Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
lunedì 26 giugno 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 73. Il Potere del Trio. Le indivisibili sorelle Ricci-Orsini
Per quanto fossero molto diverse tra loro, le tre figlie di Ettore Ricci e Diana Orsini erano sempre state legate da un eccezionale rapporto di simbiosi, dovuto sia al forte senso di appartenenza ad una grande famiglia allargata, che si concepiva come una vera e propria dinastia, sia ad un'intesa psicologica profonda, basata sull'aver condiviso esperienze forti e terribili, a partire dagli anni della guerra, fino all'innumerevole serie di scandali, lutti e rovesci di fortuna che si erano abbattuti sul clan nato dal tormentato matrimonio dei loro genitori e sul Feudo che essi amministravano come se vivessero ai tempi del Medioevo, o in quelli dell'Ancien Regime.
Ma c'era qualcosa di più.
C'era in loro un profondo e maggiormente oscuro elemento condiviso e cioè il conflitto interiore tra i geni paterni dei Ricci (esuberanti, ruspanti, intraprendenti, instancabili, sanguigni e collerici) e i geni materni degli Orsini (malinconici, flemmatici, raffinati, decadenti, esausti e perseguitati dall'emicrania).
Allo stesso modo si manifestava nella personalità delle tre sorelle l'ulteriore conflitto tra gli insegnamenti del padre Ettore e quelli della madre Diana, così diversi e quasi opposti tra loro, a tal punto da creare nelle figlie una specie di eterna oscillazione tra forza e delicatezza, tenacia e dubbio, spontaneità schietta e sussiego aristocratico, energia e apprensione, collera e garbo, volontà e catastrofismo, estroversione e riservatezza, coraggio e paura, progettualità e pessimismo integrale e radicale.
In tutte queste coppie di opposti inconciliabili, il primo veniva da Ettore Ricci, il self-made-man, sanguigno, forte, ma plebeo e il secondo veniva da Diana Orsini, aristocratica, raffinata, ma perennemente malinconica e disillusa a tal punto da rasentare il cinismo.
Dire che erano una "coppia male assortita" non rendeva l'idea della totale differenza tra i due coniugi.
Mentre Ettore era il classico tipo che si prefiggeva obiettivi ambiziosi ed era disposto a fare qualunque cosa pur di ottenerli, sua moglie Diana ripeteva sovente alle figlie una frase dai contenuti opposti:<<Non ottenere quello che si vuole, a volte, può essere una benedizione>>
Ettore esaltava il coraggio, l'ardore, l'orgoglio.
Diana invitava alla prudenza, alla pazienza e all'umiltà.
Era fortemente critica riguardo al mito del successo, rispetto a cui si esprimeva con argomentazioni filosofiche: <<Com'è abituale nell'evoluzione concreta delle cose, colui che ha trionfato e conquistato il godimento e il potere, ne diviene schiavo e dipendente, mentre colui che ne è stato privato conserva la propria umanità>>
C'era forse un rimprovero nemmeno troppo velato alla parabola umana del coniuge?
Era naturale che le tre figlie crescessero dilaniate dal dilemma se schierarsi dalla parte del padre o da quella della madre, durante le interminabili liti di questi ultimi, che proseguivano all'interno della stessa psiche delle loro eredi.
Con genitori tanto diversi e conflittuali, un figlio unico non avrebbe potuto che soccombere alla nevrosi. Ma per fortuna le figlie erano tre.
La salvezza delle sorelle fu dunque quella di aiutarsi e sostenersi reciprocamente sempre, diventando quasi un'unica entità, una trimurti, una trinità, un trio da cui si sprigionava un potere simile a quello delle mitiche sorelle Halliwell nella serie tv "Streghe".
Mantennero quel rapporto strettissimo persino dopo i rispettivi matrimoni e la nascita dei loro figli, tra lui peraltro col tempo sorse un rapporto alquanto simile, anche perché i tre cugini erano invece figli unici, e molto bisognosi di reciproco sostegno, durante l'infanzia nel Feudo di Casemurate.
Ma cerchiamo di conoscere meglio, singolarmente, le sorelle Ricci-Orsini, chiamandole col cognome dei loro considerevoli mariti.
La primogenita, Margherita Spreti di Serachieda, aveva sviluppato, in perfetta armonia col suo nome, un particolare interesse, anzi, una vera e propria mania, per i fiori e il giardinaggio.
La sua residenza di via Spreti era dunque circondata da un bellissimo giardino fiorito, di cui lei stessa si occupava personalmente tutti i giorni e per tutto il giorno.
