofferenze, i sopravvissuti e i nuovi nati raccoglievano i frutti di quel sacrifico.
Certo, Diana era un caso a sé, dal momento che il suo primato formale in quanto Contessa di Casemurate, non aveva alleviato minimamente le sue sofferenze private, ma non poteva certo ignorare il fatto che i Ricci-Orsini fossero al centro di una rete di alleanze che estendeva la loro influenza ben oltre i confini angusti della Villa, del Feudo e della Contea.
Forse non c'era più bisogno di ricorrere alla decrepita Signorina De Toschi per ottenere una raccomandazione.
Forse...
In ogni caso, le tre figlie di Diana ed Ettore erano ormai adulte e con una loro vita.
Margherita aveva una sua propria famiglia, Silvia si era laureata e Isabella si era fidanzata con un altro rampollo aristocratico, Silvio Zanetti Protonotari Campi, proprietario di ampi vigneti di Trebbiano.
Ettore era completamente assorbito dal lavoro e non si prendeva nemmeno più la briga di nascondere le sue avventure extraconiugali.
La vecchia Contessa Madre Emilia aveva trovato un suo equilibrio, passando il tempo nel Salotto Liberty ad assaporare i suoi vini pregiati e i suoi pasticcini, leggendo romanzi rosa e riviste di gossip.
Il suo rapporto con Diana era cambiato.
Ora non era più lei a rimproverare la figlia, anzi.
L'attempata Emilia aveva un certo timore di sua figlia Diana, del suo carattere imprevedibile, delle sue reazioni, di quella durezza di fondo che si era fatta strada in lei insieme al risentimento per tutte le cose che i genitori l'avevano costretta a fare.
Diana a volte provava tenerezza per quella madre resa fragile e vulnerabile dall'età, dai tanti lutti e da decenni di alcolismo.
Un giorno, in salotto, provò a riprendere un dialogo interrotto da ormai troppo tempo:
<<Mamma, tu pensi che dovrei far sentire di più la mia autorità, ad Ettore. Chiedergli di essere un po' meno tirchio con me e le ragazze, di lasciarci più libertà, di ascoltarci di più almeno sulle questioni fondamentali, come l'eccessiva fiducia che dà alla famiglia Braghiri... tu che ne pensi?>>
<<Quando tu sposasti Ettore, ti dissi, ricordo bene la frase: "ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione". Ecco, ora credo che la fase della prigione debba avere termine>>
Diana annuì:
<<Lo credo anch'io, eppure continuo ad avere paura di lui e soprattutto della gente che gli sta attorno>>
Emilia sapeva bene che i sospetti di Diana erano fondati:
<<E' proprio per questo che, con la dovuta prudenza, devi prendere le distanze da quella gente. E se Ettore non ascolterà i tuoi consigli, forse dovrai prendere più apertamente le distanze anche da lui>>
Diana era incerta:
<<Ettore non mi ascolterà, ma non è lui il nostro nemico. E' per questo che voglio evitare una guerra. Non per il rischio di perdere, ma per quel quello di pentirmi>>
Emilia la fissò dai suoi occhi celesti pieni di fragili capillari:
<<Pentirti di cosa?>>
Diana contemplò il proprio ritratto appeso alla parete tra due quadri di Alphonse Mucha in stile Art Nuveau.
<<Di tutto...>>
Emilia fissò invece il calice di vino che soppesava tra le mani, cercando di trarne ispirazione:
<<Come sei complicata, figlia mia. Cerchi la libertà, però in fondo mi sembra che in questi anni tu ti sia un po' innamorata del tuo carceriere>>
Diana scosse il capo:
<<Non è amore, mamma, è una questione di lealtà.
Io e lui siamo a capo della stessa famiglia, e se vogliamo salvarla dagli sciacalli, dobbiamo trovare il modo di unire le nostre forze.
Ancora non so quale sia, concretamente, questo modo, ma sento che devo dimostrargli che sono in grado di analizzare le situazioni in modo più sottile di quanto lui faccia.
Se voglio il suo rispetto devo guadagnarmelo, e per guadagnarmelo devo modificare alcune cose della mia vita>>
<<Ne sei davvero in grado?>>
<<Non lo so, ma devo provare. Per troppo tempo sono stata "Diana la pazza" ed occorre che, per età e necessità, io diventi "Diana la saggia" e torni a rivolgermi a lui da pari a pari, ora, al mutare della marea>>
domenica 19 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 46. Le finte amiche di Silvia Ricci-Orsini
Fin da bambina, Silvia aveva dimostrato di essere piena di buone intenzioni e capace di slanci di socievolezza (che sua madre Diana Orsini, Contessa di Casemurate e donna solitaria, faticava a comprendere) e di autentica generosità (che lasciavano interdetto suo padre Ettore Ricci, padrone del Feudo Orsini, notoriamente afflitto, come gran parte delle persone ricche, da una taccagneria patologica), e pertanto non le erano mai mancate le amicizie.
Il punto di partenza era stata la presenza di un numero consistente di ragazze della sua stessa età, o di età simile, all'interno dello stesso clan dei Ricci-Orsini.
Al centro del clan vi era poi un nucleo inscindibile, composto da Silvia e dalle sorelle Margherita e Isabella: una sorta di "triade" o di "trinità" destinata a rimanere saldamente unita e compatta, a salvaguardia dell'unità familiare nella buona e nella cattiva sorte.
E molte cause della futura cattiva sorte provenivano da personaggi che in quegli anni vivevano ancora a Villa Orsini, dividendo con i proprietari "il pane e il sale".
Si trattava, come il lettore attento ricorderà, dei componenti della famiglia Braghiri.
La governante Ida Braghiri suo marito Michele, amministratore del Feudo, avevano, oltre all'ambizioso e vanitoso figlio maschio, Massimo, due figlie: Oriana, che aveva l'età di Margherita, mentre Olimpia aveva la stessa età di Silvia.
Poi incominciava la sfilza delle cugine.
Applicando il criterio del noblesse oblige, era data più importanza alle cugine "di sangue Orsini".
Le figlie di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis erano quasi una sorta di guardia del corpo, per Silvia, nel senso che stavano costantemente al suo fianco, ovunque.
Le gemelle Anna ed Elisabetta De Gubernatis erano destinate a lasciare una traccia indelebile (per lo più negativa) nella vita di Silvia e della sua futura famiglia.
Erano state sue compagne di scuola alle elementari, alle medie, al Ginnasio, al Liceo e infine si erano iscritte entrambe a Lettere Classiche, insieme a lei, a Bologna.
Delle due, Anna era quella più intraprendente, tanto che appena iniziata l'università, si trovò il ragazzo, un giovane poeta che rispondeva al nome piuttosto singolare di Adriano Trombatore (in seguito quel cognome si rivelò degno dei presagi che suscitava).
Ma i maggiori pericoli, come si vedrà in seguito, erano destinati a provenire da Elisabetta, più fredda, calcolatrice e incline al pettegolezzo, e innamorata di Massimo Braghiri, che a Bologna studiava matematica e aveva ancora altri progetti.
Infatti Massimo, che era stato rifiutato da Margherita Ricci-Orsini, aveva ripiegato su Silvia, sperando di diventare cognato dei Conti di Casemurate e magari futuro dirigente delle loro proprietà.
Silvia, che era molto rispettosa della sensibilità altrui, cercò, pur essendo irritata dall'atteggiamento narcisistico e megalomane di Massimo, di non infliggere al suo smisurato ego una ferita simile a quella già provocata dal secco rifiuto della sorella maggiore.
Fu così che accettò di uscire insieme a Massimo, a patto che ci fosse con loro anche Elisabetta De Gubernatis, intenzionata, quest'ultima, ad assumere ben presto il ruolo di primadonna.
Ma l'elenco delle finte amiche invidiose di lei era molto lungo.
C'erano infatti le innumerevoli cugine dalla parte dei Ricci.
Ognuna di loro, per quanto figlia di un notabile, invidiava il fatto che Silvia fosse figlia della Contessa del Feudo dove tutte loro erano nate e cresciute, e appartenesse alla gloriosa e antichissima famiglia Orsini, imparentata con i duchi di Bracciano e di Gravina.
La zia Caterina, le cui ambizioni erano notevoli, moglie di Edoardo Leandri, senatore democristiano, anzi "Il Senatore" per antonomasia, all'interno del clan Ricci-Orsini, aveva avuto oltre a vari figli maschi, una figlia dal carattere burrascoso e tendente all'isteria, di nome Marianna, anche lei iscritta al gruppo di Lettere Classiche, e quindi al codazzo di cugine-studentesse che tallonavano Silvia ovunque andasse, bagni compresi.
Un'altra, zia Maria Teresa Ricci e suo marito, l'ormai commissario di polizia Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, avevano avuto un figlio, oltre a un figlio dal nome inquietante di Arido, altre due figlie, Luciana e Giuditta.
Arido era enorme: un armadio ambulante, di poche parole e dai modi spicci.
Luciana e Giuditta erano già molto sovrappeso nei loro anni migliori e non brillavano per acume, ma la loro ambizione era comunque sfrenata.
Luciana, diplomata all'Istituto Tecnico Femminile per l'Economia Domestica, aveva già ottenuto una cattedra di educazione tecnica alle scuole medie e aveva sposato un certo Gaspare Maciullini, appartenente a una famiglia benestante di latifondisti, che aspiravano a diventare soci della famiglia Ricci e quindi del Feudo Orsini.
L'altra sorella, Giuditta, diplomatasi alle magistrali, era coetanea di Silvia e spesso usciva con lei e le altre cugine per andare a ballare, sotto l'attenta supervisione di Ida Braghiri, che si portava dietro le proprie orrende figlie, nella speranza di trovar loro qualche buon partito.
