Un'unica argomentazione aveva convinto Diana Orsini a incontrare Ettore Ricci, e cioè quella che non si può rifiutare il corteggiamento di qualcuno che non si è mai nemmeno incontrato di persona.
Era stata l'abile governante Ida Braghiri a ripetere questa frase in continuazione, fino a che Diana, alla fine, aveva dovuto convenire che un rifiuto aprioristico era una indifendibile forma di pregiudizio.
Quando finalmente Diana comunicò al padre la sua disponibilità ad invitare Ettore per un tè, naturalmente alla presenza di tutta la famiglia, il Conte Achille espresse il suo giubilo con un devoto <<Deo gratias>> a cui seguì l'immancabile metafora storico-mitologica: <<Finalmente sono cadute le mura di Gerico>>
Diana si premurò di gettare subito acqua sul fuoco: <<E' solo una breccia, padre, e molto sottile. Non fatevi illusioni>>
Ma il Conte era troppo felice per replicare e, dopo aver ricoperto di lodi e mance la governante Ida Braghiri, la spedì a casa Ricci per concordare l'incontro il prima possibile.
Il vecchio Zuarz suggerì di agire subito: <<Bisogna battere il ferro finché è caldo>>
Sua moglie Clara era meno sicura, rendendosi conto che il suo Ettore non era ancora stato adeguatamente istruito sul galateo da osservare in certi salotti aristocratici.
A dire il vero, nemmeno lei stessa aveva le idee del tutto chiare riguardo a certi dettagli, specialmente l'abbigliamento da tenere, e così, per la paura che l'aspetto di suo figlio risultasse troppo dimesso, finì per strafare.
Ettore Ricci si presentò a Villa Orsini, come convenuto, all'ora del tè.
Indossava un abito scuro gessato a tre pezzi, camicia bianca con gemelli di cristallo, cravatta di seta color platino, come se fosse a un matrimonio, fiore all'occhiello, sempre bianco, fazzoletto a pochette nel taschino, ancora bianco, orologio d'oro a cipolla con catenella legata al panciotto, anello di diaspro al mignolo, tuba erroneamente listata a lutto, scarpe nere laccate, ghette bianche.
In una parola: sembrava Al Capone.
Identico.
Aveva persino un enorme sigaro in bocca, acceso all'ultimo momento, per calmare i nervi.
Oltre tutto la ricercatezza del vestire strideva con il carattere schietto e i modi ruvidi che contraddistinguevano i membri della famiglia Ricci.
Quando la governante, gli aprì la porta, lui subito tirò fuori qualche banconota spiegazzata e gliela infilò in tasca come se fosse una mancia per la cameriera del ristorante o la donnina allegra del bordello.
Appena fu ammesso nel Salotto Liberty, lo squadrò con lo sguardo dell'acquirente che valuta la convenienza del suo investimento.
Avremo modo in seguito di descrivere nei particolari questa sala dove si svolgeranno molti incontri cruciali e si prenderanno gravi decisioni, ma per il momento ci basti sapere che, come suggerisce il nome, era arredato in un delicato stile floreale Art Nuveau, come si usava nella Belle Epoque parigina o nell'età edoardiana londinese.
Gli occhi infuocati del prode Ettore bramavano di possedere ogni cosa all'interno di quella stanza.
Quando il Conte Achille Orsini gli porse la mano bianca, dalle dita affusolate, Ettore Ricci la stritolò in una morsa d'acciaio.
Poi, dimenticando ogni raccomandazione della maestra Clara, gli diede una pacca sulla spalla come se si trattasse di un compagno di bevute all'osteria e disse:
<<Come va, vecchio mio?>>
Senza attendere risposta si avvicinò alla Contessa consorte Emilia e le baciò la mano premendo le labbra un po' troppo a lungo, per poi dichiarare:
<<Cara Contessa, ma lo sa che lei è proprio una bella donna? No, dico sul serio! Non li dimostra mica i suoi cinquant'anni!>>
E infatti la Contessa ne aveva quarantasette, ma non le importava: avrebbe digerito qualunque gaffe pur di far sparire le ipoteche sulla Villa e sul Feudo.