Ma non si trattava di un hobby: era qualcosa di totalizzante, come se non esistesse altro nella vita.
Il problema, che potrebbe anche essere visto come una fortuna, sotto certi aspetti, era che il suo mondo iniziava e finiva in quel parco. Non le interessava minimamente tutto quello che succedeva al di fuori di quel microcosmo.
Poteva al massimo riservare una distratta attenzione alle notizie locali, riguardanti eventi accaduti entro un raggio di 15 km da casa sua, e pertanto di scarso interesse, se non per chi c'era andato di mezzo: incidenti stradali, furti, rapine in villa, grandinate, gatti smarriti, galline investite da un trattore, ubriachi finiti nel fosso Serachieda che si giustificavano dicendo che "il fosso mi è venuto addosso"
La Tenuta Spreti di Serachieda era considerata una specie di Svizzera in mezzo alla steppa dell'arida Romagna Centrale, le cui estati secche e roventi e i cui inverni rigidi e gelati avrebbero provocato una desertificazione simile a quella dell'Afghanistan se non ci fossero state le due grandi opere idrauliche realizzate dall'Azienda Monterovere dietro appalto pubblico della Regione, della Province e dei Comuni interessati, ossia il Canale di irrigazione Emiliano Romagnolo e l'imponente Diga di Ridracoli.
Il fatto che la seconda sorella Ricci-Orsini, Silvia, l'unica ad aver proseguito gli studi fino alla laurea in lettere classiche, avesse sposato Francesco Monterovere, membro della stessa famiglia realizzatrice di quelle fondamentali infrastrutture, oltre che noto e apprezzato docente di matematica e fisica, ne aveva accresciuto il prestigio e anche il ruolo di "intellettuale di famiglia".
Silvia Monterovere viveva in città, insegnava al Liceo Classico, e il suo salotto era frequentato dall'elite, anche se già alla fine degli Anni Ottanta incominciavano a manifestarsi, sia per i lutti che per gli attriti e gli iniziali sospetti dello scricchiolio del Feudo Orsini (e dei problemi giudiziari di Ettore Ricci), le prime illustri defezioni.
Ma Silvia, in quegli anni, non se ne preoccupava affatto.
All'epoca era una donna giovane, bella, sana e riponeva notevoli (e oggettivamente eccessive) speranze nel figlio, le cui doti sembravano promettere un luminoso futuro, magari come dirigente d'azienda ed erede dello stesso Ettore Ricci alla guida dell'intero clan degli Orsini.
Purtroppo accade spesso che gli enfant prodiges non si rivelino, da adulti, all'altezza delle aspettative createsi nei loro confronti.
Ma questa è un'altra storia, e sarà raccontata un'altra volta.
Più defilata, ma in realtà più perspicace e abile negli affari e nelle relazioni politiche era la terza sorella, la più giovane, Isabella Ricci-Orsini, nata nel 1943, l'anno del suicidio della sua omonima zia. Sposatasi con Saverio Zanetti Protonotari Campi, proprietario dell'azienda vinicola dell'Erbosa, Isabella aveva subito preso in mano la situazione, investendo cifre ingenti nell'impianto di nuove vigne di primissima qualità, che produssero negli anni successivi il migliore Trebbiano di Romagna che si fosse mai conosciuto, poiché quella terra argillosa e secca era perfetta per quel tipo d'uva.
Per quanto fisicamente molto simile alla madre, Isabella aveva ereditato dal padre una personalità capace di comprendere meglio, rispetto alle sorelle, le dinamiche degli affari e della politica.
Per questo appariva la più adatta ad ereditare il ruolo paterno, se le cose fossero andate nella giusta direzione.
Le diverse doti delle tre sorelle rendevano la loro unione ancora più efficace, poiché si completavano a vicenda e solo quando erano unite potevano riuscire a gestire nel modo migliore le questioni di famiglia. Col passare degli anni e il superamento delle crisi familiari, anche grazie alla loro capacità di rimanere unite e compatte, incominciarono a percepirsi come un unico monolite indistruttibile.
E questo fu il loro errore, da cui peraltro la loro madre le aveva messe in guardia.
<<Niente è indistruttibile>> era solita ripetere Diana Orsini.
Le sue figlie non le davano ascolto.
Non tenevano conto, però, del fatto che, come spesso Diana aveva sperimentato a sue spese, la vita può essere crudele al punto di accanirsi rabbiosamente e ripetutamente contro i propri bersagli, specie quelli che agli occhi degli estranei sembravano i più forti, per ricordare al mondo intero che, senza ombra di dubbio, niente è indistruttibile.