Durante un ballo destinato a rimanere nella leggenda familiare, Giuditta fu corteggiata e contesa dai due uomini della sua vita, il futuro marito Felice Mazza e l'ingegner Nullo Nullini, il cui nome era già tutto un programma.
La contesa avvenne a suon di balli, e la tecnica di Mazza, falegname dal fisico possente e dalla voce roca, che si avvinghiava al seno debordante di Giuditta, risultò vincente, rispetto alla presa molle e indecisa di Nullo.
Fu così che il falegname, contro ogni previsione, sconfisse l'ingegnere.
Nullo e Giuditta rimasero comunque amici per tutta la vita, e le loro telefonate, in cui si scambiavano pettegolezzi su tutti i loro conoscenti, duravano ore.
Ettore Ricci, che spesso si era trovato ad essere al centro dei pettegolezzi di Nello e Giuditta, un giorno ebbe a dire, con la sua lapidaria incisività:
<<Lui è la curiosità in persona e lei è falsa come l'ottone>>
Tra i fratelli di Ettore Ricci, Oreste e Roderico, continuava ad esistere una faida, dal famoso giorno in cui si erano presi a coltellate, così come c'era una contesa insanabile tra le altre due sorelle, la zitella Adriana, fascistissima, e la democristiana Carolina, vedova del ricchissimo conte Leopoldo Gagni di Montescudo, la cui unica figlia, Anna, era un donnone dai modi spicci, che faceva fuggire ogni possibile pretendente alla sua considerevole mano.
Esaurito l'elenco delle cugine, incominciava l'esercito delle "compagne di classe", dominato dall'elite delle "compagne di banco", anch'esse poi divenute compagne di università e future insegnanti e quindi colleghe di lavoro di Silvia.
Sarebbe troppo lungo e del tutto inutile farne l'elenco: parleremo in seguito di quelle false amiche che tra invidia ed ambizione roteavano come avvoltoi intorno a Silvia e alla sua famiglia, pronte a fare di esse la loro preda, al primo segnale di debolezza.
Ma dovettero aspettare a lungo, perché per molto tempo Silvia agì con estrema prudenza, e anche quando commise quello che in prospettiva era destinato a diventare il seme della sua rovina, dovettero passare decenni, prima che quel seme facesse germogliare fiori malati e frutti marci.
Per il momento basti dire che da questa prima panoramica è possibile farsi un'idea dell'intelaiatura di base di quello che sarebbe diventato il Salotto Buono più esclusivo di Forlì, fondato da Silvia Ricci-Orsini dopo aver sposato un uomo che all'epoca non conosceva, ma che è una nostra vecchia conoscenza: il ribelle studente e futuro geniale professore Francesco Monterovere.
Il punto di partenza era stata la presenza di un numero consistente di ragazze della sua stessa età, o di età simile, all'interno dello stesso clan dei Ricci-Orsini.
Al centro del clan vi era poi un nucleo inscindibile, composto da Silvia e dalle sorelle Margherita e Isabella: una sorta di "triade" o di "trinità" destinata a rimanere saldamente unita e compatta, a salvaguardia dell'unità familiare nella buona e nella cattiva sorte.
E molte cause della futura cattiva sorte provenivano da personaggi che in quegli anni vivevano ancora a Villa Orsini, dividendo con i proprietari "il pane e il sale".
Si trattava, come il lettore attento ricorderà, dei componenti della famiglia Braghiri.
La governante Ida Braghiri suo marito Michele, amministratore del Feudo, avevano, oltre all'ambizioso e vanitoso figlio maschio, Massimo, due figlie: Oriana, che aveva l'età di Margherita, mentre Olimpia aveva la stessa età di Silvia.
Poi incominciava la sfilza delle cugine.
Applicando il criterio del noblesse oblige, era data più importanza alle cugine "di sangue Orsini".
Le figlie di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis erano quasi una sorta di guardia del corpo, per Silvia, nel senso che stavano costantemente al suo fianco, ovunque.
Le gemelle Anna ed Elisabetta De Gubernatis erano destinate a lasciare una traccia indelebile (per lo più negativa) nella vita di Silvia e della sua futura famiglia.
Erano state sue compagne di scuola alle elementari, alle medie, al Ginnasio, al Liceo e infine si erano iscritte entrambe a Lettere Classiche, insieme a lei, a Bologna.
Delle due, Anna era quella più intraprendente, tanto che appena iniziata l'università, si trovò il ragazzo, un giovane poeta che rispondeva al nome piuttosto singolare di Adriano Trombatore (in seguito quel cognome si rivelò degno dei presagi che suscitava).
Ma i maggiori pericoli, come si vedrà in seguito, erano destinati a provenire da Elisabetta, più fredda, calcolatrice e incline al pettegolezzo, e innamorata di Massimo Braghiri, che a Bologna studiava matematica e aveva ancora altri progetti.
Infatti Massimo, che era stato rifiutato da Margherita Ricci-Orsini, aveva ripiegato su Silvia, sperando di diventare cognato dei Conti di Casemurate e magari futuro dirigente delle loro proprietà.
Silvia, che era molto rispettosa della sensibilità altrui, cercò, pur essendo irritata dall'atteggiamento narcisistico e megalomane di Massimo, di non infliggere al suo smisurato ego una ferita simile a quella già provocata dal secco rifiuto della sorella maggiore.
Fu così che accettò di uscire insieme a Massimo, a patto che ci fosse con loro anche Elisabetta De Gubernatis, intenzionata, quest'ultima, ad assumere ben presto il ruolo di primadonna.
Ma l'elenco delle finte amiche invidiose di lei era molto lungo.
C'erano infatti le innumerevoli cugine dalla parte dei Ricci.
Ognuna di loro, per quanto figlia di un notabile, invidiava il fatto che Silvia fosse figlia della Contessa del Feudo dove tutte loro erano nate e cresciute, e appartenesse alla gloriosa e antichissima famiglia Orsini, imparentata con i duchi di Bracciano e di Gravina.
La zia Caterina, le cui ambizioni erano notevoli, moglie di Edoardo Leandri, senatore democristiano, anzi "Il Senatore" per antonomasia, all'interno del clan Ricci-Orsini, aveva avuto oltre a vari figli maschi, una figlia dal carattere burrascoso e tendente all'isteria, di nome Marianna, anche lei iscritta al gruppo di Lettere Classiche, e quindi al codazzo di cugine-studentesse che tallonavano Silvia ovunque andasse, bagni compresi.
Un'altra, zia Maria Teresa Ricci e suo marito, l'ormai commissario di polizia Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, avevano avuto un figlio, oltre a un figlio dal nome inquietante di Arido, altre due figlie, Luciana e Giuditta.
Arido era enorme: un armadio ambulante, di poche parole e dai modi spicci.
Luciana e Giuditta erano già molto sovrappeso nei loro anni migliori e non brillavano per acume, ma la loro ambizione era comunque sfrenata.
Luciana, diplomata all'Istituto Tecnico Femminile per l'Economia Domestica, aveva già ottenuto una cattedra di educazione tecnica alle scuole medie e aveva sposato un certo Gaspare Maciullini, appartenente a una famiglia benestante di latifondisti, che aspiravano a diventare soci della famiglia Ricci e quindi del Feudo Orsini.
L'altra sorella, Giuditta, diplomatasi alle magistrali, era coetanea di Silvia e spesso usciva con lei e le altre cugine per andare a ballare, sotto l'attenta supervisione di Ida Braghiri, che si portava dietro le proprie orrende figlie, nella speranza di trovar loro qualche buon partito.
Durante un ballo destinato a rimanere nella leggenda familiare, Giuditta fu corteggiata e contesa dai due uomini della sua vita, il futuro marito Felice Mazza e l'ingegner Nullo Nullini, il cui nome era già tutto un programma.
La contesa avvenne a suon di balli, e la tecnica di Mazza, falegname dal fisico possente e dalla voce roca, che si avvinghiava al seno debordante di Giuditta, risultò vincente, rispetto alla presa molle e indecisa di Nullo.
Fu così che il falegname, contro ogni previsione, sconfisse l'ingegnere.
Nullo e Giuditta rimasero comunque amici per tutta la vita, e le loro telefonate, in cui si scambiavano pettegolezzi su tutti i loro conoscenti, duravano ore.
Ettore Ricci, che spesso si era trovato ad essere al centro dei pettegolezzi di Nello e Giuditta, un giorno ebbe a dire, con la sua lapidaria incisività:
<<Lui è la curiosità in persona e lei è falsa come l'ottone>>
Tra i fratelli di Ettore Ricci, Oreste e Roderico, continuava ad esistere una faida, dal famoso giorno in cui si erano presi a coltellate, così come c'era una contesa insanabile tra le altre due sorelle, la zitella Adriana, fascistissima, e la democristiana Carolina, vedova del ricchissimo conte Leopoldo Gagni di Montescudo, la cui unica figlia, Anna, era un donnone dai modi spicci, che faceva fuggire ogni possibile pretendente alla sua considerevole mano.
Esaurito l'elenco delle cugine, incominciava l'esercito delle "compagne di classe", dominato dall'elite delle "compagne di banco", anch'esse poi divenute compagne di università e future insegnanti e quindi colleghe di lavoro di Silvia.
Sarebbe troppo lungo e del tutto inutile farne l'elenco: parleremo in seguito di quelle false amiche che tra invidia ed ambizione roteavano come avvoltoi intorno a Silvia e alla sua famiglia, pronte a fare di esse la loro preda, al primo segnale di debolezza.
Ma dovettero aspettare a lungo, perché per molto tempo Silvia agì con estrema prudenza, e anche quando commise quello che in prospettiva era destinato a diventare il seme della sua rovina, dovettero passare decenni, prima che quel seme facesse germogliare fiori malati e frutti marci.