Ettore non attese risposta nemmeno questa volta.
Il suo sguardo si appuntò sull'oggetto del desiderio: Diana Orsini Balducci di Casemurate.
E qui si impappinò:
<<Ahhhh.... Contessina... io... io sono sbalordito... sì, sbalordito dalla vostra evenienza... no come si dice... la vostra... oh Cristo santo... non mi viene la parola...>>
<<Avvenenza?>> suggerì Diana.
<<Sì, quella lì... mi ero preparato un bel discorsetto, ma sapete com'è, l'emozione...>>
Diana cercò di essere gentile e comprensiva:
<<Non si preoccupi, signor Ricci, si accomodi pure>>
Ettore individuò una poltrona che faceva al caso suo e ci si sedette a peso morto, lasciandosi sfuggire un leggerissimo, ma inconfondibile peto.
Seguì un attimo di silenzio assoluto.
Gli Orsini non sapevano cosa dire, cosa fare, dove guardare...
Fortunatamente, a distrarre i presenti dall'imbarazzo, comparve la governante Ida con la teiera.
Ettore Ricci si fece versare una tazza abbondante con latte e tre cucchiaini di zucchero, e poi si avventò sui pasticcini, tenendo comunque acceso il sigaro, e facendo cadere la cenere dappertutto sul fragile tavolinetto proveniente da Parigi.
Con la bocca piena, tornò a rivolgersi a Diana:
<<Stavo dicendo che siete bellissima. Proprio un bel bocconcino, sì sì... del resto, come si suol dire, tale madre, tale figlia, eh? Dico bene?>> e strizzò l'occhio alla Contessa Emilia, che si era versata di nascosto un primo calice di Cabernet-Sauvignon.
Diana osservava Ettore come si farebbe con uno strano animale selvatico mai visto prima sulla faccia della terra, ma continuò a mantenere un contegno impeccabile:
<<Signor Ricci, la vostra gentilezza mi lascia senza parole>>
Lui sorbì il tè in maniera rumorosa e poi, dopo aver schioccato la lingua più volte, ed emesso un profondo sospiro di piacere e appagamento, bofonchiò:
<<Siete senza parole, ma non importa, mia cara, ci sono io che parlo per due, anche per tre! Per esempio, lo sa perché i miei mi hanno chiamato Ettore?>>
<<Perché era uno degli eroi dell'Iliade>>
<<No, noi non siamo parenti con l'Iride, è una Ricci povera che non conta un... insomma, niente... mi hanno chiamato Ettore come il mio povero zio che è morto sparato>>
<<Gli hanno sparato, e perché?>>
<<Ah, cosa vuole, è sempre così, una questione di gnocca... solo che era la gnocca sbagliata e i suoi fratelli lo hanno sparato>>
E addentò un altro pasticcino, sempre tenendo il sigaro acceso.
<<Forse sareste più comodo se appoggiaste il sigaro sul portacenere>>
Lui aggrottò le sopracciglia irsute e osservò il sigaro, a bocca aperta:
<<Oh, non preoccupatevi, mia bella Diana, io so fare numeri di magia come un presti... prestidi... oh, porca vacca! Oggi non mi vengono le parole!>>
Diana non riuscì a trattenersi dal sorridere:
<<Prestigiatore?>>
Lui si illuminò:
<<Proprio quello! Eh, si vede subito che noi due ci intendiamo alla perfezione!>>
Diana in realtà cercava, con tutte le proprie forze, di non scoppiare a ridere.
Non ricordava di aver mai visto niente di più grottesco in vita sua.
<<Perdonatemi se sorrido, signor Ricci, ma la vostra verve è davvero singolare>>
Anche lui incominciò a ridere, con la bocca piena.
<<Ah ah, con me ci si diverte! Sicuro come la merd... ehm, come l'oro, volevo dire.
