Un'unica argomentazione aveva convinto Diana Orsini a incontrare Ettore Ricci, e cioè quella che non si può rifiutare il corteggiamento di qualcuno che non si è mai nemmeno incontrato di persona.
Era stata l'abile governante Ida Braghiri a ripetere questa frase in continuazione, fino a che Diana, alla fine, aveva dovuto convenire che un rifiuto aprioristico era una indifendibile forma di pregiudizio.
Quando finalmente Diana comunicò al padre la sua disponibilità ad invitare Ettore per un tè, naturalmente alla presenza di tutta la famiglia, il Conte Achille espresse il suo giubilo con un devoto <<Deo gratias>> a cui seguì l'immancabile metafora storico-mitologica: <<Finalmente sono cadute le mura di Gerico>>
Diana si premurò di gettare subito acqua sul fuoco: <<E' solo una breccia, padre, e molto sottile. Non fatevi illusioni>>
Ma il Conte era troppo felice per replicare e, dopo aver ricoperto di lodi e mance la governante Ida Braghiri, la spedì a casa Ricci per concordare l'incontro il prima possibile.
Il vecchio Zuarz suggerì di agire subito: <<Bisogna battere il ferro finché è caldo>>
Sua moglie Clara era meno sicura, rendendosi conto che il suo Ettore non era ancora stato adeguatamente istruito sul galateo da osservare in certi salotti aristocratici.
A dire il vero, nemmeno lei stessa aveva le idee del tutto chiare riguardo a certi dettagli, specialmente l'abbigliamento da tenere, e così, per la paura che l'aspetto di suo figlio risultasse troppo dimesso, finì per strafare.
Ettore Ricci si presentò a Villa Orsini, come convenuto, all'ora del tè.
Indossava un abito scuro gessato a tre pezzi, camicia bianca con gemelli di cristallo, cravatta di seta color platino, come se fosse a un matrimonio, fiore all'occhiello, sempre bianco, fazzoletto a pochette nel taschino, ancora bianco, orologio d'oro a cipolla con catenella legata al panciotto, anello di diaspro al mignolo, tuba erroneamente listata a lutto, scarpe nere laccate, ghette bianche.
In una parola: sembrava Al Capone.
Identico.
Aveva persino un enorme sigaro in bocca, acceso all'ultimo momento, per calmare i nervi.
Oltre tutto la ricercatezza del vestire strideva con il carattere schietto e i modi ruvidi che contraddistinguevano i membri della famiglia Ricci.
Quando la governante, gli aprì la porta, lui subito tirò fuori qualche banconota spiegazzata e gliela infilò in tasca come se fosse una mancia per la cameriera del ristorante o la donnina allegra del bordello.
Appena fu ammesso nel Salotto Liberty, lo squadrò con lo sguardo dell'acquirente che valuta la convenienza del suo investimento.
Avremo modo in seguito di descrivere nei particolari questa sala dove si svolgeranno molti incontri cruciali e si prenderanno gravi decisioni, ma per il momento ci basti sapere che, come suggerisce il nome, era arredato in un delicato stile floreale Art Nuveau, come si usava nella Belle Epoque parigina o nell'età edoardiana londinese.
Gli occhi infuocati del prode Ettore bramavano di possedere ogni cosa all'interno di quella stanza.
Quando il Conte Achille Orsini gli porse la mano bianca, dalle dita affusolate, Ettore Ricci la stritolò in una morsa d'acciaio.
Poi, dimenticando ogni raccomandazione della maestra Clara, gli diede una pacca sulla spalla come se si trattasse di un compagno di bevute all'osteria e disse:
<<Come va, vecchio mio?>>
Senza attendere risposta si avvicinò alla Contessa consorte Emilia e le baciò la mano premendo le labbra un po' troppo a lungo, per poi dichiarare:
<<Cara Contessa, ma lo sa che lei è proprio una bella donna? No, dico sul serio! Non li dimostra mica i suoi cinquant'anni!>>
E infatti la Contessa ne aveva quarantasette, ma non le importava: avrebbe digerito qualunque gaffe pur di far sparire le ipoteche sulla Villa e sul Feudo.
Ettore non attese risposta nemmeno questa volta.
Il suo sguardo si appuntò sull'oggetto del desiderio: Diana Orsini Balducci di Casemurate.
E qui si impappinò:
<<Ahhhh.... Contessina... io... io sono sbalordito... sì, sbalordito dalla vostra evenienza... no come si dice... la vostra... oh Cristo santo... non mi viene la parola...>>
<<Avvenenza?>> suggerì Diana.
<<Sì, quella lì... mi ero preparato un bel discorsetto, ma sapete com'è, l'emozione...>>
Diana cercò di essere gentile e comprensiva:
<<Non si preoccupi, signor Ricci, si accomodi pure>>
Ettore individuò una poltrona che faceva al caso suo e ci si sedette a peso morto, lasciandosi sfuggire un leggerissimo, ma inconfondibile peto.
Seguì un attimo di silenzio assoluto.
Gli Orsini non sapevano cosa dire, cosa fare, dove guardare...
Fortunatamente, a distrarre i presenti dall'imbarazzo, comparve la governante Ida con la teiera.
Ettore Ricci si fece versare una tazza abbondante con latte e tre cucchiaini di zucchero, e poi si avventò sui pasticcini, tenendo comunque acceso il sigaro, e facendo cadere la cenere dappertutto sul fragile tavolinetto proveniente da Parigi.
Con la bocca piena, tornò a rivolgersi a Diana:
<<Stavo dicendo che siete bellissima. Proprio un bel bocconcino, sì sì... del resto, come si suol dire, tale madre, tale figlia, eh? Dico bene?>> e strizzò l'occhio alla Contessa Emilia, che si era versata di nascosto un primo calice di Cabernet-Sauvignon.
Diana osservava Ettore come si farebbe con uno strano animale selvatico mai visto prima sulla faccia della terra, ma continuò a mantenere un contegno impeccabile:
<<Signor Ricci, la vostra gentilezza mi lascia senza parole>>
Lui sorbì il tè in maniera rumorosa e poi, dopo aver schioccato la lingua più volte, ed emesso un profondo sospiro di piacere e appagamento, bofonchiò:
<<Siete senza parole, ma non importa, mia cara, ci sono io che parlo per due, anche per tre! Per esempio, lo sa perché i miei mi hanno chiamato Ettore?>>
<<Perché era uno degli eroi dell'Iliade>>
<<No, noi non siamo parenti con l'Iride, è una Ricci povera che non conta un... insomma, niente... mi hanno chiamato Ettore come il mio povero zio che è morto sparato>>
<<Gli hanno sparato, e perché?>>
<<Ah, cosa vuole, è sempre così, una questione di gnocca... solo che era la gnocca sbagliata e i suoi fratelli lo hanno sparato>>
E addentò un altro pasticcino, sempre tenendo il sigaro acceso.
<<Forse sareste più comodo se appoggiaste il sigaro sul portacenere>>
Lui aggrottò le sopracciglia irsute e osservò il sigaro, a bocca aperta:
<<Oh, non preoccupatevi, mia bella Diana, io so fare numeri di magia come un presti... prestidi... oh, porca vacca! Oggi non mi vengono le parole!>>
Diana non riuscì a trattenersi dal sorridere:
<<Prestigiatore?>>
Lui si illuminò:
<<Proprio quello! Eh, si vede subito che noi due ci intendiamo alla perfezione!>>
Diana in realtà cercava, con tutte le proprie forze, di non scoppiare a ridere.
Non ricordava di aver mai visto niente di più grottesco in vita sua.