Per il momento basti dire che da questa prima panoramica è possibile farsi un'idea dell'intelaiatura di base di quello che sarebbe diventato il Salotto Buono più esclusivo di Forlì, fondato da Silvia Ricci-Orsini dopo aver sposato un uomo che all'epoca non conosceva, ma che è una nostra vecchia conoscenza: il ribelle studente e futuro geniale professore Francesco Monterovere.
venerdì 17 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 45. La ribellione di Francesco Monterovere e le ossessioni di suo padre Romano
Romano Monterovere compì 50 anni nel 1961. Da quel momento in avanti, nella sua lunga vita, rimase più o meno uguale. Era di quei tipi molto alti, magri, dai capelli chiari, che più che invecchiare tendono a rinsecchirsi, quasi a mummificarsi, senza però altri segni particolari di cedimento.
Il suo aspetto severo e austero, con l'età divenne vagamente arcigno, pur mantenendo un'imponenza che oggi si potrebbe ritrovare in attori come Charles Dance.
Ma un cambiamento interiore significativo era avvenuto in lui dopo la morte del fratello Ferdinando, Romano era diventato ipocondriaco.
Per prevenire le malattie, aveva adottato uno stile di vita ancora più spartano.
Mangiava poco, prediligeva le verdure, camminava spedito almeno due ore tutti i giorni, non beveva alcolici, non fumava, andava a letto presto e dormiva regolarmente almeno otto ore.
Ciononostante viveva nel terrore di poter contrarre qualche malattia, in particolare la tubercolosi, di cui erano morti due sorelle e un fratello, oppure l'ipertensione, per la quale andava tutti i giorni dal farmacista a farsi misurare la pressione.
Ogni volta che entrava in farmacia, ne usciva con medicinali generici e autoprescritti di tutti i generi: aspirina in compresse effervescenti, caramelle balsamiche e antisettiche (che consumava con gusto, come se fossero cioccolatini), vitamine, tachipirina, citrosodina, sali minerali, supposte, colliri, spray nasali, microclismi, digestivi, soluzione Schoum, colluttori, pomate di ogni genere e per ogni evenienza, acqua ossigenata, disinfettanti vari, cerotti, garze, bende, cotone idrofilo ed emostatico. tappi per le orecchie, lozioni per i capelli, amaro medicinale Giuliani, gocce di valeriana e altre pozioni che lo attraevano anche solo per il colore o per il gusto.
E quello fu solo l'inizio della sua esperienza di "impasticcato", che lo portò col tempo a disporre di un vero e proprio laboratorio chimico-farmaceutico finalizzato alla creazione dell'Elisir di lunga vita.
Era preciso e puntiglioso in ogni cosa che facesse, in particolare sul lavoro.
Da quando era diventato direttore dell'Azienda Fratelli Monterovere (il presidente era suo suocero, l'ingegner Lanni), aveva imposto ai dipendenti un regime quasi militare ed un'efficienza svizzera, o meglio ancora teutonica e prussiana, da far invidia a Federico il Grande e a tutta la dinastia degli Hohenzollern.
Il suo perfezionismo, così come la sua abitudinarietà, assunsero i contorni di un disturbo ossessivo-compulsivo: rispettava gli orari con tale precisione che la gente metteva a punto l'orologio ogni volta che lo vedeva passare: era più affidabile del meridiano di Greenwitch.
Naturalmente sua moglie e i suoi figli erano tenuti a rispettare la stessa vita da caserma, il che non era affatto facile.
Giulia fumava, come anche la figlia Enrichetta. Il figlio Francesco aveva orari opposti a quelli del padre. Il terzogenito Lorenzo, di carattere timidissimo e remissivo, subiva ramanzine continue per la sua goffaggine,"mollezza" e pigrizia.
Romano distribuiva equamente rimproveri e scappellotti, ma l'effetto che otteneva era il contrario di ciò che si era prefisso.
In particolare lo preoccupava il primogenito Francesco, ribelle per natura e studente presso la Facoltà di Matematica e Fisica dell'Università Bologna.
Ovviamente Francesco non aveva avuto il permesso di prendere alloggio nella città universitaria, per cui faceva su e giù da Faenza, in treno, tutti i giorni.
Non era una cosa particolarmente piacevole, e non era nemmeno l'unico motivo di attrito tra padre e figlio, opposti quasi in tutto.
Un grande scandalo avvenne quando, Francesco. precorrendo i tempi e le mode della Contestazione, si face crescere i capelli lunghi fino alle spalle.
Romano non si dava pace:
<<E' questo che ti insegnano all'università? A diventare un capellone e uno scansafatiche? Io alla tua età...>> ed elencava una serie di lavori mai svolti.
Francesco il più delle volte non si degnava nemmeno di rispondere.
Allora Romano mandava avanti il figlio minore, Lorenzo, in avanscoperta.
Francesco riconosceva i famigliari dal modo in cui bussavano alla porta.
Mentre Enrichetta era come un treno in corsa, Lorenzo si limitava ad una timida grattatina.
<<Il babbo è molto preoccupato per te>>
<<Ma dai? Non me n'ero accorto!>>
<<Se solo accettassi di tagliarteli almeno un po'...>>
<<Non se ne parla>>
<<Però almeno potresti evitare di andare in giro con le mollette e la coda di cavallo>>
<<Lorenzo, perché non ti fai gli affari tuoi? Ti ha promesso qualcosa, il vecchio?>
<<Io non so come hanno fatto a sopportarti i Salesiani per sette anni>>
<<E' per colpa loro che sono un ribelle>>
<<Ma ribelle contro cosa?>>
<<Contro tutto, contro la società, contro il sistema...>>
<<Ma quale sistema? Io non capisco proprio di cosa tu stia parlando>>
<<Perché sei un patacca, Lorenzo, scusami tanto!>>
<<Sì sì, vedremo. Ci rivediamo tra trent'anni, e poi mi saprai dire chi è il patacca>>
<<Non illuderti Lorenzo, tu sei nato così, non ci puoi far niente. Ma se ti allei con me, potremmo fare grandi cose. Va' a dire al babbo che se mi trova una stanza a Bologna, mi taglio i capelli subito>>
<<Allora tanto vale che te li faccia arrivare fino ai piedi. Il babbo non sgancerà un centesimo>>
<<Ecco, ora capisci cosa intendo per "il sistema". Il babbo rappresenta il prototiopo dell'autorità borghese reazionaria, nonché seguace del Capitalismo>>
<<Mi sembra di sentir parlare il nonno Enrico, pace all'anima sua>>
<<Enrico era un grande, e anche zio Edoardo è un grande. Faremo la rivoluzione un giorno!>>
Quando Romano venne a sapere di quella frase, si infuriò come un leone:
<<Vuoi fare la rivoluzione? Te la do io la rivoluzione! Io faccio la rivoluzione tutti i giorni lavorando! Ma se ti metti nei guai, Francesco, non bussare alla mia porta.
Che tempi! Che cosa mi tocca vedere!>>
Francesco era galvanizzato da quelle prediche: gli sembrava di essere già una specie di Che Guevara:
<<E questo è solo l'inizio babbo... aspetta qualche anno e succederà di tutto! Gli Anni Sessanta resteranno nella storia. Aspetta e vedrai!>>
Il suo aspetto severo e austero, con l'età divenne vagamente arcigno, pur mantenendo un'imponenza che oggi si potrebbe ritrovare in attori come Charles Dance.
Ma un cambiamento interiore significativo era avvenuto in lui dopo la morte del fratello Ferdinando, Romano era diventato ipocondriaco.
Per prevenire le malattie, aveva adottato uno stile di vita ancora più spartano.
Mangiava poco, prediligeva le verdure, camminava spedito almeno due ore tutti i giorni, non beveva alcolici, non fumava, andava a letto presto e dormiva regolarmente almeno otto ore.
Ciononostante viveva nel terrore di poter contrarre qualche malattia, in particolare la tubercolosi, di cui erano morti due sorelle e un fratello, oppure l'ipertensione, per la quale andava tutti i giorni dal farmacista a farsi misurare la pressione.
Ogni volta che entrava in farmacia, ne usciva con medicinali generici e autoprescritti di tutti i generi: aspirina in compresse effervescenti, caramelle balsamiche e antisettiche (che consumava con gusto, come se fossero cioccolatini), vitamine, tachipirina, citrosodina, sali minerali, supposte, colliri, spray nasali, microclismi, digestivi, soluzione Schoum, colluttori, pomate di ogni genere e per ogni evenienza, acqua ossigenata, disinfettanti vari, cerotti, garze, bende, cotone idrofilo ed emostatico. tappi per le orecchie, lozioni per i capelli, amaro medicinale Giuliani, gocce di valeriana e altre pozioni che lo attraevano anche solo per il colore o per il gusto.
E quello fu solo l'inizio della sua esperienza di "impasticcato", che lo portò col tempo a disporre di un vero e proprio laboratorio chimico-farmaceutico finalizzato alla creazione dell'Elisir di lunga vita.
Era preciso e puntiglioso in ogni cosa che facesse, in particolare sul lavoro.
Da quando era diventato direttore dell'Azienda Fratelli Monterovere (il presidente era suo suocero, l'ingegner Lanni), aveva imposto ai dipendenti un regime quasi militare ed un'efficienza svizzera, o meglio ancora teutonica e prussiana, da far invidia a Federico il Grande e a tutta la dinastia degli Hohenzollern.
Il suo perfezionismo, così come la sua abitudinarietà, assunsero i contorni di un disturbo ossessivo-compulsivo: rispettava gli orari con tale precisione che la gente metteva a punto l'orologio ogni volta che lo vedeva passare: era più affidabile del meridiano di Greenwitch.
Naturalmente sua moglie e i suoi figli erano tenuti a rispettare la stessa vita da caserma, il che non era affatto facile.
