Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
venerdì 31 gennaio 2014
Il rischio Grecia è alle porte, a partire dalla Sicilia e da Napoli
Il disastro della Sicilia è identico a quello dello stato ellenico (e a quello di altre città italiane)
- 31-01-2014
di Giorgio Mulè (Panorama)
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Ci sono segnali che non vanno sottovalutati. Guai a farlo, perché spesso le conseguenze possono essere deleterie se non addirittura letali. E allora, nel clamoroso silenzio di giornali e televisioni, c’è da spalancare gli occhi su quanto avviene in Sicilia. La scorsa settimana denun ciammo con forzal’«illusionista» Rosario Crocetta, il governatore sprecone che aveva messo in piedi una finanziaria da Ridolini. Un papocchio contabile fermato dal commissario dello Stato, nel giorno stesso in cui Panorama è arrivato in edicola, con la bocciatura di 33 dei 50 articoli che componevano la legge di stabilità. Un disastro mai avvenuto nella storia dell’autonomia isolana.
Conseguenza: con le casse improvvisamente vuote, il 27 gennaio non è stato pagato lo stipendio a circa 30 mila dipendenti regionali. Non solo. In questa situazione, Crocetta ha annunciato che nel giro di qualche settimana chiuderanno per asfissia finanziaria i teatri pubblici di Palermo, Catania, Messina, gli enti parco, le scuole per ciechi e sordi, i ricoveri per minori, i centri per i disabili.
Non giriamoci intorno: è il «modello Grecia», quello prodotto dalla desertificazione industriale in cui non si crea ricchezza ma si spremono di tasse i contribuenti. Siamo davanti all’aspetto più mastodontico e vergognoso della malapolitica, che non fonda il consenso su un’economia sana fatta di industrie ma si nutre di stipendi pubblici e mantiene 28.542 guardie forestali (per la nota equazione clientelare secondo cui a un albero deve corrispondere un dipendente). C’è una responsabilità politica enorme alla radice: un fanfarone che ha fatto sempre leva sull’antimafia, con affermazioni apodittiche e teorie prive di riscontro, ha pensato bene di governare da solo con la criminalizzazione costante di quelli che si oppone- vano alle sue stramberie. Un delirio di onnipotenza infarcito da una nouvelle vague amministrativa strampalata che lo ha convinto di potere impunemente sputacchiare sui partiti e sulle regole.
Insomma, un capolavoro in salsa siciliana. Il governo nazionale ora e senza perdere altro tempo deve mettere «sotto tutela» la Regione (il governatore, pensate, ha il rango di ministro e partecipa con diritto di voto alle riunioni a Palazzo Chigi che affrontano questioni legate all’isola). Il disastro siciliano, con tagli e tasse d’ispirazione ateniese, può essere l’inizio della fine per tutto il Paese: è spiacevole e persino tragico ammetterlo, ma siamo a buon punto per diventare come la Grecia.
Ci rifletta Matteo Renzi. Perché da segretario del Pd arriverà presto a un punto chiave quando sarà ineluttabile mettere mani alle realtà territoriali: appoggerà la giunta fallimentare di Luigi de Magistris (vedere l’articolo a pagina 11)? Si schiererà al fianco di quelle rosso sbiadite di Palermo, Genova, Milano? E quando dovrà affrontare realtà regionali come la Sicilia, che cosa farà il «nuovo» Pd: salverà il fanfarone? O si schiererà giustamente con il commissario dello Stato per fermare un bluff e tentare di salvare l’isola?
Se il capitalismo diventa di sinistra
I motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.
Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).
Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese.
Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite le riforme Berlinguer, , distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).
Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.
Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx a Roberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.
In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.
Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.
Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.
Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.
È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.
Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.
La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo. In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.
Fonte: Lo Spiffero
Gli Arcani Supremi. Capitolo 78. Il piano di India e Robert
<<La tua proposta mi rende felice. Forse un giorno diventerò davvero la tua duchessa, ma prima dobbiamo risolvere molte questioni in sospeso con gli Iniziati, con le nostre famiglie, con i nostri nemici e in generale con il resto dell'umanità>>
La leggera ironia con cui India pronunciò quelle parole fece sorridere Robert.
<<Allora temo che il nostro fidanzamento sarà più lungo del previsto>>
India si fermò un attimo a riflettere:
<<Non troppo lungo. Direi un anno e mezzo, all'incirca. Pensi di potermi aspettare?>>
<<Ti aspetterei per tutta la vita, e anche per le vite successive>>
Quelle parole la commossero:
<<Cosa ho fatto per meritarmi tanto amore?>>
Robert la abbracciò:
<<Sei una ragazza seria e colta, senza essere acida e saccente. E persino ora che sei un'Iniziata e hai visto il tuo destino di somma sacerdotessa, hai mantenuto la semplicità e la dolcezza che avevi prima. E poi le memorie di Vivien, che riposano nella tua mente, fanno sì che tu mi conosca meglio di qualsiasi altra donna>>
India sorrise:
<<E va bene, mi hai convinta! Ora però devi ascoltarmi. Dobbiamo concordare un piano d'azione per dare una soluzione a tutti i quesiti che sono rimasti in sospeso, primo tra tutti il fatto che, pur avendo superato l'Iniziazione e guardato al di là dal Varco, non l'abbiamo voluto riaprire. Mio padre e lady Edith andranno su tutte le furie, a meno che non troviamo una spiegazione convincente, il che significa una bugia, o meglio una mezza verità, ben raccontata>>
Nel vedere il volto di lei illuminarsi e la sua bocca sorridere, Robert si sentì completamente disposto a fare qualsiasi cosa India avesse in mente.
<<Qual è il tuo piano, mia adorata?>>
Lei gli accarezzò i capelli e incominciò a parlare lentamente, a voce bassa, come se qualcuno potesse in qualche modo udire il loro complotto, anche se erano soli.
<<Prima andremo dai miei genitori. Mio padre vorrà ascoltare la versione di entrambi, per cui dobbiamo metterci d'accordo nei minimi particolari>>
Per le successive due ore, India spiegò a Robert tutto quello che avrebbero dovuto dire e fare.
Si trattava di un piano ambizioso, con una certa dose di rischio, ma potevano farcela.
<<Non abbiamo alternative. Se fallissimo, allora nessuno potrebbe salvarsi dal Grande Cataclisma che nel prossimo secolo si abbatterà su tutti noi. Nel qual caso, almeno in questo universo, l'uomo scomparirà>>
Robert annuì, chiedendosi se, in fin dei conti, l'umanità meritasse di salvarsi.
Forse non se lo merita, ma questo non ci può esentare dal compiere il nostro dovere.