<<Perdonatemi se sorrido, signor Ricci, ma la vostra verve è davvero singolare>>
Anche lui incominciò a ridere, con la bocca piena.
<<Ah ah, con me ci si diverte! Sicuro come la merd... ehm, come l'oro, volevo dire.
Ma voi, signor Conte, perché fate quella faccia da funerale, siete pallido come un morto!
E voi, signora Contessa, date da bere un po' di quel vinello a vostro marito! Perché come si dice: "vinassa vinassa e fiaschi de vin"... dico bene?>>
La Contessa Emilia, il cui alcolismo era uno dei tabù più impronunciabili a Villa Orsini, si sentì come quando viene nominata la corda in casa dell'impiccato.
Diana si sentì in dovere di far notare che non si trattava di un vinello qualsiasi:
<<E' un Cabernet-Sauvignon del 1862, un'ottima annata>>
<<Cacchio! Io però preferisco la Cagnina>>
Ci fu un attimo di assoluto silenzio.
Poi Ettore ruttò.
A quel punto Diana perse il controllo e si piegò in due in dal ridere.
Lui si rese conto di aver esagerato, ma il rimedio fu peggiore del male:
<<Oh, pardon! Ma io dico che un vero uomo si deve comportare da uomo!
Io non mi fiderei di quei damerini con la puzza sotto al naso. L'uomo deve avere la puzza sotto le ascelle, come un onesto lavoratore, dico bene?>>
Diana cercò di ricomporsi:
<<E voi che lavoro fate, signor Ricci?>>
Ettore rimase a bocca aperta per un po', tanto che i Conti Orsini temettero che avrebbe eruttato una seconda volta, ma non fu così.
<<Mah, grosso modo... gli affari di famiglia... non ho mica paura di sporcarmi le mani, sa?
Se c'è da ammazzare il porco, io non mi tiro mica indietro. Perché poi, non bisogna mica dar retta a quel che dice la gente. Ho fatto anch'io la mia gavetta, sa... da bambino, quando mio padre non era ancora ricco sfondo, io tutte le mattine andavo a munger le vacche!
A spalare la mer... eh, volevo dire il letame. Perché poi il letame non puzza mica come la pollina... voglio dire, puzza di meno...>>
La governante Ida, in posizione defilata, gli lanciava messaggi inequivocabili, come se si potesse ancora rimediare a quella catastrofe.
Lui cercò di darsi un contegno:
<<Chiedo scusa, a volte mi lascio trasportare dall'entusiasmo. Il fatto è che, di fronte a una bella fi... figliola, io perdo il controllo, porco Giuda! Lo capite anche voi, insomma, è una croce!>>
Diana non era sicura di aver capito:
<<Una?>>
Lui si fece serio e sbottò:
<<Una croce!>> Poi si commosse <<Sì, mia cara Diana, io da quando vi ho vista per la prima volta, sono diventato come un brodo di giuggiole.
Lo capite anche voi... vedete come sono ridotto, porco cane... non mangio più, non dormo più, non trombo più...
Io, io... Contessina, lasciate che vi esprima i miei sentimenti con una canzone... sapete, ho una certa dote di cantante, in osteria me lo riconoscono tutti... io vi faccio la mia dichiarazione con una canzonetta che ho sentito alla radio>> poi si portò la mano al cuore e intonò <<"Tuuuuuuuuu che m'hai preso il coooooooooor">>
E a quel punto partì il secondo rutto.
Diana incominciò a ridere in maniera quasi isterica.
La Contessa Emilia fissava il pavimento.
Il Conte Achille era immobile, una statua di sale.
La governante fece cenno a Ricci, toccandosi l'orologio.
Lui capì:
<<Oh, ma ridendo e scherzando si è fatto tardi>>
Nessuno replicò.
Lui si alzò, si stiracchiò, riprese in mano quel che restava del sigaro, si scrollò le briciole di dosso, fece un mezzo inchino
<<Be', ci vediamo domani alla solita ora! E buonanotte ai suonatori!>>
Con questa frase memorabile lasciò il Salotto Liberty.
Prima di uscire, tirò fuori alcune monete d'argento e le infilò nella tasca della governante, insistendo, con aria da benefattore.
Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
domenica 28 luglio 2019
venerdì 26 luglio 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 7. Il Reduce e il Profeta delle Acque
Conclusa la guerra d'Abissinia, il milite Romano Monterovere si imbarcò per far ritorno in Italia, ma una parte del suo cuore rimase là, nel Corno d'Africa.
Già nel viaggio di ritorno, incominciò in lui quel processo, lento ma inesorabile, di incupimento e distacco dalle contingenze che lo circondavano.
Paradossalmente, in guerra, la paura di morire, lo aveva fatto sentire vivo.
Quando questa paura era venuta meno, allo stesso modo la sua vitalità aveva perso slancio-
Il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
Si era portato dietro alcuni souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, da donare a sua madre e a sua sorella, statuette che i critici d'arte avrebbero definito "primitiviste", un piccolo sacchetto con la sabbia del deserto, che molto tempo dopo sarebbe arrivato nelle mani di un suo discendente, l'unico tra i suoi nipoti in grado di attribuire valore a un simile oggetto. E infine la fotografia della ragazza somala di Alula con cui aveva avuto una storia.
Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di ritornare da lei in quel villaggio sull'Oceano, in quell'oasi paradisiaca, lasciandosi tutto il resto alle spalle.
Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma il coraggio era una dote che Romano Monterovere non aveva mai posseduto.
La sua avversione al rischio divenne proverbiale e la trasmise allo stesso nipote a cui aveva lasciato la sabbia del deserto.
Seppellì dunque parte del suo cuore nell'arida terra africana e tornò nell'umida, nebbiosa e afosa Bassa Padana, dalla sua famiglia.
Arrivò a casa dei suoi, in quel luogo dal nome ridicolo che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare da caporal maggiore, ma con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
Nelle sue iridi azzurre c'erano ancora i riflessi dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, remota, indifferente, che molti scambiarono poi per freddezza.
Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Nel 1937 l'Azienda dei suoi fratelli era in pieno sviluppo, anche grazie all'entusiasmo suscitato dalla bonifica delle Paludi Pontine, che aveva favorito gli investitori a convogliare risorse nel settore e a potenziare i consorzi provinciali secondo le nuove norme approvate nel '33.
Non appena i fratelli Monterovere avevano incominciato a percepire anche solo lontanamente l'odore dei soldi, le cose erano cambiate.
Il reduce Romano si sentì quasi uno straniero in patria, nel vedere come si era trasformata la sua famiglia.
Il patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e, con la sua quota di ricavi aveva finalmente iniziato a condurre la sua vita ideale: colazione alla Caffetteria locale, con tanto di lettura dei giornali, e di segnali in codice con i suoi amici antifascisti da bar; passeggiata lungo il viale del centro, pranzo in trattoria ampiamente innaffiato da vini novelli la cui scarsa qualità suscitava sempre la sua aperta disapprovazione; un altro caffè, seguito dall'ammazzacaffè, provocante una botta di sonno che costringeva i camerieri a gettarlo fuori a viva forza, non senza le sue indignate proteste; una siesta nelle panchine del parchetto della bocciofila, dove poi trascorreva gran parte del pomeriggio con i suoi compagni di merende. Verso sera, anticipando di quasi un secolo le mode, si concedeva vari aperitivi, passando da una bettola all'altra, fino ad arrivare, col naso rosso e gli occhi spiritati, al focolare domestico, dove lo attendeva una lauta cena preparata dalla devota consorte Eleonora. Si sedeva a capotavola e, tra un boccone l'altro, rimbeccava i figli, ricordando loro ignoti sacrifici fatti per "tirarli su", e spronandoli a lavorare più duramente, concludendo il discorso con la frase di rito: "Ah, se non ci fossi io a mandare avanti la baracca, non so mica come andrebbe a finire".