Giulia fumava, come anche la figlia Enrichetta. Il figlio Francesco aveva orari opposti a quelli del padre. Il terzogenito Lorenzo, di carattere timidissimo e remissivo, subiva ramanzine continue per la sua goffaggine,"mollezza" e pigrizia.
Romano distribuiva equamente rimproveri e scappellotti, ma l'effetto che otteneva era il contrario di ciò che si era prefisso.
In particolare lo preoccupava il primogenito Francesco, ribelle per natura e studente presso la Facoltà di Matematica e Fisica dell'Università Bologna.
Ovviamente Francesco non aveva avuto il permesso di prendere alloggio nella città universitaria, per cui faceva su e giù da Faenza, in treno, tutti i giorni.
Non era una cosa particolarmente piacevole, e non era nemmeno l'unico motivo di attrito tra padre e figlio, opposti quasi in tutto.
Un grande scandalo avvenne quando, Francesco. precorrendo i tempi e le mode della Contestazione, si face crescere i capelli lunghi fino alle spalle.
Romano non si dava pace:
<<E' questo che ti insegnano all'università? A diventare un capellone e uno scansafatiche? Io alla tua età...>> ed elencava una serie di lavori mai svolti.
Francesco il più delle volte non si degnava nemmeno di rispondere.
Allora Romano mandava avanti il figlio minore, Lorenzo, in avanscoperta.
Francesco riconosceva i famigliari dal modo in cui bussavano alla porta.
Mentre Enrichetta era come un treno in corsa, Lorenzo si limitava ad una timida grattatina.
<<Il babbo è molto preoccupato per te>>
<<Ma dai? Non me n'ero accorto!>>
<<Se solo accettassi di tagliarteli almeno un po'...>>
<<Non se ne parla>>
<<Però almeno potresti evitare di andare in giro con le mollette e la coda di cavallo>>
<<Lorenzo, perché non ti fai gli affari tuoi? Ti ha promesso qualcosa, il vecchio?>
<<Io non so come hanno fatto a sopportarti i Salesiani per sette anni>>
<<E' per colpa loro che sono un ribelle>>
<<Ma ribelle contro cosa?>>
<<Contro tutto, contro la società, contro il sistema...>>
<<Ma quale sistema? Io non capisco proprio di cosa tu stia parlando>>
<<Perché sei un patacca, Lorenzo, scusami tanto!>>
<<Sì sì, vedremo. Ci rivediamo tra trent'anni, e poi mi saprai dire chi è il patacca>>
<<Non illuderti Lorenzo, tu sei nato così, non ci puoi far niente. Ma se ti allei con me, potremmo fare grandi cose. Va' a dire al babbo che se mi trova una stanza a Bologna, mi taglio i capelli subito>>
<<Allora tanto vale che te li faccia arrivare fino ai piedi. Il babbo non sgancerà un centesimo>>
<<Ecco, ora capisci cosa intendo per "il sistema". Il babbo rappresenta il prototiopo dell'autorità borghese reazionaria, nonché seguace del Capitalismo>>
<<Mi sembra di sentir parlare il nonno Enrico, pace all'anima sua>>
<<Enrico era un grande, e anche zio Edoardo è un grande. Faremo la rivoluzione un giorno!>>
Quando Romano venne a sapere di quella frase, si infuriò come un leone:
<<Vuoi fare la rivoluzione? Te la do io la rivoluzione! Io faccio la rivoluzione tutti i giorni lavorando! Ma se ti metti nei guai, Francesco, non bussare alla mia porta.
Che tempi! Che cosa mi tocca vedere!>>
Francesco era galvanizzato da quelle prediche: gli sembrava di essere già una specie di Che Guevara:
<<E questo è solo l'inizio babbo... aspetta qualche anno e succederà di tutto! Gli Anni Sessanta resteranno nella storia. Aspetta e vedrai!>>
mercoledì 8 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 44. L'Antagonista
In ogni narrazione che si rispetti, a contrapporsi ai protagonisti, devono esserci degli antagonisti, e tra questi deve essercene uno che rappresenti, in un certo qual modo, l'incarnazione del Male.
Ecco, costui è l'Antagonista per antonomasia.
Nel nostro romanzo si potrebbe pensare che questo ruolo spetti al traditore pluriomicida Michele Braghiri, o alla sua diabolica moglie Ida, una sorta di Lady Macbeth "de' noantri", come si direbbe in romanesco.
Ma ai coniugi Braghiri mancava il carisma: erano cattivi, capaci di tutto, ma rimanevano comunque troppo rozzi, ridicoli, quasi caricaturali, per poter ricoprire il ruolo elevato dell'Antagonista.
Quest'ultimo deve avere una personalità più complessa, una mente più sottile, una cultura più ampia e un'astuzia più raffinata, capace di compiere anche cose grandi: terribili, certo, ma grandi.
E dunque il ruolo di Antagonista, nel nostro romanzo, spetta a un personaggio malvagio e odioso quanto loro, ma più sottile, erudito e subdolo, e cioè il loro adorato figlio, Massimo Braghiri, nato nel 1938, cresciuto a Villa Orsini quasi come un familiare dei padroni.
Ed era proprio quel "quasi" a rendere così totalizzante la sua invidia nei confronti del potente clan Ricci-Orsini, i Conti di Casemurate, proprietari del Feudo e della Villa, imparentati con tutti gli aristocratici e i notabili dell'alta società.
Massimo aveva maturato un'altissima considerazione di sé, dovuta alla venerazione che gli tributavano i genitori, che con tutti gli altri avevano un atteggiamento duro e sprezzante, e anche alla predilezione che aveva mostrato nei suoi confronti nientemeno che la Signorina De Toschi.
In realtà quest'ultima "corrispondenza di amorosi sensi" era una conseguenza della spontanea tendenza di Massimo Braghiri ad adulare i personaggi influenti, salvo poi pugnalarli alle spalle quando non servivano più ai suoi scopi.
Le lusinghe verso la De Toschi avevano una duplice motivazione: in primo luogo l'attempata Signorina, ora che il Generale suo padre era stato "assunto in Cielo" dopo un funerale solenne con tanto di banda, canti bersaglieri e squilli di fanfara, aveva ereditato un patrimonio immenso e una serie di "clientele" in alto loco da far concorrenza al ministro Andreotti; in secondo luogo la suddetta De Toschi era anche sua insegnante di ripetizione di latino, dal momento che Massimo, studente del Liceo Scientifico, aveva qualche difficoltà in quella materia.
In realtà, tutti coloro che ambivano a diventare "qualcuno" nell'alta società andavano a lezione privata dalla Signorina, le cui raccomandazioni erano un passepartout senza eguali.
Persino i suoi parenti si sentivano in soggezione nei suoi confronti, a tal punto che la stessa Silvia Ricci-Orsini, che pure andava benissimo in tutte le materie, compreso il latino e il greco, era stata obbligata da sua nonna Emilia a prendere lezioni dalla De Toschi, con la motivazione che "è sempre meglio avere la Signorina dalla nostra parte".
La madre di Silvia, Diana Orsini, che ai suoi tempi era stata una vittima delle trame della Signorina, si era opposta in tutti i modi, ma suo marito Ettore Ricci, di solito assai tirchio, si era mostrato estremamente prodigo in quella circostanza, vincendo così le resistenze della figlia.
La pensava allo stesso modo di Ettore anche Ginevra Orsini, l'unica sorella superstite di Diana, nonché moglie del giudice De Gubernatis, che aveva insistito perché anche le sue figlie Anna ed Elisabetta frequentassero quella "centrale di ripetizioni greco-latine" che era il Villino De Toschi.
E così, tutti questi allievi, si incontravano spesso nell'anticamera del salottino a piano terra, dove la Signorina educava i suoi discepoli all'ossequio del classicismo canonico e dell'ordine costituito.
E qui, nell'anticamera, Massimo Braghiri, con voce altissima, si prodigava a dipingere la signorina, oltre che come la persona più colta sulla faccia della terra, anche come una Venere del Botticelli, con "capelli dorati e occhi color acquamarina".
Anna ed Elisabetta De Gubernatis ascoltavano in silenzio stupefatto quelle lodi sperticate, mentre Silvia un giorno osò replicare che la vecchia De Toschi sembrava piuttosto "un vecchio ippopotamo imbellettato e catarroso".
Sfortuna volle che la Signorina, a causa di una abbondante evacuazione dell'intestino, si trovasse nel minuscolo bagno con scarico a catenella e porta sottilissima, adiacente alla sala d'aspetto.
Pertanto Mariuccia De Toschi, mentre produceva il meglio di sé sulla tazza, ebbe modo di ascoltare quel colloquio e molti fanno risalire proprio a questa spiacevolissima circostanza la sua ostilità nei confronti di Silvia e la sua adorazione nei riguardi di Massimo Braghiri.
Quando uscì con aria burbanzosa dal cubicolo trasformato in una letale camera a gas, la De Toschi sorrise a Massimo, accennò un saluto alle sorelle De Gubernatis ed ignorò completamente Silvia Ricci-Orsini.
Massimo Braghiri sentì di aver segnato un punto a suo favore, e ancora non sapeva di aver guadagnato un altro importantissimo sostegno, ovvero quello di Elisabetta De Gubernatis, che in quel "romantico" contesto incominciò a sviluppare per lui un sentimento d'amore destinato ad assumere un ruolo molto importante all'interno del nostro romanzo.
All'epoca però Massimo puntava molto più in alto: il suo stesso nome lo spingeva a puntare al "vertice", anche in ambito di progetti matrimoniali.
Fin dalla più tenera età i suoi genitori lo avevano convinto di avere tutte le carte in regola per aspirare alla mano della primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, ossia la bella, ma capricciosa Margherita Ricci-Orsini.
Peccato per Massimo che Ettore Ricci avesse per la sua figlia prediletta ben altri progetti, peraltro sostenuti dalla stessa Margherita, che ambiva a un matrimonio prestigioso.
