Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
giovedì 19 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 2. La Contea di Casemurate.
Se nella realtà esistesse un equivalente della Contea degli Hobbit, sarebbe senza dubbio la Contea di Casemurate, in Romagna, avente come centro il paese che le dà il nome, un nome strano, ma significativo riguardo ad un tacito, ma radicato desiderio, da parte dei suoi residenti, di non essere disturbati dal resto del mondo.
La storia di questo discreto angolo di mondo affonda le sue radici nel Medioevo.
Secondo le non troppo affidabili Cronache casemuratensi, della maestra elementare Clara Ricci Silvestrini (unica docente della scuola locale), pubblicate nel 1933 con tanto di prefazione del conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, l'etimologia del luogo sarebbe da attribuirsi alla fatto che il villaggio e il castello centrale, fin dalla loro fondazione, nel Medioevo, erano stati cinti di mura così solide da reggere a qualunque calamità, tranne le riforme urbanistiche di fine Ottocento.
L'unico dato relativamente certo consisteva nel fatto che il castello e il villaggio di Casemurate erano sorti presso l'incrocio tra due strade di una certa importanza, e cioè la Cervese, che collegava, e collega tutt'ora la città di Forlì con la cittadina costiera di Cervia, e il Dismano (antica Via Decumana) che collegava e ancor oggi collega le città di Ravenna e di Cesena.
Quelle due strade dividono tuttora la Contea di Casemurate in quattro parti, come i Decumani della Contea di Tolkien,
Pare anche assodato che i confini dell'antico feudo casemuratense fossero molto più estesi di quelli dell'attuale frazione, e pertanto il territorio della Contea tradizionale poteva essere all'incirca simile a un cerchio avente come centro l'incrocio tra la Cervese e il Dismano, e un diametro di circa quindici chilometri.
Per quanto, negli anni '30 del Novecento, le terre di Casemurate fossero suddivise in varie proprietà più o meno grandi, le Cronache casemuratensi ci ricordano che per molti secoli la signoria territoriale fu nelle mani di due sole potenti famiglie, gli Orsini Balducci, le cui fortune andarono poi decadendo nei secoli e i marchesi Spreti, che invece ebbero grande fortuna.
Le Cronache asseriscono inoltre che la fondazione della Contea di Casemurate si debba far risalire alla precisa data del 21 aprile 1278, quando Bertoldo Orsini, nipote di papa Niccolo III (quello con cui Dante ebbe un furente alterco in un Canto dell'Inferno, dopo averlo scambiato per Bonifacio VIII), della potente famiglia romana degli Orsini, fu nominato Conte di Romagna e affidò al fratello minore Bernardo il compito di presidiare la bassa pianura al centro del quadrilatero compreso tra le principali città della Romagna Settentrionale: Ravenna, Forli, Cesena e Cervia.
Fu così che, sempre secondo le Cronache della Maestra Ricci, nel 1278, Bernardo Orsini costruì una fortezza all'incrocio della Cervese e del Dismano e dove c'era un piccolo, anonimo villaggio, e la cinse di mura, dandole appunto il nome di Case Murate, che divenne poi Casemurate tutto attaccato.
Il documento probante tale atto di fondazione, secondo la scrupolosa indagine della Maestra Ricci, risultava conservato nell'archivio privato del Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, che si proclamava diretto discendente del fondatore Bernardo, basandosi sempre su documenti gelosamente custoditi nel suddetto archivio, talmente segreto che, escludendo il Conte e la Maestra, non era mai stato visto da anima viva.
Del resto, a voler essere del tutto sinceri, non rimanevano tracce archeologiche né delle mura, né del castello, della qual cosa le Cronache colpevolizzavano, testuali parole, "l'iconoclastia positivista e modernista delle pubbliche istituzioni del Regno d'Italia, negli anni successivi all'Unità, nonché la barbarie distruttiva dell'avanguardia futurista", parole che sembravano piuttosto improbabili nell'ambito del lessico pudibondo della Maestra Ricci, mentre esprimevano in pieno l'eloquio infuocato, nonché le idee ardite, del Conte Orsini.
L'unico motivo per cui il contenuto delle Cronache non fu messo in discussione dalla censura fascista potrebbe essere attribuito al numero piuttosto ristretto delle copie stampate, tenendo conto anche delle ristrettezze nelle quali la famiglia Orsini Balducci di Casemurate era venuta a trovarsi.
Se però la sorte degli Orsini pareva inesorabilmente orientata verso la bancarotta, al contrario la condizione finanziaria della famiglia Ricci, di cui la maestra Clara faceva parte, era del tutto florida, tanto che suo marito Giorgio, agiato agricoltore, stava ampliando i propri possedimenti e accumulando diritti d'ipoteca sulle stesse terre del Conte.
E di certo la fortuna dei Ricci di Casemurate era anche legata al fatto che Giorgio Ricci era stato uno dei primi fervidi aderenti del Fascismo, potendo vantare un'amicizia cordiale col Duce in persona, suo coetaneo e romagnolo come lui.
Giorgio Ricci e Clara Silvestrini avevano avuto molti figli dai nomi altisonanti suggeriti da un parroco fin troppo colto tra cui Aristide, Alberico, Caterina, Adriana, ma soprattutto
Ettore, che aveva ereditato dal padre il bernoccolo per gli affari e dalla madre la sconfinata ammirazione mista ad invidia nei confronti della famiglia Orsini.