I figli lo lasciavano dire, perché in fondo lo vedevano solo a cena e per il resto era come se non esistesse, per quanto il suo ritratto fotografico, cupo e minaccioso, li fissasse con sdegno e muto rimprovero dai muri del salotto.
In realtà i giovani Monterovere se la cavavano benissimo da soli.
Ferdinando, uomo massiccio e gioviale, era il direttore e il principale investitore.
Era sempre in prima fila nei cantieri e il suo entusiasmo per la creazione di cave, canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al vorace appetito con cui divorava i pasti a velocità impressionante.
Umberto, magro, timido e tisico, teneva la contabilità e si occupava delle questioni legali.
Edoardo, il più giovane, faceva da commesso, ma aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito".
Alla fine, intravedendo per lui un futuro politico, i fratelli lo destinarono alle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
Manco a dirlo quel ruolo noioso e monotono toccò al reduce Romano, il quale lo accettò con noncuranza, limitandosi a commentare che, dopo aver combattuto in Africa, e aver visto quello che aveva visto, un posto di lavoro valeva l'altro.
Quando arrivarono le prime commissioni importanti, non era più possibile limitarsi a chiamare il geometra, che peraltro sembrava saperne meno di loro.
Fu deciso di accogliere come socio e direttore progettuale, un ingegnere di Faenza, Francesco Lanni, un dotto visionario che sognava di rendere navigabili i torrentelli perennemente in secca,della Bassa Romagnola.
Tra lui e Ferdinando Monterovere ci fu un'intesa immediata.
Entrambi entusiasti, presentarono i loro progetti al resto della famiglia dopo un pranzo luculliano.
Sfidando lo scetticismo aprioristico del vecchio Enrico e la prudenza ostinata di Umberto e Romano, Francesco Lanni, alto e signorile, espose i suoi ambiziosi propositi, mostrando progetti di idrovore, ampi canali che passavano sotto o sopra i fiumi a seconda delle esigenze di navigabilità, collegamenti tra tale rete idrica e un insieme di laghi artificiali e porti sontuosi nel basso ravennate.
E se qualcuno osava chiedere se tali tecnologie fossero concretamente realizzabili, l'ingegner Lanni lanciava un'occhiataccia e con severo cipiglio rispondeva con assoluta sicurezza:
<<Lo saranno presto>>
Questa risposta ricorrente gli valse il soprannome di Profeta delle Acque.
Alla fine del discorso, l'ingegnere si trovò di fronte al silenzio sbigottito e scettico della maggior parte dei Monterovere.
A rompere il ghiaccio fu la matriarca Eleonora, che si premurò di chiedere come stava la signora Lanni.
La moglie dell'ingegnere era afflitta da terribili emicranie, oltre ad una serie di problemi cardiovascolari che la costringevano a stare quasi sempre in casa, a letto e al buio.
In mancanza della signora Elisa, l'ingegnere era sempre accompagnato dalla figlia Giulia, una ragazza molto timida, riservata, dai capelli neri raccolti a chignon, occhi scuri sognanti, un sorriso gentile, vagamente malinconico.
Si diceva che amasse la lettura, specie di romanzi d'amore.
Aveva una reputazione irreprensibile. Il suo unico vizio era il fumo.
Mentre i Monterovere e l'ingegner Lanni discutevano di progetti e affari, i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.
Già nel viaggio di ritorno, incominciò in lui quel processo, lento ma inesorabile, di incupimento e distacco dalle contingenze che lo circondavano.
Paradossalmente, in guerra, la paura di morire, lo aveva fatto sentire vivo.
Quando questa paura era venuta meno, allo stesso modo la sua vitalità aveva perso slancio-
Il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
Si era portato dietro alcuni souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, da donare a sua madre e a sua sorella, statuette che i critici d'arte avrebbero definito "primitiviste", un piccolo sacchetto con la sabbia del deserto, che molto tempo dopo sarebbe arrivato nelle mani di un suo discendente, l'unico tra i suoi nipoti in grado di attribuire valore a un simile oggetto. E infine la fotografia della ragazza somala di Alula con cui aveva avuto una storia.
Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di ritornare da lei in quel villaggio sull'Oceano, in quell'oasi paradisiaca, lasciandosi tutto il resto alle spalle.
Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma il coraggio era una dote che Romano Monterovere non aveva mai posseduto.
La sua avversione al rischio divenne proverbiale e la trasmise allo stesso nipote a cui aveva lasciato la sabbia del deserto.
Seppellì dunque parte del suo cuore nell'arida terra africana e tornò nell'umida, nebbiosa e afosa Bassa Padana, dalla sua famiglia.
Arrivò a casa dei suoi, in quel luogo dal nome ridicolo che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare da caporal maggiore, ma con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
Nelle sue iridi azzurre c'erano ancora i riflessi dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, remota, indifferente, che molti scambiarono poi per freddezza.
Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Nel 1937 l'Azienda dei suoi fratelli era in pieno sviluppo, anche grazie all'entusiasmo suscitato dalla bonifica delle Paludi Pontine, che aveva favorito gli investitori a convogliare risorse nel settore e a potenziare i consorzi provinciali secondo le nuove norme approvate nel '33.
Non appena i fratelli Monterovere avevano incominciato a percepire anche solo lontanamente l'odore dei soldi, le cose erano cambiate.
Il reduce Romano si sentì quasi uno straniero in patria, nel vedere come si era trasformata la sua famiglia.
Il patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e, con la sua quota di ricavi aveva finalmente iniziato a condurre la sua vita ideale: colazione alla Caffetteria locale, con tanto di lettura dei giornali, e di segnali in codice con i suoi amici antifascisti da bar; passeggiata lungo il viale del centro, pranzo in trattoria ampiamente innaffiato da vini novelli la cui scarsa qualità suscitava sempre la sua aperta disapprovazione; un altro caffè, seguito dall'ammazzacaffè, provocante una botta di sonno che costringeva i camerieri a gettarlo fuori a viva forza, non senza le sue indignate proteste; una siesta nelle panchine del parchetto della bocciofila, dove poi trascorreva gran parte del pomeriggio con i suoi compagni di merende. Verso sera, anticipando di quasi un secolo le mode, si concedeva vari aperitivi, passando da una bettola all'altra, fino ad arrivare, col naso rosso e gli occhi spiritati, al focolare domestico, dove lo attendeva una lauta cena preparata dalla devota consorte Eleonora. Si sedeva a capotavola e, tra un boccone l'altro, rimbeccava i figli, ricordando loro ignoti sacrifici fatti per "tirarli su", e spronandoli a lavorare più duramente, concludendo il discorso con la frase di rito: "Ah, se non ci fossi io a mandare avanti la baracca, non so mica come andrebbe a finire".
I figli lo lasciavano dire, perché in fondo lo vedevano solo a cena e per il resto era come se non esistesse, per quanto il suo ritratto fotografico, cupo e minaccioso, li fissasse con sdegno e muto rimprovero dai muri del salotto.
In realtà i giovani Monterovere se la cavavano benissimo da soli.
Ferdinando, uomo massiccio e gioviale, era il direttore e il principale investitore.
Era sempre in prima fila nei cantieri e il suo entusiasmo per la creazione di cave, canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al vorace appetito con cui divorava i pasti a velocità impressionante.
