Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
giovedì 6 aprile 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 57. Un raggio di sole a Villa Orsini
Era nato col dono del riso e l'impressione che il mondo fosse folle. E questo fu tutto il suo patrimonio, o almeno la parte che non gli sarebbe stata tolta.
Suo padre volle dargli il nome di un re, e così fu chiamato Riccardo, dimenticando che tutti e tre i Riccardi che regnarono sull'Inghilterra erano morti giovani, e di morte violenta.
Ma Riccardo Monterovere non era un re, anche se fu cresciuto come un principe.
In sua difesa possiamo dire che seppe essere auto-ironico e questo lo salvò dalla tentazione di prendersi troppo sul serio.
Come si è già detto, la sua infanzia fu molto felice.
Nei suoi primi tre anni di vita, trascorse la maggior parte del tempo a Villa Orsini, dove i nonni e le bisnonne si prendevano cura di lui mentre i genitori lavoravano.
Insieme a lui c'erano anche i cugini Fabrizio e Alessio, anche loro figli unici: di fatto i tre cugini crebbero insieme come fratelli.
Ma Riccardo era un po' diverso dagli altri due.
Fabrizio e Alessio erano dei "piccoli lord", molto seri e giudiziosi, mentre Riccardo era più espansivo e imprevedibile, il che lo rendeva, sotto certi aspetti, più simile al nonno materno, il famigerato Ettore Ricci.
E questo aspetto non passò inosservato.
Nei primi mesi, Ettore si avvicinava alla culla e dava un buffetto alle guance del nipote, dicendo, in un dialetto affettuoso: "E mi zgalì" (Il mio cicalino).
Il bambino sorrideva spesso ed era molto affettuoso.
Nel giro di pochi mesi riuscì a farsi benvolere da tutti e ricevette da ciascuno dei parenti un affetto straordinario.
Col senno di poi è lecito porsi alcune domande. Fu forse troppo amato?
E' possibile essere troppo amati? Una nota canzone dice che "chi è troppo amato amore non dà", ma non è sempre vero.
Si possono muovere innumerevoli critiche legittime a Riccardo Monterovere, ma non quella di non saper amare: il suo affetto per i familiari era immenso, la sua amicizia era sempre generosa e sincera, e più tardi i suoi sentimenti per le ragazze e le donne di cui si innamorò furono profondi, onesti, romantici e passionali.
Quando incominciò a muovere i primi passi, mostrò subito un grande interesse per la natura e gli animali, di cui fu sempre amico per tutta la vita.
Seguiva la nonna Diana nel giardino e il nonno Ettore nei campi, negli orti, nelle stalle, nei pollai e persino nel porcile.
Poi, dopo aver fatto il bagno ed essere reso presentabile, passava del tempo nel Salotto Liberty con le due bisnonne: la maestra Clara gli insegnava il disegno, la contessa vedova Emilia gli raccontava le storie dei Re, delle Dinastie e degli alberi genealogici, che sarebbero diventati la sua fissazione, complice anche, in età scolare, la lettura delle opere di Tolkien.
Si può anzi dire che quella vita di "bambino di campagna", in una Contea agricola ancora molto legata alle tradizioni, e in una famiglia con un quarto di nobiltà e una venerazione per i propri antenati, lo predispose ad apprezzare tutti gli aspetti del mondo creato dalla grande mente del Professore di Oxford.
C'era però in lui anche il sangue celtico dei Monterovere, l'ossessione faentina dei Lanni per i corsi d'acqua e naturalmente il carattere sanguigno e romagnolo dei Ricci. Tutto questo lo rendeva predisposto a cogliere anche il lato comico e umoristico delle situazioni, ad affinare l'ironia e la capacità di satira e dunque a smorzare con uno scherzo o una battuta le situazioni troppo tese.
Con una similitudine illuminante, potremmo dire che, sotto tanti aspetti, Riccardo Monterovere era un po' come un gatto: sapeva essere buffo e nel contempo avere un suo stile.
Gli si poteva rimproverare una notevole mancanza di riservatezza, anche se, in fin dei conti, fu proprio grazie a questo suo piacere di raccontare che gli altri, conoscendolo, seppero perdonargli i suoi eccessi e apprezzare le sue qualità.
Una mente creativa può fare miracoli.
Per esempio, quel bambino di tre anni riuscì in un'impresa dove ogni altro aveva fallito, e cioè favorire la riappacificazione completa dei nonni Ettore e Diana, e creare un clima di allegria e spensieratezza a Villa Orsini.
Diana era tornata a sorridere.
In seguito avrebbe detto: <<Lui è stato come un raggio di sole nella mia vita, nella mia casa e nella mia famiglia>>
Persino Michele e Ida Braghiri si affezionarono a lui.
Gli insegnarono a giocare a briscola e a marafone, e lui si sarebbe ricordato per sempre le storpiature romagnole delle varie carte: l'asse al posto dell'asso, la bastona al posto del bastone, le danara al posto dei denari, le carti al posto delle carte, lissio al posto di liscio e così via.
E naturalmente fu lì che nacque il suo amore per i gatti, che discendevano tutti da una "aristogatta" di nome Duchessa, della razza Maine Coon, che Diana aveva acquistato in una fiera. Anche i gatti ebbero il loro albero genealogico e le loro dinastie, a seconda delle varie cucciolate e dei differenti padri.
E tutto era già pervaso da un alone di leggenda.