Fu così che, quando Michele Braghiri osò proporre ad Ettore Ricci di sancire l'alleanza delle loro famiglie con un matrimonio dinastico tra Massimo e Margherita, Ettore, sorpreso e quasi divertito, pronunciò una frase che gli sarebbe costata molto cara nei decenni a venire:
<<Mio caro Michele, tu sei il mio miglior servitore, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore. >>
Nell'udire quella risposta, Michele Braghiri divenne verde di rabbia e giurò vendetta nel suo cuore.
Massimo, che ascoltava dietro una porta, si sentì trafitto da parte a parte nel suo orgoglio, che già allora era notevole e maturò dentro di sé propositi ancora peggiori di quelli a cui pensava suo padre.
"Giuro che non avrò pace finché non vedrò la completa rovina di Ettore Ricci, di sua moglie Diana Orsini, delle sue tre figlie e dei suoi futuri generi e nipoti. Li farò precipitare nella polvere e nel fango, e non avrò pietà finché non li avrò visti strisciare a terra come vermi, derisi e compatiti da tutti coloro che adesso li omaggiano o li temono. Lo giuro sulla mia stessa vita, e dedico la mia vita a questa impresa, fino a quando non sarò io a prendere tutto ciò che adesso è dei Ricci-Orsini, ed a fondare io stesso una dinastia che farà impallidire le ormai passate glorie di questa stirpe venale e destinata a una fine precoce".
E fu a questo che pensò quando la bellissima contessina Margherita Ricci-Orsini sposò con una cerimonia memorabile, il giovane rampollo Amilcare Spreti di Serachieda, terzogenito del marchese proprietario del Feudo Spreti, che controllava gran parte delle terre della Marca di Casemurate di Ravenna, confinante con la Contea di Casemurate di Forlì.
Inutile dire che Massimo Braghiri si faceva beffe di tutti quei marchesi e quei conti, ostentava una copia de "La rivoluzione francese" del Lefevre e professava idee giacobine.
Ettore Ricci, quando lo venne a sapere, commentò: <<Eccolo là, il nostro rivoluzionario, che vuol fare il comunista con i soldi degli altri!>>
Massimo lo fissò cupamente, senza rispondere, ma dentro di sé rinnovò i suoi giuramenti e ricordò a se stesso che tra lui e la famiglia Ricci-Orsini la divergenza non era tanto una questione politica, quanto, soprattutto, una questione privata.
Ecco, costui è l'Antagonista per antonomasia.
Nel nostro romanzo si potrebbe pensare che questo ruolo spetti al traditore pluriomicida Michele Braghiri, o alla sua diabolica moglie Ida, una sorta di Lady Macbeth "de' noantri", come si direbbe in romanesco.
Ma ai coniugi Braghiri mancava il carisma: erano cattivi, capaci di tutto, ma rimanevano comunque troppo rozzi, ridicoli, quasi caricaturali, per poter ricoprire il ruolo elevato dell'Antagonista.
Quest'ultimo deve avere una personalità più complessa, una mente più sottile, una cultura più ampia e un'astuzia più raffinata, capace di compiere anche cose grandi: terribili, certo, ma grandi.
E dunque il ruolo di Antagonista, nel nostro romanzo, spetta a un personaggio malvagio e odioso quanto loro, ma più sottile, erudito e subdolo, e cioè il loro adorato figlio, Massimo Braghiri, nato nel 1938, cresciuto a Villa Orsini quasi come un familiare dei padroni.
Ed era proprio quel "quasi" a rendere così totalizzante la sua invidia nei confronti del potente clan Ricci-Orsini, i Conti di Casemurate, proprietari del Feudo e della Villa, imparentati con tutti gli aristocratici e i notabili dell'alta società.
Massimo aveva maturato un'altissima considerazione di sé, dovuta alla venerazione che gli tributavano i genitori, che con tutti gli altri avevano un atteggiamento duro e sprezzante, e anche alla predilezione che aveva mostrato nei suoi confronti nientemeno che la Signorina De Toschi.
In realtà quest'ultima "corrispondenza di amorosi sensi" era una conseguenza della spontanea tendenza di Massimo Braghiri ad adulare i personaggi influenti, salvo poi pugnalarli alle spalle quando non servivano più ai suoi scopi.
Le lusinghe verso la De Toschi avevano una duplice motivazione: in primo luogo l'attempata Signorina, ora che il Generale suo padre era stato "assunto in Cielo" dopo un funerale solenne con tanto di banda, canti bersaglieri e squilli di fanfara, aveva ereditato un patrimonio immenso e una serie di "clientele" in alto loco da far concorrenza al ministro Andreotti; in secondo luogo la suddetta De Toschi era anche sua insegnante di ripetizione di latino, dal momento che Massimo, studente del Liceo Scientifico, aveva qualche difficoltà in quella materia.
In realtà, tutti coloro che ambivano a diventare "qualcuno" nell'alta società andavano a lezione privata dalla Signorina, le cui raccomandazioni erano un passepartout senza eguali.
Persino i suoi parenti si sentivano in soggezione nei suoi confronti, a tal punto che la stessa Silvia Ricci-Orsini, che pure andava benissimo in tutte le materie, compreso il latino e il greco, era stata obbligata da sua nonna Emilia a prendere lezioni dalla De Toschi, con la motivazione che "è sempre meglio avere la Signorina dalla nostra parte".
La madre di Silvia, Diana Orsini, che ai suoi tempi era stata una vittima delle trame della Signorina, si era opposta in tutti i modi, ma suo marito Ettore Ricci, di solito assai tirchio, si era mostrato estremamente prodigo in quella circostanza, vincendo così le resistenze della figlia.
La pensava allo stesso modo di Ettore anche Ginevra Orsini, l'unica sorella superstite di Diana, nonché moglie del giudice De Gubernatis, che aveva insistito perché anche le sue figlie Anna ed Elisabetta frequentassero quella "centrale di ripetizioni greco-latine" che era il Villino De Toschi.
E così, tutti questi allievi, si incontravano spesso nell'anticamera del salottino a piano terra, dove la Signorina educava i suoi discepoli all'ossequio del classicismo canonico e dell'ordine costituito.
E qui, nell'anticamera, Massimo Braghiri, con voce altissima, si prodigava a dipingere la signorina, oltre che come la persona più colta sulla faccia della terra, anche come una Venere del Botticelli, con "capelli dorati e occhi color acquamarina".
Anna ed Elisabetta De Gubernatis ascoltavano in silenzio stupefatto quelle lodi sperticate, mentre Silvia un giorno osò replicare che la vecchia De Toschi sembrava piuttosto "un vecchio ippopotamo imbellettato e catarroso".
Sfortuna volle che la Signorina, a causa di una abbondante evacuazione dell'intestino, si trovasse nel minuscolo bagno con scarico a catenella e porta sottilissima, adiacente alla sala d'aspetto.
Pertanto Mariuccia De Toschi, mentre produceva il meglio di sé sulla tazza, ebbe modo di ascoltare quel colloquio e molti fanno risalire proprio a questa spiacevolissima circostanza la sua ostilità nei confronti di Silvia e la sua adorazione nei riguardi di Massimo Braghiri.
Quando uscì con aria burbanzosa dal cubicolo trasformato in una letale camera a gas, la De Toschi sorrise a Massimo, accennò un saluto alle sorelle De Gubernatis ed ignorò completamente Silvia Ricci-Orsini.
Massimo Braghiri sentì di aver segnato un punto a suo favore, e ancora non sapeva di aver guadagnato un altro importantissimo sostegno, ovvero quello di Elisabetta De Gubernatis, che in quel "romantico" contesto incominciò a sviluppare per lui un sentimento d'amore destinato ad assumere un ruolo molto importante all'interno del nostro romanzo.
All'epoca però Massimo puntava molto più in alto: il suo stesso nome lo spingeva a puntare al "vertice", anche in ambito di progetti matrimoniali.
Fin dalla più tenera età i suoi genitori lo avevano convinto di avere tutte le carte in regola per aspirare alla mano della primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, ossia la bella, ma capricciosa Margherita Ricci-Orsini.
Peccato per Massimo che Ettore Ricci avesse per la sua figlia prediletta ben altri progetti, peraltro sostenuti dalla stessa Margherita, che ambiva a un matrimonio prestigioso.
Fu così che, quando Michele Braghiri osò proporre ad Ettore Ricci di sancire l'alleanza delle loro famiglie con un matrimonio dinastico tra Massimo e Margherita, Ettore, sorpreso e quasi divertito, pronunciò una frase che gli sarebbe costata molto cara nei decenni a venire:
<<Mio caro Michele, tu sei il mio miglior servitore, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore. >>
Nell'udire quella risposta, Michele Braghiri divenne verde di rabbia e giurò vendetta nel suo cuore.
Massimo, che ascoltava dietro una porta, si sentì trafitto da parte a parte nel suo orgoglio, che già allora era notevole e maturò dentro di sé propositi ancora peggiori di quelli a cui pensava suo padre.
"Giuro che non avrò pace finché non vedrò la completa rovina di Ettore Ricci, di sua moglie Diana Orsini, delle sue tre figlie e dei suoi futuri generi e nipoti. Li farò precipitare nella polvere e nel fango, e non avrò pietà finché non li avrò visti strisciare a terra come vermi, derisi e compatiti da tutti coloro che adesso li omaggiano o li temono. Lo giuro sulla mia stessa vita, e dedico la mia vita a questa impresa, fino a quando non sarò io a prendere tutto ciò che adesso è dei Ricci-Orsini, ed a fondare io stesso una dinastia che farà impallidire le ormai passate glorie di questa stirpe venale e destinata a una fine precoce".