Ma voi, signor Conte, perché fate quella faccia da funerale, siete pallido come un morto!
E voi, signora Contessa, date da bere un po' di quel vinello a vostro marito! Perché come si dice: "vinassa vinassa e fiaschi de vin"... dico bene?>>
La Contessa Emilia, il cui alcolismo era uno dei tabù più impronunciabili a Villa Orsini, si sentì come quando viene nominata la corda in casa dell'impiccato.
Diana si sentì in dovere di far notare che non si trattava di un vinello qualsiasi:
<<E' un Cabernet-Sauvignon del 1862, un'ottima annata>>
<<Cacchio! Io però preferisco la Cagnina>>
Ci fu un attimo di assoluto silenzio.
Poi Ettore ruttò.
A quel punto Diana perse il controllo e si piegò in due in dal ridere.
Lui si rese conto di aver esagerato, ma il rimedio fu peggiore del male:
<<Oh, pardon! Ma io dico che un vero uomo si deve comportare da uomo!
Io non mi fiderei di quei damerini con la puzza sotto al naso. L'uomo deve avere la puzza sotto le ascelle, come un onesto lavoratore, dico bene?>>
Diana cercò di ricomporsi:
<<E voi che lavoro fate, signor Ricci?>>
Ettore rimase a bocca aperta per un po', tanto che i Conti Orsini temettero che avrebbe eruttato una seconda volta, ma non fu così.
<<Mah, grosso modo... gli affari di famiglia... non ho mica paura di sporcarmi le mani, sa?
Se c'è da ammazzare il porco, io non mi tiro mica indietro. Perché poi, non bisogna mica dar retta a quel che dice la gente. Ho fatto anch'io la mia gavetta, sa... da bambino, quando mio padre non era ancora ricco sfondo, io tutte le mattine andavo a munger le vacche!
A spalare la mer... eh, volevo dire il letame. Perché poi il letame non puzza mica come la pollina... voglio dire, puzza di meno...>>
La governante Ida, in posizione defilata, gli lanciava messaggi inequivocabili, come se si potesse ancora rimediare a quella catastrofe.
Lui cercò di darsi un contegno:
<<Chiedo scusa, a volte mi lascio trasportare dall'entusiasmo. Il fatto è che, di fronte a una bella fi... figliola, io perdo il controllo, porco Giuda! Lo capite anche voi, insomma, è una croce!>>
Diana non era sicura di aver capito:
<<Una?>>
Lui si fece serio e sbottò:
<<Una croce!>> Poi si commosse <<Sì, mia cara Diana, io da quando vi ho vista per la prima volta, sono diventato come un brodo di giuggiole.
Lo capite anche voi... vedete come sono ridotto, porco cane... non mangio più, non dormo più, non trombo più...
Io, io... Contessina, lasciate che vi esprima i miei sentimenti con una canzone... sapete, ho una certa dote di cantante, in osteria me lo riconoscono tutti... io vi faccio la mia dichiarazione con una canzonetta che ho sentito alla radio>> poi si portò la mano al cuore e intonò <<"Tuuuuuuuuu che m'hai preso il coooooooooor">>
E a quel punto partì il secondo rutto.
Diana incominciò a ridere in maniera quasi isterica.
La Contessa Emilia fissava il pavimento.
Il Conte Achille era immobile, una statua di sale.
La governante fece cenno a Ricci, toccandosi l'orologio.
Lui capì:
<<Oh, ma ridendo e scherzando si è fatto tardi>>
Nessuno replicò.
Lui si alzò, si stiracchiò, riprese in mano quel che restava del sigaro, si scrollò le briciole di dosso, fece un mezzo inchino
<<Be', ci vediamo domani alla solita ora! E buonanotte ai suonatori!>>
Con questa frase memorabile lasciò il Salotto Liberty.
Prima di uscire, tirò fuori alcune monete d'argento e le infilò nella tasca della governante, insistendo, con aria da benefattore.