Umberto, magro, timido e tisico, teneva la contabilità e si occupava delle questioni legali.
Edoardo, il più giovane, faceva da commesso, ma aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito".
Alla fine, intravedendo per lui un futuro politico, i fratelli lo destinarono alle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
Manco a dirlo quel ruolo noioso e monotono toccò al reduce Romano, il quale lo accettò con noncuranza, limitandosi a commentare che, dopo aver combattuto in Africa, e aver visto quello che aveva visto, un posto di lavoro valeva l'altro.
Quando arrivarono le prime commissioni importanti, non era più possibile limitarsi a chiamare il geometra, che peraltro sembrava saperne meno di loro.
Fu deciso di accogliere come socio e direttore progettuale, un ingegnere di Faenza, Francesco Lanni, un dotto visionario che sognava di rendere navigabili i torrentelli perennemente in secca,della Bassa Romagnola.
Tra lui e Ferdinando Monterovere ci fu un'intesa immediata.
Entrambi entusiasti, presentarono i loro progetti al resto della famiglia dopo un pranzo luculliano.
Sfidando lo scetticismo aprioristico del vecchio Enrico e la prudenza ostinata di Umberto e Romano, Francesco Lanni, alto e signorile, espose i suoi ambiziosi propositi, mostrando progetti di idrovore, ampi canali che passavano sotto o sopra i fiumi a seconda delle esigenze di navigabilità, collegamenti tra tale rete idrica e un insieme di laghi artificiali e porti sontuosi nel basso ravennate.
E se qualcuno osava chiedere se tali tecnologie fossero concretamente realizzabili, l'ingegner Lanni lanciava un'occhiataccia e con severo cipiglio rispondeva con assoluta sicurezza:
<<Lo saranno presto>>
Questa risposta ricorrente gli valse il soprannome di Profeta delle Acque.
Alla fine del discorso, l'ingegnere si trovò di fronte al silenzio sbigottito e scettico della maggior parte dei Monterovere.
A rompere il ghiaccio fu la matriarca Eleonora, che si premurò di chiedere come stava la signora Lanni.
La moglie dell'ingegnere era afflitta da terribili emicranie, oltre ad una serie di problemi cardiovascolari che la costringevano a stare quasi sempre in casa, a letto e al buio.
In mancanza della signora Elisa, l'ingegnere era sempre accompagnato dalla figlia Giulia, una ragazza molto timida, riservata, dai capelli neri raccolti a chignon, occhi scuri sognanti, un sorriso gentile, vagamente malinconico.
Si diceva che amasse la lettura, specie di romanzi d'amore.
Aveva una reputazione irreprensibile. Il suo unico vizio era il fumo.
Mentre i Monterovere e l'ingegner Lanni discutevano di progetti e affari, i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.
domenica 21 luglio 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 6. Come nasce una dinastia
Il conte Achille Orsini di Casmurate era un grande intenditore di araldica e di storia delle dinastie o in generale delle più importanti famiglie aristocratiche.
Pur appartenendo a un ramo minore e decaduto della grande stirpe degli Orsini, continuava a cullarsi nel sogno di ridare vigore alla sua famiglia attraverso l'innesto di nuova linfa (e nuovo denaro), da parte di un'altra famiglia in ascesa.
Egli era convinto che per fare una dinastia ci volesse il concorso più famiglie, alleate tra loro per mezzo di vincoli saldi, primo tra tutti quello del matrimonio.
Erano matrimoni combinati, il che non escludeva che i coniugi potessero imparare a volersi bene, come era accaduto a lui stesso e a sua moglie Emilia, o addirittura, sebbene fosse un evento più raro e a volte persino pericoloso, innamorarsi l'uno dell'altra, come Filippo I e Giovanna di Castiglia.
In caso contrario, rimanevano comunque legati da forti interessi comuni, sia riguardo ai figli che riguardo al patrimonio. A pensarci bene, tra matrimonio e patrimonio, c'è solo la lettera iniziale di differenza.
<<Il romanticismo>> come diceva Wallis Simpson <<è tutta un'altra questione>>, e infatti nella letteratura cortese e cavalleresca gli amanti non sono mai sposati tra loro e spesso commettono adulterio, pagandone tragicamente le conseguenze.
Soltanto a partire da Jane Austen e dalle sorelle Bronte si incominciò a mettere in discussione il matrimonio combinato e a condannarlo come usanza barbara.
Diana Orsini aveva letto quei romanzi, prendendoli in prestito dalla biblioteca del Liceo, perché di certo non li avrebbe trovati in quella di suo padre.
Quando il conte Achille se n'era accorto, le aveva inflitto una lunga e severa ramanzina:
<<Questi sciocchi romanzi adolescenziali ci vorrebbero far credere che oggi ci si sposi per amore, ma a costo di apparire cinico, ritengo che tali amori esistano soltanto nei romanzi.
La realtà è ancora e sarà sempre la stessa, basti pensare all'orda di bellimbusti cacciatori di dote che ingannano le ragazzine ingenue come te. Ed è inutile che assumi quell'aria da donna vissuta: tu non sai niente del mondo. Non sai che la maggior parte delle donne è ossessionata dall'idea di sposare un uomo benestante, per poter condurre una vita decorosa. Ed è sbagliato che tu le consideri alle stregua di sgualdrine, dal momento che molte di loro diventano ottime madri di famiglia e danno lustro sia al casato di provenienza che a quello a cui appartengono per matrimonio.
E questo è tanto più vero per le donne aristocratiche, specie quelle che hanno salvato la loro stirpe dalla rovina e l'hanno elevata al rango di una dinastia. Potrei citare infiniti esempi di alleanza tra una famiglia nobile e una ricca che hanno dato vita a un clan potente.
A volte erano entrambe famiglie nobili, ma appartenevano a schieramenti politici diversi, pensiamo per esempio alla dinastia Giulio-Claudia: i Cesari erano patrizi divenuti "populares", un termine che al giorno d'oggi potrebbe essere tradotto con "populista", mentre i Claudii erano "optimates", cioè rappresentanti dell'elite senatoriale e dell'oligarchia latifondista.
La loro alleanza, tramite il matrimonio di Augusto e Livia, consolidò la nascita dell'istituzione imperiale. Ma poi fu commesso un errore: i matrimoni tra consanguinei, che portarono alla pazzia o alla demenza gli ultimi esponenti di quella "gens", estintasi nel sangue e nel disonore.
Simile fu l'ascesa e il declino degli Asburgo, dinastia austriaca, come ci ricorda il motto: "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" (Che gli altri combattano le guerre: tu, felice Austria, sposati!).
La dinastia si affermò come potenza imperiale e mondiale tramite alcuni matrimoni passati alla storia: quello tra Massimiliano, all'epoca arciduca d'Austria, e Maria di Borgogna, la ricchissima erede delle Fiandre, e dopo l'ascesa di Massimiliano al trono imperiale e la prematura morte di Maria, le nozze tra il loro erede Filippo e l'infanta Giovanna di Castiglia e Aragona. La precoce morte del primo e la conseguente grave crisi depressiva della seconda, non impedì loro, nei brevi anni del loro intenso matrimonio, di concepire sei figli, due maschi e tre femmine, che regnarono su tutta l'Europa e il mondo intero: basti pensare al primogenito, Carlo V, nel cui impero il sole non tramontava, e Ferdinando I, suo successore al trono imperiale, che annesse, tramite le nozze con Anna di Boemia e di Ungheria, le due corone che, insieme a quella austriaca, crearono il nerbo del colosso asburgico.