E fu a questo che pensò quando la bellissima contessina Margherita Ricci-Orsini sposò con una cerimonia memorabile, il giovane rampollo Amilcare Spreti di Serachieda, terzogenito del marchese proprietario del Feudo Spreti, che controllava gran parte delle terre della Marca di Casemurate di Ravenna, confinante con la Contea di Casemurate di Forlì.
Inutile dire che Massimo Braghiri si faceva beffe di tutti quei marchesi e quei conti, ostentava una copia de "La rivoluzione francese" del Lefevre e professava idee giacobine.
Ettore Ricci, quando lo venne a sapere, commentò: <<Eccolo là, il nostro rivoluzionario, che vuol fare il comunista con i soldi degli altri!>>
Massimo lo fissò cupamente, senza rispondere, ma dentro di sé rinnovò i suoi giuramenti e ricordò a se stesso che tra lui e la famiglia Ricci-Orsini la divergenza non era tanto una questione politica, quanto, soprattutto, una questione privata.
domenica 5 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 43. La terra trema
Ci sono periodi in cui si ha l'impressione, errata, che non succeda mai niente, supportata dai quotidiani che si dilungano sul tempo meteorologico, sugli incidenti stradali e sulle schermaglie politiche di piccolo cabotaggio.
L' "opaca trafila delle cose", scriveva Sereni, e prima di lui Montale, il suo maestro, che parlava della vita come "uno scialo di triti fatti, vano più che crudele".
Eppure è proprio in questi periodi di apparente bonaccia in cui si gettano le basi del futuro, nel bene e nel male.
I fiori del male crescono più rapidamente, ma di tanto in tanto, in qualche orticello protetto dalle intemperie, ecco nascere i germogli di ciò che, negli anni bui, era stata la semina dell'avvenire.
E i risultati si videro per caso, senza nessuna premeditazione, e diedero avvio ad una serie di eventi destinata a influenzare le sorti della Contea.
Questo fatto avvenne verso la fine dei sonnolenti anni 50 e riguardò la diciassettenne Silvia Ricci-Orsini, la figlia "di mezzo" (ossia la secondogenita delle tre) di Ettore Ricci e Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
La sua insegnante di latino e greco al Liceo Classico di Forlì, la professoressa Veronica Ottobrini, aveva incontrato per puro caso, in treno, una "personalità" del mondo casemuratense e cioè una certa Lucia Biasoni, titolare del negozio di alimentari, e nota, oltre che per essere una vera e propria centrale del pettegolezzo, anche per il fatto di sfoggiare dei folti baffi castani.
La signora Biasoni apparteneva alla temibile categoria di coloro che in treno attaccano bottone con tutti, in particolare con chiunque si trovi di fianco o davanti a loro.
In quel memorabile viaggio sull'Accelerato delle 15.25 della Romagna Centrale, lungo la paludosa tratta Lugo-Bagnacavallo, la prof. Ottobrini fu vittima della logorroica attenzione della signora Biasoni.
Quando, in quel fiume di parole, in mezzo a quella cacofonia di suoni, la Ottobrini distinse il nome di Casemurate, le venne subito in mente la sua studentessa preferita e non appena fece il nome di Silvia Ricci-Orsini, fu come se fossero state aperte le cateratte del Nilo.
La Biasoni raccontò nei minimi particolari le imprese degli Orsini di Casemurate dalla fondazione della Contea fino al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
La Ottobrini, impressionata da quelle vicende che sembravano appartenere ai tempi dei Borgia, ebbe modo di tessere le lodi di Silvia a tal punto che la Biasoni dimenticò di scendere alla fermata di Godo, e finì poi per perdersi nell'hinterland ravennate.
Chi non è di Ravenna deve sapere che è una città in cui è facile entrare, ma quasi impossibile uscire, a causa di un ginepraio di tangenziali, autostrade, antiche vie romane, paludi e sobborghi che dai tempi dell'imperatore Onorio l'avevano resa una sorta di labirinto in cui anche i barbari più temibili, come Teodorico, finivano per rimanere intrappolati e nel contempo ammaliati.
Quando infine la vecchia Lucia riuscì a tornare a Casemurate, grazie a una cigolante corriera del Dismano, la prima cosa che fece fu di telefonare a tutti i suoi conoscenti per raccontare ogni dettaglio dell'accaduto, non senza preconizzare, per la giovane Silvia Ricci-Orsini, un futuro a tal punto luminoso che <<presto la vedremo in televisione>>
La notizia fece il giro della Contea, passò di bocca in bocca in tutto il Feudo, fino ad arrivare al suo nucleo operativo, la Villa.
Fu l'anziana maestra Clara Ricci, madre di Ettore, a comunicare tutto alla governante della Villa, la signora Ida Braghiri, la quale si era fatta verde in faccia dall'invidia, arrivando persino a dire che, comunque, <<il mio Massimo non è da meno!>> riferendosi all'adorato figlio maschio.
La conversazione fu udita dalla vecchia Contessa Madre Emilia, che per l'occasione si scolò una bottiglia di Nero d'Avola del 1860, un vino talmente pesante che avrebbe corroso migliaia di stomaci e fegati meno robusti e allenati del suo.
Emilia riferì quanto udito alla figlia Diana, la quale telefonò subito al collegio dove alloggiava Silvia.
L'unico che paradossalmente non si rallegrò in alcun modo della cosa fu Ettore Ricci:
<<Mia figlia va bene a scuola? E' il minimo, con tutto quello che pago per mantenerla!>>
Al momento in cui Diana chiamò, Silvia non era ancora tornata dalla biblioteca.
Quando ritornò, le suore riferirono che aveva ricevuto una telefonata da casa.
Considerata la rarità dell'evento, Silvia richiamò subito.
Purtroppo rispose il padre:
<<Qui Ettore Ricci, chi parla?>>
Il tono era ancora più burbero del solito.
<<Ciao babbo, come stai?>>
E lui:
<<Brutte notizie! Non sono ancora schiattato!>>
Era una delle sue risposte più frequenti, ma Silvia non riusciva ad abituarsi:
<<Dai, non fare così. E comunque ho telefonato solo perché mi avete cercato voi>>
E lui, ironico:
<<Ho avuto onori più grandi, ai miei tempi>>
Silvia non poté fare a meno di sorridere:
<<Va be', immagino che non sia stato tu a chiamarmi, nel qual caso sarebbe davvero un evento storico>>
Ettore in fondo si divertiva a punzecchiare le figlie:
<<No, ho da lavorare io! Ci dovrà pur essere qualcuno che tira avanti la baracca mentre tutti gli altri oziano! Ovviamente ti ha chiamato tua madre>>
Ettore e Diana non si parlavano più dai tempi della morte di Federico Traversari.
<<Me la puoi passare, allora?>>
A quel punto avvenne una cosa piuttosto insolita, dovuta ai dissapori tra i coniugi Ricci-Orsini
Marito e moglie, non si rivolgendosi più la parola, comunicavano attraverso il cane.
Ettore, a voce altissima, si rivolse al suo fido levriero:
<<Bill, va' a dire alla tua padrona che sua figlia vuole parlare con lei>>
Silvia sospirò:
<<Babbo, non ricominciare con questa storia del cane>>
Lui sbuffò:
<<Quel cane è più intelligente di tutti voi Orsini messi insieme! Ti saluto e mi raccomando, non ti montare la testa!>>
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Si sentì il cane abbaiare e poi silenzio per un po':
<<Pronto Silvia, sono la mamma>>
<<Ciao mamma, mi avevi chiamato tu?>>
<<Sì, volevo dirti che qui a Casemurate tutti parlano di te. La Ottobrini ha incontrato in treno la Lucia Biasoni>> e le raccontò tutto quello che si erano dette.
Silvia si sentiva investita di una responsabilità eccessiva:
<<Uhm, non vorrei che si creassero aspettative troppo alte sul mio conto. Il babbo mi è sembrato più sarcastico del solito>>
Diana rise:
<<Lo sai com'è fatto, ma sono sicura che in cuor suo è orgoglioso di te. Siamo tutti orgogliosi. Di questi tempi abbiamo avuto così pochi motivi per rallegrarci. La nonna Emilia ha festeggiato ubriacandosi e la nonna Clara ha girato in bicicletta fino a Cesena per spargere la notizia>>
Silvia si sentì sprofondare:
<<Immagino che Ida Braghiri si stia mangiando il fegato e stia ricordando a tutti quanto è bravo il suo Massimo>>
Diana confermò:
<<Certe cose non cambieranno mai>>
Silvia aveva una certa soggezione per la Governante e la sua famiglia:
<<Ida Braghiri ci seppellirà tutti, prima o poi. C'è gente che vive solo per assistere alle disgrazie degli altri>>
Diana abbassò la voce:
<<Ne ha già viste abbastanza, di nostre disgrazie, la "cara" Ida.
Dovremo impegnarci molto per cercare di non darle troppe soddisfazioni>>
E si impegnarono notevolmente, al massimo grado, ma come sta scritto nella lapide in mezzo al deserto di El Alamein: "Mancò la fortuna, non il valore".
L' "opaca trafila delle cose", scriveva Sereni, e prima di lui Montale, il suo maestro, che parlava della vita come "uno scialo di triti fatti, vano più che crudele".
Eppure è proprio in questi periodi di apparente bonaccia in cui si gettano le basi del futuro, nel bene e nel male.
I fiori del male crescono più rapidamente, ma di tanto in tanto, in qualche orticello protetto dalle intemperie, ecco nascere i germogli di ciò che, negli anni bui, era stata la semina dell'avvenire.
E i risultati si videro per caso, senza nessuna premeditazione, e diedero avvio ad una serie di eventi destinata a influenzare le sorti della Contea.
Questo fatto avvenne verso la fine dei sonnolenti anni 50 e riguardò la diciassettenne Silvia Ricci-Orsini, la figlia "di mezzo" (ossia la secondogenita delle tre) di Ettore Ricci e Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
La sua insegnante di latino e greco al Liceo Classico di Forlì, la professoressa Veronica Ottobrini, aveva incontrato per puro caso, in treno, una "personalità" del mondo casemuratense e cioè una certa Lucia Biasoni, titolare del negozio di alimentari, e nota, oltre che per essere una vera e propria centrale del pettegolezzo, anche per il fatto di sfoggiare dei folti baffi castani.
La signora Biasoni apparteneva alla temibile categoria di coloro che in treno attaccano bottone con tutti, in particolare con chiunque si trovi di fianco o davanti a loro.
In quel memorabile viaggio sull'Accelerato delle 15.25 della Romagna Centrale, lungo la paludosa tratta Lugo-Bagnacavallo, la prof. Ottobrini fu vittima della logorroica attenzione della signora Biasoni.
Quando, in quel fiume di parole, in mezzo a quella cacofonia di suoni, la Ottobrini distinse il nome di Casemurate, le venne subito in mente la sua studentessa preferita e non appena fece il nome di Silvia Ricci-Orsini, fu come se fossero state aperte le cateratte del Nilo.
La Biasoni raccontò nei minimi particolari le imprese degli Orsini di Casemurate dalla fondazione della Contea fino al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
La Ottobrini, impressionata da quelle vicende che sembravano appartenere ai tempi dei Borgia, ebbe modo di tessere le lodi di Silvia a tal punto che la Biasoni dimenticò di scendere alla fermata di Godo, e finì poi per perdersi nell'hinterland ravennate.
Chi non è di Ravenna deve sapere che è una città in cui è facile entrare, ma quasi impossibile uscire, a causa di un ginepraio di tangenziali, autostrade, antiche vie romane, paludi e sobborghi che dai tempi dell'imperatore Onorio l'avevano resa una sorta di labirinto in cui anche i barbari più temibili, come Teodorico, finivano per rimanere intrappolati e nel contempo ammaliati.
Quando infine la vecchia Lucia riuscì a tornare a Casemurate, grazie a una cigolante corriera del Dismano, la prima cosa che fece fu di telefonare a tutti i suoi conoscenti per raccontare ogni dettaglio dell'accaduto, non senza preconizzare, per la giovane Silvia Ricci-Orsini, un futuro a tal punto luminoso che <<presto la vedremo in televisione>>
La notizia fece il giro della Contea, passò di bocca in bocca in tutto il Feudo, fino ad arrivare al suo nucleo operativo, la Villa.
Fu l'anziana maestra Clara Ricci, madre di Ettore, a comunicare tutto alla governante della Villa, la signora Ida Braghiri, la quale si era fatta verde in faccia dall'invidia, arrivando persino a dire che, comunque, <<il mio Massimo non è da meno!>> riferendosi all'adorato figlio maschio.
La conversazione fu udita dalla vecchia Contessa Madre Emilia, che per l'occasione si scolò una bottiglia di Nero d'Avola del 1860, un vino talmente pesante che avrebbe corroso migliaia di stomaci e fegati meno robusti e allenati del suo.
Emilia riferì quanto udito alla figlia Diana, la quale telefonò subito al collegio dove alloggiava Silvia.
L'unico che paradossalmente non si rallegrò in alcun modo della cosa fu Ettore Ricci:
<<Mia figlia va bene a scuola? E' il minimo, con tutto quello che pago per mantenerla!>>
Al momento in cui Diana chiamò, Silvia non era ancora tornata dalla biblioteca.
Quando ritornò, le suore riferirono che aveva ricevuto una telefonata da casa.
Considerata la rarità dell'evento, Silvia richiamò subito.
Purtroppo rispose il padre:
<<Qui Ettore Ricci, chi parla?>>
Il tono era ancora più burbero del solito.
<<Ciao babbo, come stai?>>
E lui:
<<Brutte notizie! Non sono ancora schiattato!>>
Era una delle sue risposte più frequenti, ma Silvia non riusciva ad abituarsi:
<<Dai, non fare così. E comunque ho telefonato solo perché mi avete cercato voi>>
E lui, ironico:
<<Ho avuto onori più grandi, ai miei tempi>>
Silvia non poté fare a meno di sorridere:
<<Va be', immagino che non sia stato tu a chiamarmi, nel qual caso sarebbe davvero un evento storico>>
Ettore in fondo si divertiva a punzecchiare le figlie:
<<No, ho da lavorare io! Ci dovrà pur essere qualcuno che tira avanti la baracca mentre tutti gli altri oziano! Ovviamente ti ha chiamato tua madre>>
Ettore e Diana non si parlavano più dai tempi della morte di Federico Traversari.
<<Me la puoi passare, allora?>>
A quel punto avvenne una cosa piuttosto insolita, dovuta ai dissapori tra i coniugi Ricci-Orsini
Marito e moglie, non si rivolgendosi più la parola, comunicavano attraverso il cane.
Ettore, a voce altissima, si rivolse al suo fido levriero:
<<Bill, va' a dire alla tua padrona che sua figlia vuole parlare con lei>>
Silvia sospirò:
<<Babbo, non ricominciare con questa storia del cane>>
Lui sbuffò:
<<Quel cane è più intelligente di tutti voi Orsini messi insieme! Ti saluto e mi raccomando, non ti montare la testa!>>
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Si sentì il cane abbaiare e poi silenzio per un po':
<<Pronto Silvia, sono la mamma>>
<<Ciao mamma, mi avevi chiamato tu?>>
<<Sì, volevo dirti che qui a Casemurate tutti parlano di te. La Ottobrini ha incontrato in treno la Lucia Biasoni>> e le raccontò tutto quello che si erano dette.
Silvia si sentiva investita di una responsabilità eccessiva:
<<Uhm, non vorrei che si creassero aspettative troppo alte sul mio conto. Il babbo mi è sembrato più sarcastico del solito>>
Diana rise:
<<Lo sai com'è fatto, ma sono sicura che in cuor suo è orgoglioso di te. Siamo tutti orgogliosi. Di questi tempi abbiamo avuto così pochi motivi per rallegrarci. La nonna Emilia ha festeggiato ubriacandosi e la nonna Clara ha girato in bicicletta fino a Cesena per spargere la notizia>>
Silvia si sentì sprofondare:
<<Immagino che Ida Braghiri si stia mangiando il fegato e stia ricordando a tutti quanto è bravo il suo Massimo>>
Diana confermò:
<<Certe cose non cambieranno mai>>
Silvia aveva una certa soggezione per la Governante e la sua famiglia:
<<Ida Braghiri ci seppellirà tutti, prima o poi. C'è gente che vive solo per assistere alle disgrazie degli altri>>
Diana abbassò la voce:
<<Ne ha già viste abbastanza, di nostre disgrazie, la "cara" Ida.
Dovremo impegnarci molto per cercare di non darle troppe soddisfazioni>>
E si impegnarono notevolmente, al massimo grado, ma come sta scritto nella lapide in mezzo al deserto di El Alamein: "Mancò la fortuna, non il valore".
mercoledì 1 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 42. Scene da un matrimonio
Come previsto, anche il caso della scomparsa di Federico Traversari fu insabbiato a dovere dall'ispettore Tartaglia, dal giudice istruttore De Gubernatis e dal senatore Baroni, i potenti cognati di Ettore Ricci, mentre la signorina De Toschi cercava, dal suo salottino, di minimizzare l'accaduto.
Ma questa volta Ettore capì subito di trovarsi in un mare di guai:
<<C'è qualcuno che vuol farsi interprete dei miei desideri, andando troppo oltre. Certo, io odiavo Federico, per forza, era l'amante di mia moglie, ma siccome avevano fatto tutto con grande discrezione, non desideravo certo la sua morte, anche perché io non sono a mia volta un marito esemplare, e Diana ha avuto il buon senso di non fare mai storie per i miei tradimenti.
Ma adesso la gente è convinta che sia stato io a far uccidere Traversari, e credo che ne siano convinti anche molti miei sostenitori. Insomma è uno scandalo, l'ennesimo scandalo, ed io non so nemmeno a chi dare la colpa>>
Il problema è che il colpevole era proprio colui col quale Ettore si stava confidando, il suo apparentemente fedelissimo braccio destro Michele Braghiri, che cercava in segreto di spodestarlo dalla guida del clan Ricci-Orsini, con una strategia mirata a indebolire sia la potenza dei Ricci che la rispettabilità dei Conti Orsini di Casemurate.
Lo scandalo che si era abbattuto sulla moglie di Ettore, la contessa Diana Orsini, era stato devastante, ma era ben poca cosa rispetto al suo dolore.
Un nuovo lutto si era abbattuto su di lei: dopo aver perso la sorella minore, il fratello e il padre, ora aveva perduto l'uomo che amava, e si era ritirata ancora una volta nella sua stanza "di vecchie pietre" a danzare con i suoi fantasmi.
Questa volta il colpo era stato ancora più duro e a farne le spese fu, come era inevitabile, ciò che rimaneva del suo matrimonio con Ettore.
Quando lui si presentò nella stanza di Diana dopo la morte di Federico, capì subito che, almeno nella sostanza, si era giunti alla fine.
Diana lo aveva scrutato in silenzio per un po', poi aveva sentenziato:
<<E' difficile credere che stavolta tu non c'entri per niente. E io non so nemmeno cosa sia meglio credere, perché se veramente non sono stati i tuoi scagnozzi a uccidere Federico dietro tuo ordine, allora vuol dire che tu hai perso il controllo della situazione e che quindi la nostra stessa famiglia è vulnerabile. Ti sei circondato di collaboratori inaffidabili, primi tra tutti i coniugi Braghiri: lui è un invidioso viscido verme e lei una strega spiona e traditrice. Fosse per me li avrei cacciati da un pezzo. Ma tu, nonostante tutte le arie da uomo astuto che ti dai, alla fine sei solo un ingenuo>>
Ettore non aveva mai dubitato della fedeltà dei coniugi Braghiri:
<<Non vedo perché Michele e Ida dovrebbero tradirci! Tutto quello che sono lo devono a noi, e se noi cadiamo, loro cadrebbero con noi!>>
Diana scosse il capo:
<<Ci scommetto la testa che Michele ha alterato la contabilità in modo che, se dovessero esserci delle contestazioni, tu risulteresti colpevole e lui addirittura vittima degna di risarcimento. Sono capaci di tutto. Il loro obiettivo è di far sposare la nostra Margherita con quello sbruffone di loro figlio Massimo, e te lo dico adesso: io non lo permetterò mai! Dovranno passare sul mio cadavere! Margherita, Silvia e Isabella saranno libere di sposare chiunque tranne Massimo Braghiri>>
Ettore sbuffò:
<<Sposeranno chi dico io!>>
A quel punto Diana ebbe una crisi di nervi destinata a passare alla storia.
Si gettò addosso al marito e lo prese a calci, pugni e unghiate.
<<Sposeranno chi vogliono loro! Non ci saranno più matrimoni combinati come il nostro, in questa famiglia! Mai più! Mai! Mai!>>
Quando la governante Ida Braghiri entrò nella stanza, Diana prese un vaso e glielo tirò in testa:
<<Strega! Lo so che tu e tuoi marito ci state ammazzando uno alla volta. Ma ti giuro che non vi prenderete niente: né la mia casa, né la mai famiglia, né la mia Contea. Non ti voglio più tra i piedi, lurida assassina!>>
La Braghiri batté in ritirata.
Ettore Ricci approfittò di quel diversivo per darsela a gambe.
Da quel giorno tutto cambiò.
Diana si vestì a lutto, per onorare la scomparsa dell'amante, e non uscì quasi mai dalla sua stanza, per lunghissimo tempo.
Assunse una cameriera personale del tutto indipendente da Ida Braghiri, che estromise dai piani superiori della Villa.
Ma soprattutto smise di parlare a Ettore, e ammise l'ingresso alla sua stanza soltanto alla cameriera, alle figlie e alla contessa madre Emilia.
Lassù nelle stanze dove erano vissuti gli antichi conti di Casemurate, Diana rimase, ancora una volta, a danzare con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.
Quelli che se se n'erano andati da così tanto tempo che lei non riusciva nemmeno a ricordarne il nome, facevano danzare la sua ombra sulle vecchie pietre umide, e le scrollavano di dosso tutta la sofferenza e il tormento.
E lei non voleva più uscire da lì, lei non voleva più andarsene da lì.
E i fantasmi danzavano per tutto il giorno e la notte, dall'inverno all'estate e dall'estate all'inverno, fino a che le mura stesse della sua casa creparono e si riempirono di muschio.
E lei non voleva uscire, lei non voleva andarsene.
Tutto il suo riscatto dipendeva dalle sue figlie e dalle loro scelte.
Loro avrebbero trovato il coraggio e i mezzi per fare giustizia.
Diana sapeva che avrebbe dovuto attendere che i suoi nemici facessero un passo falso : solo allora avrebbe potuto prendersi la sua rivincita.
Sapeva inoltre che l'attesa sarebbe durata a lungo, e per anni ella attese, e attese, e attese...
Nella vita bisogna saper attendere.
Ma questa volta Ettore capì subito di trovarsi in un mare di guai:
<<C'è qualcuno che vuol farsi interprete dei miei desideri, andando troppo oltre. Certo, io odiavo Federico, per forza, era l'amante di mia moglie, ma siccome avevano fatto tutto con grande discrezione, non desideravo certo la sua morte, anche perché io non sono a mia volta un marito esemplare, e Diana ha avuto il buon senso di non fare mai storie per i miei tradimenti.
Ma adesso la gente è convinta che sia stato io a far uccidere Traversari, e credo che ne siano convinti anche molti miei sostenitori. Insomma è uno scandalo, l'ennesimo scandalo, ed io non so nemmeno a chi dare la colpa>>
Il problema è che il colpevole era proprio colui col quale Ettore si stava confidando, il suo apparentemente fedelissimo braccio destro Michele Braghiri, che cercava in segreto di spodestarlo dalla guida del clan Ricci-Orsini, con una strategia mirata a indebolire sia la potenza dei Ricci che la rispettabilità dei Conti Orsini di Casemurate.
Lo scandalo che si era abbattuto sulla moglie di Ettore, la contessa Diana Orsini, era stato devastante, ma era ben poca cosa rispetto al suo dolore.
Un nuovo lutto si era abbattuto su di lei: dopo aver perso la sorella minore, il fratello e il padre, ora aveva perduto l'uomo che amava, e si era ritirata ancora una volta nella sua stanza "di vecchie pietre" a danzare con i suoi fantasmi.
Questa volta il colpo era stato ancora più duro e a farne le spese fu, come era inevitabile, ciò che rimaneva del suo matrimonio con Ettore.
Quando lui si presentò nella stanza di Diana dopo la morte di Federico, capì subito che, almeno nella sostanza, si era giunti alla fine.
Diana lo aveva scrutato in silenzio per un po', poi aveva sentenziato:
<<E' difficile credere che stavolta tu non c'entri per niente. E io non so nemmeno cosa sia meglio credere, perché se veramente non sono stati i tuoi scagnozzi a uccidere Federico dietro tuo ordine, allora vuol dire che tu hai perso il controllo della situazione e che quindi la nostra stessa famiglia è vulnerabile. Ti sei circondato di collaboratori inaffidabili, primi tra tutti i coniugi Braghiri: lui è un invidioso viscido verme e lei una strega spiona e traditrice. Fosse per me li avrei cacciati da un pezzo. Ma tu, nonostante tutte le arie da uomo astuto che ti dai, alla fine sei solo un ingenuo>>
Ettore non aveva mai dubitato della fedeltà dei coniugi Braghiri:
<<Non vedo perché Michele e Ida dovrebbero tradirci! Tutto quello che sono lo devono a noi, e se noi cadiamo, loro cadrebbero con noi!>>
Diana scosse il capo:
<<Ci scommetto la testa che Michele ha alterato la contabilità in modo che, se dovessero esserci delle contestazioni, tu risulteresti colpevole e lui addirittura vittima degna di risarcimento. Sono capaci di tutto. Il loro obiettivo è di far sposare la nostra Margherita con quello sbruffone di loro figlio Massimo, e te lo dico adesso: io non lo permetterò mai! Dovranno passare sul mio cadavere! Margherita, Silvia e Isabella saranno libere di sposare chiunque tranne Massimo Braghiri>>
Ettore sbuffò:
<<Sposeranno chi dico io!>>
A quel punto Diana ebbe una crisi di nervi destinata a passare alla storia.
Si gettò addosso al marito e lo prese a calci, pugni e unghiate.
<<Sposeranno chi vogliono loro! Non ci saranno più matrimoni combinati come il nostro, in questa famiglia! Mai più! Mai! Mai!>>
Quando la governante Ida Braghiri entrò nella stanza, Diana prese un vaso e glielo tirò in testa:
<<Strega! Lo so che tu e tuoi marito ci state ammazzando uno alla volta. Ma ti giuro che non vi prenderete niente: né la mia casa, né la mai famiglia, né la mia Contea. Non ti voglio più tra i piedi, lurida assassina!>>
La Braghiri batté in ritirata.
Ettore Ricci approfittò di quel diversivo per darsela a gambe.
Da quel giorno tutto cambiò.
Diana si vestì a lutto, per onorare la scomparsa dell'amante, e non uscì quasi mai dalla sua stanza, per lunghissimo tempo.
Assunse una cameriera personale del tutto indipendente da Ida Braghiri, che estromise dai piani superiori della Villa.
Ma soprattutto smise di parlare a Ettore, e ammise l'ingresso alla sua stanza soltanto alla cameriera, alle figlie e alla contessa madre Emilia.
Lassù nelle stanze dove erano vissuti gli antichi conti di Casemurate, Diana rimase, ancora una volta, a danzare con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.
Quelli che se se n'erano andati da così tanto tempo che lei non riusciva nemmeno a ricordarne il nome, facevano danzare la sua ombra sulle vecchie pietre umide, e le scrollavano di dosso tutta la sofferenza e il tormento.
E lei non voleva più uscire da lì, lei non voleva più andarsene da lì.
E i fantasmi danzavano per tutto il giorno e la notte, dall'inverno all'estate e dall'estate all'inverno, fino a che le mura stesse della sua casa creparono e si riempirono di muschio.
E lei non voleva uscire, lei non voleva andarsene.
Tutto il suo riscatto dipendeva dalle sue figlie e dalle loro scelte.
Loro avrebbero trovato il coraggio e i mezzi per fare giustizia.
Diana sapeva che avrebbe dovuto attendere che i suoi nemici facessero un passo falso : solo allora avrebbe potuto prendersi la sua rivincita.
Sapeva inoltre che l'attesa sarebbe durata a lungo, e per anni ella attese, e attese, e attese...
Nella vita bisogna saper attendere.
High in the halls of the kings who are gone
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones who had loved her the most
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones who had loved her the most
The ones who'd been gone for so very long
She couldn't remember their names
They spun her around on the damp old stones
Spun away all her sorrow and pain
She couldn't remember their names
They spun her around on the damp old stones
Spun away all her sorrow and pain
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
They danced through the day
And into the night through the snow that swept through the hall
From winter to summer then winter again
'Til the walls did crumble and fall
And into the night through the snow that swept through the hall
From winter to summer then winter again
'Til the walls did crumble and fall
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
High in the halls of the kings who are gone
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones
Who had loved her the most.
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones
Who had loved her the most.