Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
martedì 11 luglio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 79. Il Processo: le deposizioni di Diana Orsini e di Ettore Ricci
La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana, a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller in stile John Grisham.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria sostanzialmente ignorante riguardo alle questioni di diritto penale o di medicina legale o criminologia, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.
Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte da Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:
<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco.
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento.
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, senza chiedere nulla in cambio, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati.
Ci sono cose che bisogna passare sotto silenzio, e un atto ispirato da un sentimento di umanità elementare a volte è giudicato severamente dalla legge.
Mio marito non ama le parole vuote: sentiva il dovere di compiere delle concrete azioni di filantropia e lo ha fatto.
Io non mi intendo di questioni contabili, come del resto non se ne intende mio marito: ci siamo affidati a persone che ora ci accusano, mentre dovrebbero riflettere sulla loro competenza e sulla loro lealtà.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>
Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<Ho ben presente tutto ciò che ho visto e sentito: è sempre vivo nella mia memoria, così come dovrebbe esserlo nella coscienza di chi, volontariamente o meno, ci ha arrecato un danno ingiusto.
So bene che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quanto meno lo stesso peso di chi ha testimoniato il contrario>>
Allora il Pubblico Ministero si limitò a sorridere, e nessuno di coloro che lo udirono dimenticò più l’orrore di quel sorriso.
Ma in quel momento arrivò il "barone" Lorenzo Monterovere, Cavaliere di Malta e Iniziato a chissà quali Misteri, e il riso del Procuratore morì sulle labbra.
La testimonianza di Diana Orsini era andata molto bene, tanto che l'avvocato Vanesio ingenuamente commentò:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare.
Si era creato un clima positivo in aula.
Naturalmente, però, Ettore Ricci, da par suo, rischiò di rovinare tutto con una deposizione spontanea destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità e della mia ignoranza a livello contabile, per confondermi le idee.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore non riconoscendo la mia ingenuità e la mia ignoranza.
Si è obiettato che l'ignoranza della legge non è una scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge.
Io non ho studiato, ho fatto solo le elementari.
Vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Coloro che mi accusano non vogliono punire i miei errori, per i quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità, ma il frutto del mio duro lavoro e delle mie fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte.
Rovinando me, i miei accusatori vogliono intimidire tutti coloro che, nati in una condizione sociale inferiore e oppressi in qualche modo dalla miseria, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che la presunzione dell'Elite altolocata chiama la "Buona Società">>
Quelle parole colpirono nel segno la platea del pubblico, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
Ma quello che nessuno aveva previsto, ed Ettore Ricci meno di tutti, fu il malore che lo colpì al termine del discorso.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco dei testimoni, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero".