Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
venerdì 9 agosto 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 13. Il secondo, tragico appuntamento di Ettore e Diana
Per porre rimedio all'esito increscioso del primo appuntamento, i Conti Orsini di Casemurate, decisero di invitare Ettore Ricci ad un'esclusiva cena di gala, servita, per l'occasione, nella Grande Sala in stile Impero, che da tempo non ospitava più eventi di rilievo.
Ettore Ricci, consapevole di dover rimediare a un'innumerevole serie di gaffes, ascoltò con molta attenzione le raccomandazioni di sua madre, la maestra Clara, e della Signorina De Toschi in persona, che gliele fece ripetere a memoria.
In teoria poteva sembrare un metodo infallibile, ma nella pratica esistevano alcune incognite e molti punti deboli, tra cui anche il fatto che i gusti dell'eccellente Signorina in fatto di estetica e di galateo, nonostante l'assidua frequentazione dell'Alta Società e l'indiscutibile autorità di cui godeva per amicizie e parentele, non erano del tutto affidabili.
Per esempio, quando ogni sera la De Toschi si faceva accompagnare da qualche commensale ad una cena luculliana, tendeva ad esagerare con i cosmetici, non solo per nascondere i segni spietati dell'età, del tabagismo e della ghiottoneria, ma anche perché, non essendo coniugata, si sentiva ancora, inconsciamente, una "ragazza in età da marito", autorizzata a dare nell'occhio per farsi notare da eventuali corteggiatori.
Tutti gli sforzi profusi nell'acconciare i capelli giallastri in una corona di trecce, come l'imperatrice Sissi, o nell'applicazione di un trucco che sarebbe apparso audace persino a una donna di strada, o ancora nella scelta di abiti e gioielli rigorosamente ereditati dalla madre, dalle parenti zitelle, dalle amiche decedute oppure regalati da qualche attendente del Babbo nella speranza di ottenere una raccomandazione, concorrevano nel realizzare un risultato ben preciso ed opposto alle intenzioni, ovverosia l'immagine di un ippopotamo con il rossetto e l'ombretto, la parrucca bionda, una parure di diamanti e un vestito a gonna ampia che sarebbe parso fuori moda persino ai tempi della regina Vittoria.
Anche nella famosa serata di riconciliazione tra i Ricci e gli Orsini, la Signorina De Toschi si era attenuta rigidamente al suo codice, il che comprendeva anche il trasporto a scrocco verso la Villa del Conte suo cugino.
La carrozza degli Orsini, pagata coi soldi dei Ricci, quella sera trasportò sia lei che il prode Ettore, visibilmente emozionato.
Indossava un frac che gli andava leggermente stretto in vita, per sembrare più snello, senza però riuscire ad evitare l' "effetto pinguino".
Come nella famosa canzone, portava "un cilindro per cappello, due diamanti per gemelli".
Erano stati fatti dei progressi tuttavia.
Il cilindro non era più listato a lutto, e non c'erano nemmeno le ghette bianche sulle scarpe.
E tuttavia qualche eccesso ancora persisteva, forse nel nodo troppo stretto del papillon bianco inamidato, o nella camicia con accenni di volant e colletto alto che gli impediva una corretta respirazione.
Appariva piuttosto ingessato e impacciato nei movimenti.
Questa volta, però, onde evitare gli spiacevoli inconvenienti dell'incontro precedente, si sforzava in tutti i modi di tenere a freno la sua congenita predisposizione verso il meteorismo e la flatulenza.
Inoltre aveva ricevuto delle istruzioni pratiche e precise anche da Ida Braghiri, la governante, su cosa dovesse fare e soprattutto evitare di fare.
All'inizio le cose parvero andare per il meglio.
In fondo Ettore Ricci non era uno stupido ed era consapevole di essere per indole un uomo troppo schietto e per costituzione piuttosto basso e tarchiato, e sapeva quindi che, in mancanza di fascino, avrebbe dovuto far valere altre argomentazioni.
Alcune sue qualità erano note, prima tra tutte la predisposizione per gli affari, dunque per farsi accettare da quei nobili squattrinati con la puzza sotto al naso, capiva che era necessario darsi un contegno, almeno all'inizio, e soltanto dopo, a cose fatte, e nei casi estremi, tirar fuori le unghie e i denti, e barare, se necessario, per ottenere tutto quello (e non era poco) che desiderava dalla vita.
Il problema non erano tanto i Conti Orsini, due vecchi relitti della Belle Epoque, il cui orologio si era fermato nel giugno del 1914, quanto piuttosto la maggiore delle loro figlie, la contessina Diana, perché Ettore era veramente innamorato di lei, anzi, per meglio dire era ossessionato da lei, forse perché rappresentava tutto ciò che ancora lui non aveva, e forse non avrebbe mai avuto.
La trovava così attraente da fargli perdere quella razionalità calcolatrice che invece funzionava perfettamente in ogni altra circostanza della vita.
Per questo, nonostante tutte le raccomandazioni e le precauzioni, il giovane Ricci faticava molto a calarsi nella parte del raffinato uomo di mondo.
Ad aprirgli la porta, quella sera, fu il Conte Achille in persona, un onore che era riservato soltanto ai creditori più insistenti.
Ettore mantenne un contegno formale, rigido, quasi meccanico.
Arrivò persino, come gli era stato suggerito dalla governante, a lusingare il Conte Achille lodando il ritratto di un suo antenato.
Il Conte si illuminò:
<<Quel cavaliere che vedete nel ritratto è il fondatore del ramo casemuratense della famiglia Orsini, il Conte Bernardo, nipote di papa Niccolò III>>
In quel momento, come colto da un accesso di sindrome di Stendhal, Ettore Ricci si sentì quasi venir meno, come se qualcosa lo volesse catturare dentro il ritratto di quel feroce cavaliere, che brandiva sullo scudo le insegne del Sommo Pontefice tra due orsi neri rampanti, simbolo del cognome dell'antica dinastia di cui voleva entrare a far parte.
C'erano molti altri ritratti simili, che si susseguivano persino lungo il muro che fiancheggiava la scalinata dell'ingresso.
Fu in quel momento che capì, senza ombra di dubbio, che tutti quei guerrieri, tutti quei Papi, si sarebbero sempre intromessi nella relazione tra lui e Diana, vanificando ogni suo sforzo di essere, o almeno di apparire, degno di lei.
Forse fu a causa di questa considerazione e del successivo avvilimento che invece di rispondere come la governante gli aveva suggerito, si ritrovò di nuovo a provare ostilità nei confronti del Conte Achille, un fallito che si dava arie da padrone, quando invece il vero padrone, di fatto era proprio Ettore.
Tutti questi pensieri, uniti all'emozione e alla tensione del momento, fecero sì' che l'unica esclamazione che uscì dalla sua bocca, in risposta alla sfila dei ritratti degli Orsini, fu un alquanto inopportuno:
<<Ostia!>>
Il Conte Achille, a sua volta profondamente avvilito, trattenne un sospiro e si limitò a fare strada al suo incorreggibile ospite, nonché creditore, sentendosi realmente un fallito, costretto a servire come maggiordomo i nuovi padroni di casa sua.
Nella Grande Sala Impero, il lungo tavolo d'ebano era stato strategicamente apparecchiato in modo tale che Ettore si trovasse esattamente di fronte a Diana, mentre ai due capi, a una certa distanza, sedevano il Conte e la Contessa, e nel mezzo, naturalmente, la Signorina De Toschi, che sarebbe stata comunque troppo impegnata a divorare qualunque cosa fosse commestibile nelle sue vicinanze, per poter creare problemi di sorta.
Ettore osservò prima di tutto le sorelle di Diana, ossia Ginevra e Isabella, e le trovò incantevoli, mentre non gli piacque affatto lo sguardo spavaldo del futuro cognato, Arturo, l'erede del titolo comitale.
<<L'altro vostro fratello non si unisce a noi, contessina Diana?>> chiese Ettore, perdendosi nell'intensità degli occhi neri della donna di cui era innamorato.
Il gelo percorse la sala, in tutta la sua ampiezza.