Tutto questo per dire che, se anche l'idea del matrimonio combinato ti indigna, figlia mia, devi comunque ammettere che ha dei precedenti troppo illustri per poter essere ignorata da una fanciulla aristocratica in età da marito e in questo io sono pienamente d'accordo con la tua futura suocera, la gentile e colta maestra Clara Ricci, che gode della stima di tutti gli abitanti della nostra Contea>>
<<Tutti tranne una>> concludeva testardamente la contessina Diana, riferendosi ovviamente a se stessa <<Dietro a quell'aspetto bonario c'è tutta la freddezza calcolatrice di un vecchio avvocato>>
Poteva anche essere vero, ma questo, agli occhi del conte Achille, non cambiava le cose di una virgola.
Se c'era una persona adatta a condurre a buon fine l'alleanza matrimoniale tra i Ricci e gli Orsini, quella era la maestra Clara.
La trattativa era delicata e richiedeva la massima diplomazia e attenzione ai dettagli.
Per questo il vecchio Giorgio Ricci, astuto come una volpe, preferì che fosse sua moglie a condurre le danze.
A lui era sufficiente tener ben stretti i cordoni della borsa.
Vale la pena soffermarsi un momento sul modo in cui il vecchio Ricci era riuscito a portare la sua famiglia all'agiatezza.
Ultimo di un imprecisato numero di fratelli, "Zuarz" era cresciuto quasi come un animale selvatico.
Già il suo aspetto fisico era piuttosto belluino.
Basso, tarchiato, irsuto come un cinghiale, aveva occhi infuocati e penetranti, capelli ispidi come setole, una perenne barba di tre giorni, da carcerato, e un'aria cupa e vagamente minacciosa.
Fuggito di casa all'età di tredici anni, aveva lavorato come "garzone" in varie tenute di campagna, senza dare confidenza a nessuno.
A differenza degli altri della sua età, non spendeva tutto il suo magro salario in osterie e bordelli: i suoi appetiti erano ben altri.
L'essere nato per ultimo, l'essere basso e brutto, così come l'essersi sentito sempre da ragazzo, in famiglia e in paese, l'ultima ruota del carro, o, come diceva coloritamente suo padre Primo, in dialetto romagnolo, "l'utma scureza ad Biribesc , avevano procurato in lui una reazione ben precisa, e cioè quella di ribaltare il suo destino diventando il primo, sempre, ovunque, in ogni modo, anche a costo di dover barare e aggirare la legge pur di ottenere tutto quello, e non era poco, che egli desiderava dalla vita.
Bisognava correre qualche rischio, imparare a bluffare, specie nelle trattative di compravendita, dove riusciva sempre a ottenere il prezzo che voleva, anche a costo di negoziare in eterno.
Era come un grosso gatto sornione che giocava col topo prendendolo per sfinimento.
Poteva stare giorni interi a contrattare il prezzo della vendita di un pollo.
I padroni se ne accorgevano e gli affidavano sempre più spesso l'incarico di comprare e vendere sementi, bestiame, raccolti, prodotti caseari e artigianali, non faceva differenza: lui riusciva sempre a ottenere un prezzo conveniente.
In cambio di queste mediazioni, Giorgio Ricci si faceva pagare una percentuale.
Alla fine riuscì a raggranellare un certo gruzzolo che gli permise di comprare una piccola casa colonica con un pezzo di terra attorno, che gli serviva come pretesto per fingere di fronte al mondo intero di essere soltanto un piccolo coltivatore diretto.
In realtà la sua professione era quella di sensale, o come diremmo oggi, di mediatore.
Non appena ebbe raggranellato un altro gruzzolo, inizio a praticare la vera attività a cui aveva sempre aspirato, e cioè quella di prestatore di denaro.
Come tutti coloro che entrano in questo genere di affari, anche Giorgio Ricci cercò subito di
ingraziarsi le autorità locali, mostrandosi sempre generoso e collaborativo.
Si mostrò incredibilmente magnanimo anche nei confronti dei familiari che prima lo avevano snobbato e che invece si videro concedere un trattamento di favore e persino validi consigli su come far fruttare il denaro.
Non si rendevano conto che lui li stava preparando a diventare i suoi prestanome nelle questioni meno limpide.
A quel punto si concesse il trasferimento in un'abitazione più rispettabile, ma ancora mancava un elemento per sancire il suo successo.
Per lui, che aveva fatto a malapena la terza elementare, l'ascesa sociale si ebbe anche nello sposare una donna istruita e di famiglia borghese.
Dopo attente valutazioni, trovò la persona che faceva per lui.
Clara Vallicelli era all'epoca una giovane maestra elementare e poteva persino vantare un'amicizia con la signorina Mariuccia De Toschi, figlia di Violetta Orsini, una cugina del conte Achille, e di un alto ufficiale di Pistoia.
Si erano conosciute al collegio del Sacro Cuore.
La signorina De Toschi aveva poi continuato a studiare all'università, lettere classiche, a Bologna, ma era rimasta in rapporti estremamente amichevoli con Clara, un elemento che ebbe conseguenze decisive su molte decisioni future del clan Ricci-Orsini.
Siccome la famiglia Vallicelli vedeva in Giorgio Ricci un astro nascente, e considerava la maestrina Clara come una vergine a rischio di zitellaggio, aveva accettato senza esitazioni la proposta di matrimonio di "Zuarz".
Alla fine si trattò di un matrimonio fortunato, nel senso che Giorgio Ricci ottenne quello che aveva sempre voluto, e cioè, anche grazie all'interessamento della signorina De Toschi in persona, di essere ammesso alla corte degli Orsini, e la maestra Clara ottenne finanziamenti per pubblicare numerosi saggi storici, tra cui le già citate "Cronache casemuratensi", che la resero una vera e propria autorità sulle vicende della Romagna centrale nel Medioevo.
Rimaneva un ultimo, decisivo passo da compiere, per poter guardare negli occhi il Conte Achille da pari a pari.
"Zuarz" divenne il finanziatore di tutte le stravaganti iniziative del nobile Orsini in costosissime e disastrose attività di editoria dilettantistica, sperimentazioni architettoniche e di giardinaggio, operazioni di Borsa, attività ricreative e alti pozzi senza fondo.
Nel giro di pochi anni, la famiglia Ricci era riuscita a conquistare, per ipoteca, il feudo Orsini dal suo interno, fino ad arrivare a nominare come fattore e amministratore agricolo un proprio uomo, Michele Braghiri, e persino a imporre sua moglie Ida come nuova governante della Villa.
A quel punto il contadino arricchito e il nobiluomo decaduto si resero conto che una fusione delle loro famiglie avrebbe potuto non solo risolvere molti problemi, ma dar vita ad un interessante esperimento di riconquista e di espansione della Contea di Casemurate.
giovedì 11 luglio 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 5. Dalle Alpi all'Oceano Indiano
Nei racconti a sfondo epico che Romano Monterovere, nei rari momenti in cui era in vena di confidenze, elargiva ad amici e parenti riguardo alla sua gloriosa partecipazione alla Guerra d'Abissinia, destinata ad estendere l'Impero d'Italia "dalle Alpi all'Oceano Indiano", c'erano, ad essere sinceri, molte lacune e ancor più contraddizioni, tanto che non risultò affatto facile cercare di farsi anche solo una vaga idea di quel che fosse realmente accaduto.
Secondo la maggior parte delle versioni, Romano Monterovere giunse al porto di Asmara, in Eritrea, nel novembre del 1935, dopo un lungo viaggio per mare su una nave del Regio Esercito di cui non è dato sapere il nome.