Da tempo Ettore Ricci aveva messo gli occhi addosso alla figlia primogenita del Conte, la bella e raffinata contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate, che tuttavia non pareva ricambiare tali attenzioni.
Se ci è concessa una similitudine, Ettore Ricci era come il verghiano Mastro-Don Gesualdo, mentre Diana Orsini sembrava uscita da un romanzo di Jane Austin o Margaret Mitchell.
Date queste premesse, era già chiaro fin dall'inizio che le cose, per entrambi e le rispettive famiglie, per non parlare dell'intera Contea di Casemurate, avrebbero preso molto presto una brutta piega.
Vite quasi parallele. Capitolo 1. Ferdinando Monterovere disarcionato presso l'Orma del Diavolo
La sventura si abbatté per la prima volta sulla famiglia Monterovere in una gelida notte di febbraio del 1928, quando l'ottuagenario patriarca Ferdinando, di ritorno da una delle sue folli cavalcate in mezzo ai boschi dell'Appennino modenese, fu improvvisamente disarcionato dal suo destriero nei pressi di una località che la gente del luogo chiamava, premurandosi di fare i dovuti scongiuri, l'Orma del Diavolo.
Tale nome era legato ad un'antica superstizione.
I vecchi raccontavano che proprio in quel punto, attualmente situato tra il borgo di Querciagrossa e il castello di Monterovere, nelle vicinanze di Pavullo, migliaia di anni prima, esisteva un'enorme quercia, centro del culto pagano dei Druidi, praticato da alcune tribù dei Galli Boi, sopravvissute alla conquista romana della Gallia Cisalpina e ritiratesi nella zona appenninica retrostante alla via Emilia.
Secondo il non troppo affidabile testo "I Galli del Frignano", edito a proprie spese da Luigi Andrea Melegnati, erudito preside di una scuola media di Pavullo, in quelle zone dell'alto modenese, una tribù di Galli Boi si sarebbe fusa con ciò che restava degli antichissimi Friniati, altra popolazione pre-romana, e pur adeguandosi ad una romanizzazione di facciata, avrebbero coltivato in segreto le antiche tradizioni.
Sempre secondo il testo del Melegnati, quella stessa quercia sarebbe stata poi abbattuta per ordine dell'imperatore Teodosio I, nell'Anno Domini 389, in seguito alle devote, ma insistenti sollecitazioni di sant'Ambrogio, vescovo di Milano.
Poco dopo l'abbattimento dell'antica quercia celtica, incominciarono ad essere avvistati, in quel luogo già considerato un centro di stregoneria, alcuni fenomeni inspiegabili che presto vennero identificati come spiritelli notturni, folletti, elfi o fate del Piccolo Popolo di cui erano piene le leggende della tradizione celtica che, nonostante la colonizzazione romana e la predicazione cristiana, sopravvivevano radicate nell'immaginario collettivo delle piccole comunità dell'entroterra.
E forse parte di quell'antico sangue celtico scorreva persino nelle vene di Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, che si proclamava discendente del feldmaresciallo Raimondo Monterovere, conte di Querciagrossa e comandante degli eserciti austro-ungarici nella loro prima guerra contro i Turchi Ottomani.
Il castello dei Monterovere era ancora lì, in cima alla collina, ma la famiglia era ormai decaduta e, come avrebbe detto il professor Tolkien, "da lungo tempo orbata di signoria e comando".
Si manteneva vivo, tuttavia, un certo spirito aristocratico e sdegnoso, che attribuiva ai Monterovere, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e poco socievole, una certa aria di severo disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti di Querciagrossa, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "don Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello che un tempo era appartenuto ai suoi antenati,
Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti era estremamente gentile, e amava trascorrere le serate accanto al focolare, raccontando ai bambini le antiche leggende celtiche, fino a che la brace non si spegneva e i piccoli già erano tra le braccia di Morfeo.
Pur amando molto queste leggende, non aveva mai dato troppo credito alle voci riguardanti l'Orma del Diavolo e riteneva che gli unici veri pericoli, in una foresta, fossero i briganti, i lupi, gli orsi e i cinghiali.
Mai e poi mai si sarebbe lasciato convincere da certe superstizioni inventate dalle vecchie comari bigotte per mettere in cattiva luce i pagani.
E tuttavia quando nel tardo pomeriggio del 28 febbraio 1928, ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo agonizzante del cavallo azzoppato, nessuno riscontrò tracce di violenza da parte di briganti, lupi, orsi o cinghiali.
Certo, la spiegazione più razionale sarebbe stata che un uomo anziano come lui, di oltre ottant'anni, poteva essere caduto da cavallo per aver perso il controllo delle redini, o per un malore.
Oppure poteva essere stato lo stesso cavallo, anch'esso non più giovanissimo, ad essere morto e stramazzato a terra, portandosi dietro all'altro mondo il suo padrone, ammesso che esista un altro mondo per i cavalli, per non parlare degli umani.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.
La vicenda suscitò profondo scalpore tra gli abitanti del paese e rafforzò la loro convinzione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.
Diverse furono le reazioni dei figli del defunto Ferdinando.
Il primogenito, Enrico, prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa Padana, insieme alla moglie Eleonora e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, e sfidando le nebbie, i rigori degli interminabili inverni e l'afa soffocante delle estenuanti estati tra mosche e zanzare, si stabilì nelle campagne tra Ravenna e Faenza.
Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle "wuthering highs" del Monte Cimone, a Sestola e Fanano.
Il terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.
Difficile dire chi fece la scelta peggiore.