Il Conte alzò gli occhi al cielo, la Contessa Emilia iniziò a riempirsi il primo bicchiere di Cabernet-Sauvignon, mentre la Signorina stava fagocitando gli antipasti.
L'unico rumore era quello delle mandibole della De Toschi, che sembrava aver stritolato e ingurgitato un cinghiale vivo e vegeto.
<<L'altro fratello è morto>> rispose Diana, rivivendo improvvisamente il trauma infantile di quella malattia fulminea e spietata, la meningite, che l'aveva privata del suo adorato fratellino Eugenio.
Ettore si sentì subito sprofondare e perse il controllo:
<<Oh, Cristo... spero almeno di essere venuto al funerale!>>
A questa seconda gaffe, persino la De Toschi sollevò il naso dal piatto e lo fissò con aria truce.
Vedendo Ettore così in difficoltà, Diana, che in fondo era una persona gentile persino con i suoi nemici, veri o presunti, fece del suo meglio per rispondere in maniera garbata, seppur velata di un'amara e sottile ironia:
<<E' morto quindici anni fa. All'epoca la mia famiglia non aveva ancora il piacere di conoscere la vostra, signor Ricci.
Era ancora un bambino, e la meningite non ha alcuna pietà>>
Ettore assunse un'aria sinceramente affranta e i suoi occhi divennero umidi:
<<Ah, che disgrazia, che perdita per la nostra comunità! Certo che il mondo è proprio alla rovescio: la meningite avrebbe dovuto portarsi via anche due paia dei miei fratelli, che io ne ho fin troppi!>>
<<Ma cosa dite?>>
<<Be', vedete, non tutti hanno la fortuna di avere dei fratelli simpatici. Insomma, in ogni famiglia c'è una pecora nera, ma nella mia ce ne sono troppe! Si dice pure: "fratelli coltelli".
Ecco, due miei fratelli si sono presi a coltellate, una volta, perché volevano tutti e due la stessa donna>>
Diana, che era una persona di mondo, cercò di inquadrare il tutto in un contesto letterario:
<<Un duello per amore!>>
<<Ma anche lì più che amore era una questione di gnocca, come per mio zio Ettore, poveretto, che è stato sparato. Lo dico francamente, perché i miei fratelli sono delle teste di ca... >>
Improvvisamente conscio di aver di nuovo perso il controllo, il giovane Ricci finse di tossire, cercando di darsi un contegno.
Diana notò che sua madre aveva già scolato mezza bottiglia del suo inseparabile Cabernet-Sauvignon, mentre suo padre era completamente immerso nel sezionare chirurgicamente la sua pietanza.
Vide il sogghigno del fratello Arturo e le risatine di Ginevra e Isabella, e in quel momento Ettore le fece così pena che dimenticò tutti i suoi difetti e cercò di fare un ulteriore sforzo per risollevare le sorti della serata:
<<E le vostre sorelle, spero che almeno loro siano di vostro gradimento>>
Ettore si fece serio:
<<Mia cara contessina, io le rispondo col cuore in mano. Magari a qualcuno>> e fissò con aria di sfida il Conte Attilio e suo figlio Arturo <<non sembrerà bello che uno parli male dei parenti, ma io non sono capace di mentire, perché poi le bugie hanno il naso lungo>> e meccanicamente fissò la Contessa Emilia, il cui naso era inguardabile <<o le gambe corte, come me, ah ah! Ma è meglio che stia zitto, perché ogni volta che tento di rimediare, è peggio il tacon del buso!>>
Diana, che conosceva benissimo il dialetto, sorrise.
La Signorina De Toschi, invece, sentì il dovere di intervenire, in difesa della lingua di Dante e Manzoni.
<<Avrai detto cose bellissima, ma io non ho capito>>
Ettore Ricci era ormai in stato confusionale:
<<Niente, niente, era una pataccata>>
La De Toschi gli lanciò un'occhiataccia e poi decise di intervenire per riportare la conversazione a livelli più elevati.