Tra il mal di mare e la calura equatoriale opprimente, l'approdo sul suolo eritreo non fu dei più esaltanti.
Faceva talmente caldo che, la sera stessa dello sbarco, decise di farsi un bel bagno nelle acque del Mar Rosso, dove rischiò di essere divorato dagli squali, o, come diceva lui, dai "pescecani".
Evitò per un pelo tale sorte grazie agli avvertimenti di un gruppo di eritrei che si erano messi ad urlare e ad indicare una direzione dove in primo momento Romano non vide nulla, ma ad un secondo sguardo distinse alcune pericolose e inconfondibili pinne verticali.
Fattosi in questo modo la nomea di "sprovveduto", fu assegnato alle retrovie con funzione di guidatore di camion per vettovaglie e viveri.
La collocazione era quasi esente da rischi, ma c'era un piccolo dettaglio che poteva renderla pericolosa, soprattutto per gli altri: il guidatore non aveva la patente.
Cercò di farlo presente ai superiori, ma nessuno sembrava avere tempo per "simili inezie".
Al terzo etiope investito, l'ufficiale di riferimento, nel tentativo di insabbiare nel deserto dell'Abissinia, insieme ai cadaveri, anche lo scandalo, lo spedì in "licenza premio" ad Alula, nella punta estrema della Somalia, dove il Golfo di Aden confondeva le sue acque nell'Oceano Indiano.
Lì avrebbe dovuto, in segreto, imparato a guidare i camion, se ne avesse trovato qualcuno.
L'impatto iniziale fu traumatico: Alula era un piccolo villaggio di casupole tra il deserto e il mare, con un porticciolo naturale mezzo insabbiato, una piccola comunità di pescatori, una moschea, e una minuscola base italiana con altri reietti spediti lì a riflettere sui loro errori.
Eppure, sorprendentemente, quelli furono i giorni più belli della sua vita, e ne avrebbe portato con sé il ricordo come di una sorta di esperienza mistica e nello stesso tempo voluttuosa.
<<Non avete idea della meraviglia del colore dell'Oceano nei pressi del Golfo di Aden>> raccontava con aria rapita, e i suoi occhi azzurri sembravano riempirsi del colore stesso dell'Oceanp, e le loro iridi pulsavano di una vitalità da lungo tempo perduta, che emergeva soltanto nella rimembranza di quel remoto passato.
<<C'era anche un'oasi, dietro al villaggio. Era un piccolo paradiso, lontano dai mali del mondo e della guerra>>
Probabilmente i suoi occhi ricordavano anche il viso di una fanciulla con cui doveva aver avuto un'avventura. Non ne parlava mai, ma c'erano alcune fotografie, da lui nascoste in un bauletto insieme ad altri souvenir, e ritrovate soltanto dopo la sua morte, quando non poteva più rispondere a domande che, per un uomo riservato come lui, sarebbero state insopportabilmente imbarazzanti.
Quando infine riuscì a ottenere la patente di guida, mezza Etiopia era già stata conquistata.
Ma le imprese del milite Monterovere erano appena iniziate.
Abbandonata la calura delle zone costiere, fu mandato negli altipiani delle aree interne.
La sua prima prodezza fu quella di portare vettovaglie e munizioni alla 24esima divisione fanteria "Gran Sasso", di stanza ad Adua sotto il comando del generale Adalberto di Savoia-Genova, unanimemente considerato da tutti, a partire dai soldati semplici per arrivare al Re in persona, un "emerito idiota".
A questo punto della narrazione, con un sorriso complice agli ascoltatori, Romano Monterovere si toccava il lobo dell'orecchio destro, per indicare che il generale Savoia-Genova aveva anche fama di essere omosessuale. Seguivano alcune storielle piccanti sull'argomento.
All'epoca il linguaggio politicamente corretto era non solo molto distante nel tempo a venire, ma addirittura inimmaginabile, specie in chi era vissuto, anche in maniera critica, nell'Italia fascista.
Tornando serio, Romano descriveva poi la totale disorganizzazione dell'esercito, aggiungendo con il suo consueto e caustico pessimismo, che ogni tentativo di rendere efficiente qualunque elemento dell'apparato statale italiano era non solo impossibile, ma totalmente inutile, come ben presto lo stesso Duce avrebbe avuto modo di sperimentare a spese sue e di tutto il popolo italiano.
Già in Abissinia le cose si stavano mettendo male e il Comandante Superiore De Bono fu sostituito dal Maresciallo Badoglio, l'uomo dei momenti disperati, grande amico del Re, il quale non voleva farsi sfuggire a nessun costo la corona imperiale del Negus.
Quando la divisione "Gran Sasso" prese parte, insieme a tutto il II corpo d'armata, alla Battaglia dello Sciré, Romano Monterovere venne nuovamente destinato alla retroguardia, questa volta con risultati più apprezzabili.
<<Non dimentichiamo>> era solito far notare Romano nelle sue memorie di guerra <<che la retroguardia è costituita da truppe esperte, in grado di mantenere una forte coesione e un ottimo morale, per evitare una rotta drammatica>>
Fortunatamente per lui, quello fu uno dei rari casi in cui non si presentò tale evenienza.
Il 29 febbraio 1936 l'intero II Corpo d'Armata marciava su Axum, il IV Corpo si muoveva come programmato per attaccare il fianco sinistro dello schieramento etiope.
Il 2 marzo, l'avanzata del II Corpo riprese ma venne bloccata dalla retroguardia del ras Immirù: fu un attacco inaspettato, ma breve in quanto la mattina dopo, quando l'artiglieria e l'aeronautica italiane erano pronte per agire, gli Etiopi avevano già abbandonato il campo di battaglia, coprendo la ritirata strategica delle truppe del Negus.
Di tutto questo Romano Monterovere non vide praticamente nulla.
Ma il suo "onore" di guerriero trovò un riscatto poco dopo, quando il suo camion fu incaricato di portare munizioni presso "i guadi del fiume Telcazzè" (e guai se qualcuno osava ridacchiare per quel nome singolarmente esotico).
Il 3 e 4 marzo 1936, mentre la II Armata si stava faticosamente aprendo la strada per Selaclacà, seguita dalla retroguardia e dal milite Monterovere, le truppe di Ras Immirù giunsero improvvisamente sulle rive del fiume, dove però questa volta gli Italiani, stranamente, non si fecero prendere alla sprovvista.
Le truppe dei guerrieri etiopi trovarono ad attenderle 126 cacciabombardieri che in due giorni sganciano senza sosta e senza pietà 636 quintali di esplosivo, bombe incendiarie ed iprite, oltre a 25.000 proiettili di mitragliatrice.
Questa fu la vendetta di Badoglio, ma un giorno l'Italia avrebbe pagato caro il prezzo del sangue di un paese che difendeva la propria indipendenza.
La distruzione dell'armata del Ras Immirù, seguita da quella delle armate dei Ras Mulughietà e Cassa, permise a Badoglio di concentrare la propria attenzione sull'avanzata verso la capitale. Con l'eccezione delle poche guardie al diretto comando del negus Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia, non vi erano altre forze etiopi che si opponessero agli italiani nell'area.
Romano Monterovere, per quanto fosse decisamente, seppur segretamente, antifascista, provò comunque un senso di ebbrezza nel momento in cui, il 5 maggio 1936, il suo camion entrò ad Addis Abeba, mentre dagli altoparlanti le radio proclamavano la nascita dell'Impero.
Era il secondo impero romano, ma come succede a molti "sequel" non fu all'altezza delle aspettative.
Certo, i piani di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, il re Imperatore, erano ambiziosi, mirando all'egemonia del Mediterraneo centro-orientale e al collegamento via terra della colonia libica con quella etiopica. Un sogno destinato a diventare un incubo.
Ma in quei giorni di maggio del 1936 si respirava un'aria di potenza che contagiava anche i più mansueti, e questa ebbrezza. nel caso di Romano Monterovere, era probabilmente corroborata dalla presa d'atto che, a guerra finita, lui era ancora vivo, senza un graffio e pieno di ricordi che gli sarebbero bastati per sentirsi, durante tutto il resto della sua lunga vita, un uomo di mondo, come avrebbe detto Totò facendo valere i suoi anni di servizio militare a Cuneo.
Quando Romano fece ritorno a casa, i suoi familiari si accorsero che era cambiato: c'era qualcosa di diverso in lui, ma come sempre non riuscivano a scoprire esattamente cosa.
Lui conservò il segreto per tutta la vita, ed ogni volta che la sua mente tornava all'oasi di Alula, nei suoi occhi brillava il colore dell'Oceano e la mancanza, struggente, di un paradiso perduto per sempre.
lunedì 1 luglio 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 4. Noblesse oblige
Nel 1936, all'età di 21 anni, la contessina Diana Orsini
Balducci di Casemurate non era ancora ufficialmente fidanzata.
E questo era strano, perché oltre che nobile era anche bella: aveva grandi occhi neri e penetranti, che conferivano notevole intensità e fascino al suo sguardo, così come il profilo leggermente e aristocraticamente aquilino e i lunghi capelli neri pettinati come quelli di Vivien Leigh in Via col vento, che risaltavano maggiormente sulla pelle chiara.
Abbastanza alta, magra, aveva un portamento aggraziato, armonioso, che ben si addiceva ai modi gentili e un garbati e ad una personalità che presentava numerosi pregi, come il buon gusto, la capacità di conversare in maniera interessante, seppur con una certa riservatezza che permetteva soltanto in un secondo momento di conoscere anche l'intelligenza e la tenacia che caratterizzavano la sua personalità.
Non mancavano tuttavia i difetti come l'ironia un po' troppo corrosiva, la permalosità, la tendenza a non perdonare facilmente un torto subito, e i cambiamenti di umore troppo repentini, specie quando le emozioni oscillavano tra una malinconia esistenziale e una rabbia contro tutte le ingiustizie del mondo e della vita.
Erano questi i sintomi di una tara ereditaria dei Conti di Casemurate, una patologia che oggi potremmo definire disturbo bipolare, anche se nella contessina Diana, tutto questo veniva mascherato da un altro disturbo di cui pure soffriva, e cioè una terribile emicrania, che avrebbe poi trasmesso ad alcuni dei suoi discendenti.
Aveva ricevuto un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, (e quindi conoscenza di greco, latino e francese), di canto, di danza, di equitazione e altre simili attività aristocratiche di elevata inutilità sociale, che si univano a quelle tradizionali di una signorina di quei tempi: sartoria, giardinaggio, erboristeria e cucina.
Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
Nella Contea di Casemurate il luogo deputato a questo evento memorabile non avveniva più, da tempo, in una proprietà degli Orsini, dal momento che la loro precedente e ben più antica abitazione era stata acquistata ballo dai facoltosi marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.
Gli Orsini e gli Spreti erano comunque legati da rapporti di parentela, in quanto, qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva sposato un conte Orsini, e dunque il nobile sangue degli Esarchi era entrato nelle vene dei discendenti di Orsino Fabio Massimo, mitico fondatore della famiglia Orsini e discendente dell'antichissima e patrizia gens dei Fabi Massimi dell'antica Roma.
Ma quei tempi erano passati ed ora gli Spreti erano indubbiamente i più ricchi e i più elevati come status sociale.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.
L'appendice "di Serachieda", derivava invece da un torrentello che scorreva proprio accanto alla Torre.
Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate, e per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di questioni di cui parleremo tra poco.
E questo era strano, perché oltre che nobile era anche bella: aveva grandi occhi neri e penetranti, che conferivano notevole intensità e fascino al suo sguardo, così come il profilo leggermente e aristocraticamente aquilino e i lunghi capelli neri pettinati come quelli di Vivien Leigh in Via col vento, che risaltavano maggiormente sulla pelle chiara.
Abbastanza alta, magra, aveva un portamento aggraziato, armonioso, che ben si addiceva ai modi gentili e un garbati e ad una personalità che presentava numerosi pregi, come il buon gusto, la capacità di conversare in maniera interessante, seppur con una certa riservatezza che permetteva soltanto in un secondo momento di conoscere anche l'intelligenza e la tenacia che caratterizzavano la sua personalità.
Non mancavano tuttavia i difetti come l'ironia un po' troppo corrosiva, la permalosità, la tendenza a non perdonare facilmente un torto subito, e i cambiamenti di umore troppo repentini, specie quando le emozioni oscillavano tra una malinconia esistenziale e una rabbia contro tutte le ingiustizie del mondo e della vita.
Erano questi i sintomi di una tara ereditaria dei Conti di Casemurate, una patologia che oggi potremmo definire disturbo bipolare, anche se nella contessina Diana, tutto questo veniva mascherato da un altro disturbo di cui pure soffriva, e cioè una terribile emicrania, che avrebbe poi trasmesso ad alcuni dei suoi discendenti.
Aveva ricevuto un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, (e quindi conoscenza di greco, latino e francese), di canto, di danza, di equitazione e altre simili attività aristocratiche di elevata inutilità sociale, che si univano a quelle tradizionali di una signorina di quei tempi: sartoria, giardinaggio, erboristeria e cucina.
Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
Nella Contea di Casemurate il luogo deputato a questo evento memorabile non avveniva più, da tempo, in una proprietà degli Orsini, dal momento che la loro precedente e ben più antica abitazione era stata acquistata ballo dai facoltosi marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.
Gli Orsini e gli Spreti erano comunque legati da rapporti di parentela, in quanto, qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva sposato un conte Orsini, e dunque il nobile sangue degli Esarchi era entrato nelle vene dei discendenti di Orsino Fabio Massimo, mitico fondatore della famiglia Orsini e discendente dell'antichissima e patrizia gens dei Fabi Massimi dell'antica Roma.
Ma quei tempi erano passati ed ora gli Spreti erano indubbiamente i più ricchi e i più elevati come status sociale.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.
L'appendice "di Serachieda", derivava invece da un torrentello che scorreva proprio accanto alla Torre.
Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate, e per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di questioni di cui parleremo tra poco.
A causa di tali ristrettezze Villa Orsini versava in condizioni decisamente peggiori di Villa Spreti, sebbene quest'ultima fosse molto più antica.
Villa Orsini era stata costruita soltanto agli inizi del '900, seguendo i criteri dello stile liberty, che trovavano il loro massimo trionfo in quello che non a caso era stato battezzato come il Salotto Liberty,
dove la contessa Emilia riceveva alle 5 pomeridiane, per un tè, tutte le dame altolocate della zona.
Queste visite tuttavia era tuttavia andate scemando, man mano che le fortune economiche degli Orsini si erano a tal punto aggravate da minacciare la proprietà stessa non solo della casa, ma anche delle terre rimanenti che costituivano il cosiddetto Feudo Orsini, che negli anni d'oro, secoli prima, comprendeva quasi l'intera Contea.
L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de' Calboli avevano avuto sei figli.
Eugenio (1913-1916) morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, la cui lunga vita sarà ampiamente narrata in questo romanzo.