<<Buonissimi questi strozzapreti! Chi li ha cucinati, la nuova serva?>>
Sentendosi chiamare "serva", la governante Ida Braghiri, che era una donna estremamente orgogliosa, intervenne con veemenza:
<<E' una mia ricetta speciale. E io sono la governante, e mio marito è l'amministratore del Feudo>>
La Signorina, che considerava i domestici alla stregua di scimmie ammaestrate, fece finta di non aver sentito, ma si astenne dal chiedere un secondo piatto, temendo che la governante ci avrebbe sputato dentro, prima di rimescolarlo.
Poi, per riprendere in mano la situazione, tuonò a gran voce:
<<Quando arriva la salciccia?>>
Ettore Ricci, che era stato istruito a seguire gli argomenti della Signorina, si unì al coro:
<<Ah, anche a me piace la salciccia. Ma mi piace anche la costolaccia, lo zampone, lo strutto, il lardo... del resto lo dice anche il proverbio: del porco non si butta via niente!>>
Ginevra e Isabella scoppiarono a ridere.
Ettore credette che apprezzassero il suo umorismo, che ridessero con lui, e non di lui.
Persi così gli ultimi freni inibitori, si lanciò in uno dei suoi cavalli di battaglia, in fatto di gastronomia:
<<Per esempio, voi non avete mai mangiato il migliaccio?>>
Tutti scossero la testa, ma solo la governante aveva capito, e proprio per questo cercava, tramite segnali in codice, di far tacere il giovane Ricci.
Lui non se ne accorse nemmeno:
<<E' un dolce squisito, signori miei! In pratica, grosso modo, è un misto di cioccolata e di sangue di maiale>>
La Contessa Emilia ebbe un conato di vomito, e corse via dalla sala.
Il figlio Arturo, che la adorava, le andò dietro, per assicurarsi che stesse bene.
La Signorina De Toschi, che nel frattempo aveva divorato cinque salsicce a velocità olimpionica, ritenne che forse l'argomento culinario non era il più adeguato, e cercò di virare su un tema che sicuramente avrebbe risollevato la situazione.
<<Lei è credente, signor Ricci?>>
Questa domanda era stata concordata, per cui Ettore rispose meccanicamente:
<<Ma certo!>> e per rendere ancora più credibile la cosa, si fece il segno della croce.
<<Che strano>> intervenne Diana <<io non vi ho mai visto alla messa>>
Preso in contropiede, Ettore cercò di prendere tempo:
<<Ah, quindi anche voi siete una donna tutta casa e chiesa, come la nostra Signorina!>>
Quel paragone non era il massimo, e oltretutto aveva evitato la risposta, per cui Diana, adombrandosi, disse soltanto
<<Ho ricevuto un'educazione religiosa, ma ultimamente la mia fede è stata messa a dura prova>>
La Signorina De Toschi quasi si strozzò. La piadina e il prosciutto le erano andati di traverso, a sentire quell'affermazione:
<<Come sarebbe a dire? Io su questo non transigo! Non tollero che il dubbio si insinui nella fortezza della Fede, specie nelle giovani fanciulle>>
Ettore, sinceramente dispiaciuto di aver provocato quel battibecco, volle mostrarsi coraggioso, come un cavaliere che sfida il mondo intero in difesa della sua dama:
<<La contessina Diana è una santa! Va a messa tutte le domeniche! Cosa volete di più?
Io ci credo in Dio, ai Santi e a tutte quelle balle lì, solo che, se devo essere sincero, mi scoccia alzarmi presto la domenica per andare alla Messa. Lavoro come un negro tutta la settimana, avrò pure il diritto di dormire, almeno un giorno! Oltre tutto la chiesa è stretta, ci sono poche panche. D'inverno fa un freddo cane. E poi come si fa, dopo un po' l'aria diventa pesante, con tutti quei vecchi scoreggioni...>>
Diana fu come colta dalle convulsioni.
Non era epilessia. Era solo che le risate trattenute troppo a lungo, si erano manifestate all'improvviso, come un'eplosione.
E in mezzo a quel tripudio di comicità, Diana osò sperare che l'unica consolazione concessale dal destino, fosse che, nonostante tutto, il suo futuro marito l'avrebbe fatta ridere.