Annalisa (1917- 1919) morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile, destinata a sposare il magistrato Giuseppe Papisco, da cui avrà numerosi discendenti, alcuni dei quali ricopriranno un certo ruolo in questa nostra storia. Ma proseguiamo con gli ultimi due figli.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Arturo, nato nel 1926, erede formale della Contea, era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.
Dal momento che Diana, all'epoca, era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati", come se lui fosse meno squattrinato di loro.
Tuttavia non proprio tutti i corteggiatori di Diana erano senza soldi: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia, nonché la nomea di prestatori di denaro a tassi usurari, erano state considerate, almeno in un primo momento, troppo sconvenienti.
Questo corteggiatore, come si era anticipato in precedenza, era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, detto Zùarz, nel locale dialetto gallo-romanzo.
La famiglia Ricci, nota in quel dialetto celtico come "Ca' ad Zùarz", era la principale creditrice della famiglia Orsini Balducci di Casemurate, detta "la Ca' de Count", con un tono nel quale rimaneva ben poco dell'antica reverenza, mentre dominava un senso di ironia che portava lo stesso Giorgio Ricci a parlare del suo debitore come di "un Count scunté".
Certo, agli occhi del Conte Achille, i Ricci rimanevano comunque "dei villani e degli zotici", ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio i suddetti zotici si trovavano in possesso delle ipoteche di cui si è detto.
Invano il Conte Orsini si era rivolto ai parenti di sua moglie.
Per troppo tempo avevano prestato, a fondo perduto, molti danari ai cognati di campagna, e non avevano nessuna intenzione di rinnovare un legame che in fondo non li riguardava più di tanto, appartenendo la contessa Emilia, per nascita, soltanto a un ramo collaterale e meno importante dei Calboli.
Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di condannare la leggerezza con cui in gioventù, tra investimenti sbagliati, spese folli, vizi inconfessabili e altre dissipatezze aveva dato il colpo di grazia ad una famiglia già in declino, che ormai si stava trasformando in un crollo totale.
In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara Marinelli Ricci, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.
L'apporto della maestra Clara e della sua famiglia d'origine, i borghesi Marinelli, aveva contribuito a almeno un po' a dirozzare le rudi maniere contadine dei Ricci, per non parlare del loro temperamento sanguigno, irascibile e assai poco propenso alle sottigliezze del galateo.
E tuttavia, raggiunta finalmente una certa agiatezza, il vecchio Giorgio Ricci si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i suoi numerosi figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.
Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti duri, contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.
Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare per tempo Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.
Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Senti, la vita reale non è come un romanzo di Jane Austen, dove alla fine la ragazza bella e intelligente sposa l'uomo bello e ricco di cui è pazzamente innamorata. No, qui siamo nel mondo reale e...>>
Diana interruppe la madre:
<<Lo so benissimo! Ma credevo che il mondo, dai tempi di Jane Austen, fosse migliorato! Sono passati più di cent'anni e ne abbiamo fatti di passi in avanti...>>
<<Verso il basso!>> concluse la madre <<Cent'anni fa la nostra famiglia era ricchissima, ora non più, per cui, se tu non sposerai Ettore, finiremo tutti sul lastrico>>
<<Vorrà dire che lavoreremo, io ho il diploma magistrale>> sottolineò Diana <<e dunque posso insegnare e voi troverete qualcosa di adatto...>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire:
<<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga!
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<Tuo padre ha ragione. In fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Le ultime parole famose...
Villa Orsini era stata costruita soltanto agli inizi del '900, seguendo i criteri dello stile liberty, che trovavano il loro massimo trionfo in quello che non a caso era stato battezzato come il Salotto Liberty,
dove la contessa Emilia riceveva alle 5 pomeridiane, per un tè, tutte le dame altolocate della zona.
Queste visite tuttavia era tuttavia andate scemando, man mano che le fortune economiche degli Orsini si erano a tal punto aggravate da minacciare la proprietà stessa non solo della casa, ma anche delle terre rimanenti che costituivano il cosiddetto Feudo Orsini, che negli anni d'oro, secoli prima, comprendeva quasi l'intera Contea.
L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de' Calboli avevano avuto sei figli.
Eugenio (1913-1916) morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, la cui lunga vita sarà ampiamente narrata in questo romanzo.
Annalisa (1917- 1919) morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile, destinata a sposare il magistrato Giuseppe Papisco, da cui avrà numerosi discendenti, alcuni dei quali ricopriranno un certo ruolo in questa nostra storia. Ma proseguiamo con gli ultimi due figli.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Arturo, nato nel 1926, erede formale della Contea, era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.
Dal momento che Diana, all'epoca, era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati", come se lui fosse meno squattrinato di loro.
Tuttavia non proprio tutti i corteggiatori di Diana erano senza soldi: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia, nonché la nomea di prestatori di denaro a tassi usurari, erano state considerate, almeno in un primo momento, troppo sconvenienti.
Questo corteggiatore, come si era anticipato in precedenza, era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, detto Zùarz, nel locale dialetto gallo-romanzo.
La famiglia Ricci, nota in quel dialetto celtico come "Ca' ad Zùarz", era la principale creditrice della famiglia Orsini Balducci di Casemurate, detta "la Ca' de Count", con un tono nel quale rimaneva ben poco dell'antica reverenza, mentre dominava un senso di ironia che portava lo stesso Giorgio Ricci a parlare del suo debitore come di "un Count scunté".
Certo, agli occhi del Conte Achille, i Ricci rimanevano comunque "dei villani e degli zotici", ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio i suddetti zotici si trovavano in possesso delle ipoteche di cui si è detto.
Invano il Conte Orsini si era rivolto ai parenti di sua moglie.
Per troppo tempo avevano prestato, a fondo perduto, molti danari ai cognati di campagna, e non avevano nessuna intenzione di rinnovare un legame che in fondo non li riguardava più di tanto, appartenendo la contessa Emilia, per nascita, soltanto a un ramo collaterale e meno importante dei Calboli.
Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di condannare la leggerezza con cui in gioventù, tra investimenti sbagliati, spese folli, vizi inconfessabili e altre dissipatezze aveva dato il colpo di grazia ad una famiglia già in declino, che ormai si stava trasformando in un crollo totale.
In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara Marinelli Ricci, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.
L'apporto della maestra Clara e della sua famiglia d'origine, i borghesi Marinelli, aveva contribuito a almeno un po' a dirozzare le rudi maniere contadine dei Ricci, per non parlare del loro temperamento sanguigno, irascibile e assai poco propenso alle sottigliezze del galateo.
E tuttavia, raggiunta finalmente una certa agiatezza, il vecchio Giorgio Ricci si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i suoi numerosi figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.
Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti duri, contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.
Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare per tempo Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.
Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Senti, la vita reale non è come un romanzo di Jane Austen, dove alla fine la ragazza bella e intelligente sposa l'uomo bello e ricco di cui è pazzamente innamorata. No, qui siamo nel mondo reale e...>>
Diana interruppe la madre:
<<Lo so benissimo! Ma credevo che il mondo, dai tempi di Jane Austen, fosse migliorato! Sono passati più di cent'anni e ne abbiamo fatti di passi in avanti...>>
<<Verso il basso!>> concluse la madre <<Cent'anni fa la nostra famiglia era ricchissima, ora non più, per cui, se tu non sposerai Ettore, finiremo tutti sul lastrico>>
<<Vorrà dire che lavoreremo, io ho il diploma magistrale>> sottolineò Diana <<e dunque posso insegnare e voi troverete qualcosa di adatto...>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire:
<<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga!
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<Tuo padre ha ragione. In fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Le ultime parole famose...